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2023-08-07
Errori d’autore in cucina
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Intervistata da Florencia Di Stefano nel podcast Radio Capital BFF - Best Friend Florencia il 27 luglio scorso, alla domanda «C’è un cibo o un piatto che per noi italiani è off limits e tu rivaluti?» Benedetta Rossi, la nota foodblogger di Fatto in casa da Benedetta con milioni di follower, ha detto: «Io sono una che faccio la carbonara sbagliata, a me piace la carbonara sbagliata, a me piace con la frittatina». La Di Stefano ha chiesto cosa significa, e Benedetta: «Che l’uovo è bello cotto! Mamma me l’ha sempre fatta così, la carbonara quella vera, che mi sa di casa, di famiglia è proprio con la frittatina». La conduttrice: «È come il riso alla cantonese col pezzo di uovo cotto dentro?» «Esatto. Mi piace anche l’altra, ma la carbonara che identifica la mia infanzia è con la frittatina. Ci devo fare un video, la mia carbonara sbagliata». Non si capisce se con l’espressione «frittatina» Benedetta volesse indicare l’uovo rappreso come in una frittata attraverso il contatto col calore della pasta e del guanciale nella carbonara da manuale o dire che cuoce le uova a parte, addirittura in forma di frittata, e poi unisce le uova siffatte alla pasta.
Il sito internet del Gambero Rosso ha dedicato un articolo alla vicenda intitolato «A frittata o cremosa? La carbonara sbagliata di Benedetta Rossi è in realtà giustissima», nel quale sembra propendere per la frittatina come cottura autonoma dell’uovo, poi unito alla pasta: «uova “a frittatina” quindi sbattute e cotte leggermente in padella, poi unite alla pasta», scrive. La cremizzazione, ossia la liquefazione del condimento che prima liquido non era, direbbe quello Zygmunt Bauman che ha dedicato la vita a rintracciare metaforiche liquefazioni di strutture sociali solide, è una pratica molto amata dagli chef di ricerca. La crema di tuorlo della carbonara, col tuorlo crudo o - attenzione - solo apparentemente tale, dal punto di vista storico è più o meno un falso, come lo è la cremina della cacio e pepe, altro condimento che gran parte della ristorazione professionale preferisce liquido. Non possiamo sapere se mai nessuno nella storia nella sua personale esecuzione abbia preferito liquefare, ma è certo che la trasformazione del condimento in crema, con tanto di interventi di liquefazione e mantenimento della stessa che modificano l’esecuzione tradizionale della ricetta, sia una preferenza di oggi per molti divenuta dogma. Notorio è, infatti, che la cacio e pepe delle osterie non doveva essere ingoiabilissima, proprio per indurre i clienti a bere più vino; e abbastanza certo è che la carbonara, aggiungendo le uova (intere, diversamente da oggi che per la cremina si preferisce usare solo il tuorlo) a una pasta e a un guanciale roventi, a fuoco acceso o appena spento, non sarebbe mai potuta risultare condita di crema di tuorlo liquida, effetto che oggi molti amplificano aggiungendo panna (ecco perché via l’albume). La perfetta consistenza della carbonara è quella di un uovo appena cotto, com’è l’uovo strapazzato. Non ultracotto come lo è in una frittata, meno che mai cotto a parte. Se vogliamo riferirci all’universo delle frittate, l’uovo nella carbonara al limite è «a interno di omelette baveuse» (bavosa, cioè appena rappresa, perché quella parte non tocca mai direttamente la pentola, questa omelette, infatti, si cuoce solo da un lato e poi si chiude a mezzaluna). Ciò non toglie che la tendenza cheffistica a liquefare sia più che lecita, perché come non esiste una fantomatica dittatura della ristorazione stellata che possa imporre alla cucina casalinga di scomparire, non esiste nemmeno la dittatura popolare che debba andare a dire allo chef come cucinare. La cremina della carbonara degli chef è apprezzabile, come lo è quella della cacio e pepe, e ha creato un nuovo canone della carbonara.
Va anche annotato che il cuciniere casalingo oggi è molto attento a non mangiare uova crude, mentre il cuoco di professione, come il pasticciere professionista, se vuole usare il tuorlo letteralmente crudo ha a disposizione tuorli pastorizzati che il cuciniere casalingo non trova al supermercato, oppure possiede la conoscenza per pastorizzare nella sua cucina professionale che, altrettanto, il casalingo non ha. Non si sa, dunque, se la Rossi con l’espressione «a frittatina» volesse indicare delle semplici uova fatte rapprendere il più possibile nel momento in cui si mescolano a pasta e guanciale caldi o se sia vera l’interpretazione divulgata da Gambero Rosso on line, ossia un’irrituale ed erronea, ma non un voluto «errore» d’autore, cottura a parte. Anche il riso alla cantonese, che nel dialogo si usa come paragone, non prevede alcuna frittata cotta a parte e poi unita al riso, come fanno tanti: le uova sbattute si mantecano col riso nel wok. Se la frittatina è una sorta di bestemmia per il piatto cinese, per la carbonara lo è al cubo. Bestemmia non verso gli chef, ma verso la norma: nemmeno la norma è una dittatura, ma se facciamo riferimento a una ricetta con tanto di nome, beh, dovremmo sapere come si fa. Poi, possiamo anche stravolgerla perché, signori, vige la democrazia alimentare: se mi piace pucciare le patatine fritte nella Nutella e non nella maionese, io posso farlo. E posso divulgare la mia preferenza sui social network e nei media se sono un personaggio pubblico invitato a parlare. A volte gli chef si domandano chi dia al food influencer il diritto di parlare di come e cosa cucina non essendo chef: il fatto che chiunque debba cucinare ogni giorno per mangiare gli dà diritto di parlare di come e cosa cucina. Ma ne deve parlare da cuciniere casalingo.
La nota frase latina De gustibus non disputandum est è sacrosanta, e se a Benedetta le uova piacciono talmente rapprese da parere sughero, ha assolutamente diritto a coltivare e raccontare questo gusto. Pure di fare la frittata, se vuole. Ciò che non andrebbe fatto, però, è tentare di far passare la propria preferenza di gusto e/o la propria misconoscenza per una recherche culinaire alla Gualtiero Marchesi. Un po’ una bestemmia, infatti, appare anche il ricorso del cuciniere casalingo alla terminologia che appartiene al cuoco professionista. La carbonara con le uova stracotte rinsecchite o, ancora peggio, cotte a parte e poi unite fatta in casa dal food blogger che avesse anche 10 miliardi di follower non è una «carbonara sbagliata»: semplicemente non è una carbonara, come, mutatis mutandis, non è una pizza margherita una pizza con la salsa di pomodoro aggiunta a crudo dopo la cottura. Se lo fa uno chef di professione e di ricerca, costui può legittimamente presentare quei piatti frutto come «La mia versione della vera ricetta canonica» e «Vera ricetta canonica sbagliata». Questi non sono concetti che appartengono al cuciniere amatoriale e andrebbero al massimo usati, autoironicamente, per ironizzare su un errore procedurale o su un gusto personale, e non per negare che un errore o un gusto questo siano. Errori o gusti anonimi non sono varianti d’autore, perché non c’è nessun autore. La variante d’autore non è un casuale «famolo strano» alla Ivano di Viaggi di nozze: per capire le avanguardie gastronomiche bisogna conoscere il lavoro che le avanguardie storiche hanno condotto nei confronti della tradizione e della norma artistica nella storia dell’arte.
L’improvvisazione è figlia del talento. Parola di Marchesi
Gualtiero Marchesi fu intervistato da La Stampa per l’uscita de Il codice Marchesi il 13 novembre 2006. Quando gli chiesero «Come si impara a cucinare bene?», rispose: «Ci sono migliaia di ricette codificate, ma l’esecuzione è essenziale. Bela Bartok diceva che l’improvvisazione presuppone la conoscenza della materia. Altrimenti, cosa crei? Vi rendete conto che Mozart ha dettato il Requiem a Salieri, mentre stava morendo? Aveva dentro la musica». «Maestro, sta parlando di geni...», gli rispose l’intervistatore. E Marchesi: «Quelli che non lo sono, è meglio che imparino a cucinare». Gualtiero Marchesi è stato il più importante cuoco italiano della contemporaneità e le sue versioni d’autore, che sono talmente alte da elevarsi a vere e proprie visioni culinarie, sono - sembra un paradosso, ma non lo è - come la tradizione: attraversano il passare del tempo restando sempre le più impattanti e iconiche, perché sono state le prime versioni d’autore. Per dirla in maniera scherzosamente apocalittica, aprés Marchesi le diluges... de versions d’auteur! Ma la variante d’autore è come l’amore: la prima non si scorda mai e se siamo mangiatori, critici e cuochi seri non possiamo non riconoscerlo. La prima variante d’autore segna la prima tappa di distanziamento di un canone fino ad allora intoccato, è un’elaborazione originale e non banale, rischio in cui invece si incorre nel momento in cui quarant’anni dopo Marchesi, e tutte le versioni d’autore anche successive alle sue, per lo chef di professione creare rielaborazioni è diventata la norma e la fantasia può scarseggiare. Nella versione d’autore, l’intervento sulla forma non è un gioco sterile, ma un intervento sulla sostanza: spesso, anzi, è l’intervento sulla sostanza che determina la forma. Marchesi disse: «La mia è la cucina della verità, ovvero della forma, quindi della materia». Per il grandissimo chef, il più artistico degli chef artisti, la forma è materia. Una delle ricette di Marchesi che più colpisce l’osservatore sono i suoi Cubi di costoletta del 1991, che Marchesi definiva «la costoletta di vitello alla milanese secondo me». Spiegandola durante un’intervista disse: «Sapete che la costoletta alla milanese classica è alta, alta quanto l’osso, perciò viene tagliata all’altezza dell’osso, viene impanata alla milanese con uova e poi pane grattugiato e cotta nel burro. Per evitare che il cliente si lamenti sempre che la costoletta non è abbastanza cotta, ho pensato di tagliare il quadrello, la parte importante, lasciando un pezzetto attaccato all’osso per far vedere che è una costoletta. Poi si taglia a cubi, impana, frigge nel burro chiarificato, come si fa una costoletta alla milanese. Viene poi servita su un piatto speciale perché ho pensato di disegnare l’ombra del manico e dei cubi della costoletta in modo che anche il cuoco la metta nel posto giusto e mano mano che si mangia rimane l’ombra sul piatto. È una cosa spiritosa». La variante d’autore di Marchesi chiama in causa la chimica e la fisica della conduzione del calore tramite convezione. A parità di procedura e di temperatura, la cottura al cuore di un pezzo di alimento più piccolo dell’alimento intero si raggiunge prima. Cambia anche l’impatto nutrizionale del piatto. In una costoletta di Marchesi c’è più panatura perché i cubi sono i bocconi che nella costoletta fritta intera e poi tagliata risulterebbero impanati solo sopra e sotto, nella costoletta di Marchesi sono impanati anche i lati. Questo aumenta la quantità di grasso di cottura assorbita? No, anzi, la cotoletta intera ne assorbe di più. Un alimento tagliato a pezzetti medio-piccoli assorbe l’olio e in generale il grasso nel quale viene fritto nella misura del 10% del suo peso. Aumentando l’area di assorbimento, può aumentare la percentuale di grasso di frittura assorbito fin oltre il 40%. Anni e anni dopo Marchesi, Carlo Cracco che è stato suo allievo, ha realizzato la Milano sbagliata, cioè la costoletta alla milanese secondo lui. Per 4 persone, la costoletta è ridotta a 4 fette da 15 g e forma rettangolare 8 cm x 5 cm ciascuna di fassona battuta. Si frullano 100 g di pan carré, si sbattono le uova, si ritaglia della carta da forno in rettangoli di circa 8 cm x 5 cm e li si passa, solo da un lato, nell’uovo, poi nel pane, si ripete (una doppia panatura). Si friggono le panature in 400 grammi di burro chiarificato e 100 di olio evo. Si rifila la forma rettangolare. Si salano i rettangoli panati e i rettangoli di carne. Si posiziona la panatura a centro piatto, ci si poggia sopra la carne, si gratta la scorza di limone. Qui la carne è cruda e la parte crunchy della panatura è autonoma. La porzione è minima e chiunque può godere le caratteristiche essenziali della costoletta alla milanese con un abbattimento calorico importante. La lombata di vitello ha 244 calorie, consideriamo che, osso escluso, una costoletta alla milanese tradizionale pesa circa 200 grammi, quindi siamo a quasi 500 calorie. 15 grammi di fassona ne hanno 18.
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In una recente intervista, Benedetta Rossi ha detto che la sua carbonara preferita è quella con la «frittatina», un affronto per i puristi della cucina. Ma chi decide qual è la versione corretta?Gualtiero Marchesi, il più grande cuoco italiano, dichiarò che la sua era la cucina della verità. La costoletta da lui rivisitata ha fatto la storia.Lo speciale contiene due articoli.Intervistata da Florencia Di Stefano nel podcast Radio Capital BFF - Best Friend Florencia il 27 luglio scorso, alla domanda «C’è un cibo o un piatto che per noi italiani è off limits e tu rivaluti?» Benedetta Rossi, la nota foodblogger di Fatto in casa da Benedetta con milioni di follower, ha detto: «Io sono una che faccio la carbonara sbagliata, a me piace la carbonara sbagliata, a me piace con la frittatina». La Di Stefano ha chiesto cosa significa, e Benedetta: «Che l’uovo è bello cotto! Mamma me l’ha sempre fatta così, la carbonara quella vera, che mi sa di casa, di famiglia è proprio con la frittatina». La conduttrice: «È come il riso alla cantonese col pezzo di uovo cotto dentro?» «Esatto. Mi piace anche l’altra, ma la carbonara che identifica la mia infanzia è con la frittatina. Ci devo fare un video, la mia carbonara sbagliata». Non si capisce se con l’espressione «frittatina» Benedetta volesse indicare l’uovo rappreso come in una frittata attraverso il contatto col calore della pasta e del guanciale nella carbonara da manuale o dire che cuoce le uova a parte, addirittura in forma di frittata, e poi unisce le uova siffatte alla pasta.Il sito internet del Gambero Rosso ha dedicato un articolo alla vicenda intitolato «A frittata o cremosa? La carbonara sbagliata di Benedetta Rossi è in realtà giustissima», nel quale sembra propendere per la frittatina come cottura autonoma dell’uovo, poi unito alla pasta: «uova “a frittatina” quindi sbattute e cotte leggermente in padella, poi unite alla pasta», scrive. La cremizzazione, ossia la liquefazione del condimento che prima liquido non era, direbbe quello Zygmunt Bauman che ha dedicato la vita a rintracciare metaforiche liquefazioni di strutture sociali solide, è una pratica molto amata dagli chef di ricerca. La crema di tuorlo della carbonara, col tuorlo crudo o - attenzione - solo apparentemente tale, dal punto di vista storico è più o meno un falso, come lo è la cremina della cacio e pepe, altro condimento che gran parte della ristorazione professionale preferisce liquido. Non possiamo sapere se mai nessuno nella storia nella sua personale esecuzione abbia preferito liquefare, ma è certo che la trasformazione del condimento in crema, con tanto di interventi di liquefazione e mantenimento della stessa che modificano l’esecuzione tradizionale della ricetta, sia una preferenza di oggi per molti divenuta dogma. Notorio è, infatti, che la cacio e pepe delle osterie non doveva essere ingoiabilissima, proprio per indurre i clienti a bere più vino; e abbastanza certo è che la carbonara, aggiungendo le uova (intere, diversamente da oggi che per la cremina si preferisce usare solo il tuorlo) a una pasta e a un guanciale roventi, a fuoco acceso o appena spento, non sarebbe mai potuta risultare condita di crema di tuorlo liquida, effetto che oggi molti amplificano aggiungendo panna (ecco perché via l’albume). La perfetta consistenza della carbonara è quella di un uovo appena cotto, com’è l’uovo strapazzato. Non ultracotto come lo è in una frittata, meno che mai cotto a parte. Se vogliamo riferirci all’universo delle frittate, l’uovo nella carbonara al limite è «a interno di omelette baveuse» (bavosa, cioè appena rappresa, perché quella parte non tocca mai direttamente la pentola, questa omelette, infatti, si cuoce solo da un lato e poi si chiude a mezzaluna). Ciò non toglie che la tendenza cheffistica a liquefare sia più che lecita, perché come non esiste una fantomatica dittatura della ristorazione stellata che possa imporre alla cucina casalinga di scomparire, non esiste nemmeno la dittatura popolare che debba andare a dire allo chef come cucinare. La cremina della carbonara degli chef è apprezzabile, come lo è quella della cacio e pepe, e ha creato un nuovo canone della carbonara.Va anche annotato che il cuciniere casalingo oggi è molto attento a non mangiare uova crude, mentre il cuoco di professione, come il pasticciere professionista, se vuole usare il tuorlo letteralmente crudo ha a disposizione tuorli pastorizzati che il cuciniere casalingo non trova al supermercato, oppure possiede la conoscenza per pastorizzare nella sua cucina professionale che, altrettanto, il casalingo non ha. Non si sa, dunque, se la Rossi con l’espressione «a frittatina» volesse indicare delle semplici uova fatte rapprendere il più possibile nel momento in cui si mescolano a pasta e guanciale caldi o se sia vera l’interpretazione divulgata da Gambero Rosso on line, ossia un’irrituale ed erronea, ma non un voluto «errore» d’autore, cottura a parte. Anche il riso alla cantonese, che nel dialogo si usa come paragone, non prevede alcuna frittata cotta a parte e poi unita al riso, come fanno tanti: le uova sbattute si mantecano col riso nel wok. Se la frittatina è una sorta di bestemmia per il piatto cinese, per la carbonara lo è al cubo. Bestemmia non verso gli chef, ma verso la norma: nemmeno la norma è una dittatura, ma se facciamo riferimento a una ricetta con tanto di nome, beh, dovremmo sapere come si fa. Poi, possiamo anche stravolgerla perché, signori, vige la democrazia alimentare: se mi piace pucciare le patatine fritte nella Nutella e non nella maionese, io posso farlo. E posso divulgare la mia preferenza sui social network e nei media se sono un personaggio pubblico invitato a parlare. A volte gli chef si domandano chi dia al food influencer il diritto di parlare di come e cosa cucina non essendo chef: il fatto che chiunque debba cucinare ogni giorno per mangiare gli dà diritto di parlare di come e cosa cucina. Ma ne deve parlare da cuciniere casalingo. La nota frase latina De gustibus non disputandum est è sacrosanta, e se a Benedetta le uova piacciono talmente rapprese da parere sughero, ha assolutamente diritto a coltivare e raccontare questo gusto. Pure di fare la frittata, se vuole. Ciò che non andrebbe fatto, però, è tentare di far passare la propria preferenza di gusto e/o la propria misconoscenza per una recherche culinaire alla Gualtiero Marchesi. Un po’ una bestemmia, infatti, appare anche il ricorso del cuciniere casalingo alla terminologia che appartiene al cuoco professionista. La carbonara con le uova stracotte rinsecchite o, ancora peggio, cotte a parte e poi unite fatta in casa dal food blogger che avesse anche 10 miliardi di follower non è una «carbonara sbagliata»: semplicemente non è una carbonara, come, mutatis mutandis, non è una pizza margherita una pizza con la salsa di pomodoro aggiunta a crudo dopo la cottura. Se lo fa uno chef di professione e di ricerca, costui può legittimamente presentare quei piatti frutto come «La mia versione della vera ricetta canonica» e «Vera ricetta canonica sbagliata». Questi non sono concetti che appartengono al cuciniere amatoriale e andrebbero al massimo usati, autoironicamente, per ironizzare su un errore procedurale o su un gusto personale, e non per negare che un errore o un gusto questo siano. Errori o gusti anonimi non sono varianti d’autore, perché non c’è nessun autore. La variante d’autore non è un casuale «famolo strano» alla Ivano di Viaggi di nozze: per capire le avanguardie gastronomiche bisogna conoscere il lavoro che le avanguardie storiche hanno condotto nei confronti della tradizione e della norma artistica nella storia dell’arte.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/errori-dautore-in-cucina-2662892992.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="limprovvisazione-e-figlia-del-talento-parola-di-marchesi" data-post-id="2662892992" data-published-at="1691432008" data-use-pagination="False"> L’improvvisazione è figlia del talento. Parola di Marchesi Gualtiero Marchesi fu intervistato da La Stampa per l’uscita de Il codice Marchesi il 13 novembre 2006. Quando gli chiesero «Come si impara a cucinare bene?», rispose: «Ci sono migliaia di ricette codificate, ma l’esecuzione è essenziale. Bela Bartok diceva che l’improvvisazione presuppone la conoscenza della materia. Altrimenti, cosa crei? Vi rendete conto che Mozart ha dettato il Requiem a Salieri, mentre stava morendo? Aveva dentro la musica». «Maestro, sta parlando di geni...», gli rispose l’intervistatore. E Marchesi: «Quelli che non lo sono, è meglio che imparino a cucinare». Gualtiero Marchesi è stato il più importante cuoco italiano della contemporaneità e le sue versioni d’autore, che sono talmente alte da elevarsi a vere e proprie visioni culinarie, sono - sembra un paradosso, ma non lo è - come la tradizione: attraversano il passare del tempo restando sempre le più impattanti e iconiche, perché sono state le prime versioni d’autore. Per dirla in maniera scherzosamente apocalittica, aprés Marchesi le diluges... de versions d’auteur! Ma la variante d’autore è come l’amore: la prima non si scorda mai e se siamo mangiatori, critici e cuochi seri non possiamo non riconoscerlo. La prima variante d’autore segna la prima tappa di distanziamento di un canone fino ad allora intoccato, è un’elaborazione originale e non banale, rischio in cui invece si incorre nel momento in cui quarant’anni dopo Marchesi, e tutte le versioni d’autore anche successive alle sue, per lo chef di professione creare rielaborazioni è diventata la norma e la fantasia può scarseggiare. Nella versione d’autore, l’intervento sulla forma non è un gioco sterile, ma un intervento sulla sostanza: spesso, anzi, è l’intervento sulla sostanza che determina la forma. Marchesi disse: «La mia è la cucina della verità, ovvero della forma, quindi della materia». Per il grandissimo chef, il più artistico degli chef artisti, la forma è materia. Una delle ricette di Marchesi che più colpisce l’osservatore sono i suoi Cubi di costoletta del 1991, che Marchesi definiva «la costoletta di vitello alla milanese secondo me». Spiegandola durante un’intervista disse: «Sapete che la costoletta alla milanese classica è alta, alta quanto l’osso, perciò viene tagliata all’altezza dell’osso, viene impanata alla milanese con uova e poi pane grattugiato e cotta nel burro. Per evitare che il cliente si lamenti sempre che la costoletta non è abbastanza cotta, ho pensato di tagliare il quadrello, la parte importante, lasciando un pezzetto attaccato all’osso per far vedere che è una costoletta. Poi si taglia a cubi, impana, frigge nel burro chiarificato, come si fa una costoletta alla milanese. Viene poi servita su un piatto speciale perché ho pensato di disegnare l’ombra del manico e dei cubi della costoletta in modo che anche il cuoco la metta nel posto giusto e mano mano che si mangia rimane l’ombra sul piatto. È una cosa spiritosa». La variante d’autore di Marchesi chiama in causa la chimica e la fisica della conduzione del calore tramite convezione. A parità di procedura e di temperatura, la cottura al cuore di un pezzo di alimento più piccolo dell’alimento intero si raggiunge prima. Cambia anche l’impatto nutrizionale del piatto. In una costoletta di Marchesi c’è più panatura perché i cubi sono i bocconi che nella costoletta fritta intera e poi tagliata risulterebbero impanati solo sopra e sotto, nella costoletta di Marchesi sono impanati anche i lati. Questo aumenta la quantità di grasso di cottura assorbita? No, anzi, la cotoletta intera ne assorbe di più. Un alimento tagliato a pezzetti medio-piccoli assorbe l’olio e in generale il grasso nel quale viene fritto nella misura del 10% del suo peso. Aumentando l’area di assorbimento, può aumentare la percentuale di grasso di frittura assorbito fin oltre il 40%. Anni e anni dopo Marchesi, Carlo Cracco che è stato suo allievo, ha realizzato la Milano sbagliata, cioè la costoletta alla milanese secondo lui. Per 4 persone, la costoletta è ridotta a 4 fette da 15 g e forma rettangolare 8 cm x 5 cm ciascuna di fassona battuta. Si frullano 100 g di pan carré, si sbattono le uova, si ritaglia della carta da forno in rettangoli di circa 8 cm x 5 cm e li si passa, solo da un lato, nell’uovo, poi nel pane, si ripete (una doppia panatura). Si friggono le panature in 400 grammi di burro chiarificato e 100 di olio evo. Si rifila la forma rettangolare. Si salano i rettangoli panati e i rettangoli di carne. Si posiziona la panatura a centro piatto, ci si poggia sopra la carne, si gratta la scorza di limone. Qui la carne è cruda e la parte crunchy della panatura è autonoma. La porzione è minima e chiunque può godere le caratteristiche essenziali della costoletta alla milanese con un abbattimento calorico importante. La lombata di vitello ha 244 calorie, consideriamo che, osso escluso, una costoletta alla milanese tradizionale pesa circa 200 grammi, quindi siamo a quasi 500 calorie. 15 grammi di fassona ne hanno 18.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
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Merito-Dicembre-2025.pdf
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