2025-04-17
Erdogan tesse la sua Nato dei Balcani. Serbia, Grecia e Ungheria si armano
La Bulgaria ha annunciato di unirsi all’alleanza militare guidata dal sultano, che mantiene rapporti ambigui con il Cremlino. Espansionismo che allarma le nazioni vicine, che stringono accordi e investono nella Difesa.Chi constata che, il nostro, è il tempo in cui risorgono la politica di potenza e persino gli imperi, non esagera. E tutto questo non dipende semplicemente dal ciclone Donald Trump. Di rimettere in moto la storia, che l’internazionalismo liberale pretendeva finita, non si occupano soltanto gli Stati Uniti, la Russia, o la Cina; anche la Turchia di Recep Tayyip Erdogan partecipa a questo risiko mondiale. Basta vedere che cosa sta preparando il sultano nei Balcani: il ritorno dell’egemonia di Ankara nella penisola europea dalla quale gli ottomani, un tempo arrivati ad assediare Vienna, furono estromessi dopo la sconfitta nella Prima guerra mondiale.Tutto comincia con un accordo militare che i turchi hanno stipulato, nel 2024, con Albania, Kosovo e Macedonia del Nord: una collaborazione nel campo della Difesa tradizionale e della cyberdifesa, dell’addestramento congiunto delle truppe, della logistica e persino dell’approvvigionamento di materiali sanitari, dell’assistenza umanitaria e dello sminamento. Il Parlamento ratificherà i trattati a breve, dopodiché il governo li potrà sfruttare per stipulare intese secondarie, che saranno quasi integralmente sottratte al controllo del legislatore e sarebbero funzionali all’avvio di campagne militari all’estero. Proprio l’altro ieri è giunta la notizia che la Bulgaria si è unita all’alleanza stretta in precedenza tra Croazia, Albania e Kosovo (dove i turchi, fino a ottobre 2024, hanno comandato la missione Nato di peacekeeping, Kfor). È, dunque, ragionevole supporre che sia Sofia sia Zagabria comincino, a loro volta, a cooperare con Ankara, insieme a Tirana, Pristina e Skopje. Ed è facile immaginare chi sarà l’ago della bilancia nella partnership.Questa specie di Nato balcanica, agli occhi dei Paesi contraenti, sarebbe un’assicurazione nei confronti delle mire della Serbia. A Belgrado, al contrario, sono preoccupati per quella che percepiscono come una crescente aggressività da parte dei vicini, coalizzati nonostante le differenze religiose: Bulgaria, Croazia e Macedonia sono a maggioranza cristiane, eppure vengono a patto con nazioni a prevalenza musulmana, Albania e Kosovo, mentre, sullo sfondo ma niente affatto defilata, aleggia la Turchia re-islamizzata. Così, i serbi, a inizio aprile, hanno siglato un protocollo di collaborazione militare con gli ungheresi, che pure non hanno voluto inquadrare come una vera e propria alleanza; non sfuggirà che entrambi sono in qualche modo vicini ai russi.Ecco: quella che è stata a lungo la polveriera del Vecchio continente sembra tornata a un assetto pre 1914, cui si sommano le tensioni etniche mai risolte dagli anni Novanta e le tattiche destabilizzanti di Erdogan. I maliziosi hanno insinuato che la sua politica sia utile soprattutto a far arricchire l’azienda del genero, Baykar technologies, che produce droni da vendere agli alleati-clienti. Ma il disegno del sultano, con ogni probabilità, punta molto più in alto: al completamento di quel progetto neo-ottomano capace di spiegare, almeno in parte, il suo lungo successo elettorale. In una fase in cui la sua stella si sta affievolendo ed è investito dalle polemiche per l’arresto del capo dell’opposizione, a Erdogan farebbe gioco sbandierare risultati geopolitici tangibili. Non che gli manchino bandierine da sventolare.Il presidente turco, che al solito opera su una sconcertante varietà di tavoli, ha mantenuto un rapporto ambiguo con Mosca. Arrivò a un passo dalla rottura quando, nel 2015, la sua contraerea abbatté un Sukhoi che per i turchi stava sorvolando il loro spazio aereo, ma per i russi non aveva mai lasciato i cieli siriani. Erdogan, però, non ha mai troncato i canali di dialogo con Vladimir Putin. Contemporaneamente, è rimasto nella Nato; ha avviato progetti per la costruzione di droni direttamente in territorio ucraino; e, da ultimo, ha aperto un confronto con Kiev, Parigi e Londra sul futuro della sicurezza nel Mar Nero. Già: se la ricchezza ottomana si resse anche sul controllo di Bosforo e Dardanelli, stretti che collegano il mare interno dell’Asia al Mediterraneo, è comprensibile che Ankara ambisca a un ruolo di peso in quelle acque. Sottraendolo ai russi. A questi ultimi, approfittando del pantano ucraino, Erdogan ha soffiato la Siria: lì, al posto di Bashar Al Assad, autocrate spalleggiato dal Cremlino, si è installato l’ex jihadista Ahmad Al Jolani, che qualche giorno fa era ad Antalya ad applaudire l’intemerata del sultano contro Israele.Non ci dimentichiamo che la Turchia è pure nostra diretta concorrente: dietro il caos in Libia c’è la manina di quello che Mario Draghi definì «dittatore necessario». Lo stratega levantino si è ripresentato nella terra che l’Italia strappò agli ottomani nel 1912, quando l’ignoranza dei suoi giacimenti petroliferi portava i critici dell’impresa coloniale giolittiana a snobbare il Paese nordafricano, in quanto «scatolone di sabbia».Benché da noi se ne parli solo quando i salottini della stampa sentono odore di primavera liberale a Istanbul, i movimenti di Erdogan non passano inosservati ovunque. E se Serbia e Ungheria iniziano a nutrire sospetti, la Grecia, che dagli anni Settanta si contende con i turchi l’isola di Cipro, è passata all’azione: un paio di settimane fa, il primo ministro, Kyriakos Mitsotakis, ha presentato un piano di riarmo da 25 miliardi di euro. Considerando che il Pil ellenico supera di poco i 243, si tratta di un programma che vale il 10% del Prodotto interno lordo della nazione. Un’enormità, che certo non si giustifica solo con lo spauracchio dell’espansionismo russo.Insomma, mentre mezza Europa rimpiange il «dolce commercio» senza dazi e si accanisce terapeuticamente sulla globalizzazione, altri protagonisti le scompongono e ricompongono l’ordine globale sotto al naso. Siamo, quindi, condannati all’irrilevanza? La partita è ancora aperta. Ma la finestra per entrare in campo, presto, si chiuderà.
Carlo III e Donald Trump a Londra (Ansa)
Tyler Robinson dal carcere dello Utah (Ansa)