2023-02-05
«Dal contrabbasso al podio del direttore: seguendo Bottesini ho trovato i Grammy»
Enrico Fagone, l'unico musicista italiano (oltre ai Måneskin) che ha ricevuto la nomination: «Guidare l’orchestra è come diventare padre».Non ci saranno solo i Måneskin nella sparuta comitiva italiana che questa sera parteciperà alla cerimonia dei Grammy Awards al Microsoft Theater di Los Angeles (ore 20.30 locali), ma anche un direttore d’orchestra che forse è più rock dei Fab four de sta Roma bella. Chi non ci crede - senza scomodare Jimi Hendrix - può osservare il rapporto viscerale che Enrico Fagone ha con il contrabbasso, magari mentre si cimenta con un concerto di Giovanni Bottesini (qualcosa sul suo canale Youtube si trova). Sì, perché non stiamo parlando soltanto di un’illustre bacchetta, ma anche di un virtuoso dell’arco, che in realtà ha sentito scoccare la prima scintilla imbracciando una chitarra elettrica. Tanto è vero che al Conservatorio di Piacenza si ricordano ancora di un ragazzino che, negli anni Novanta, si presentò all’esame di ammissione portando Nothing else matters dei Metallica (mica Zitti e buoni). Ma andiamo con ordine, perché questo musicista di 43 anni - che nel suo curriculum vanta anche collaborazioni con Mina e con gli Elio e le storie tese - è nato a Broni (nell’Oltrepò Pavese) come il Barbacarlo che produceva Lino Maga. E, proprio come il vino preferito da Gianni Brera, ha vissuto un lungo processo di maturazione. La nomination ai Grammy (nella sezione «Best classical compendium») è il capitolo più recente e si deve a un disco di successo, Aspire (etichetta Musica Solis), che lo vede condurre la prestigiosa London symphony orchestra tra le pagine di Astor Piazzolla, Heitor Villa Lobos e Jp Jofre. «È un riconoscimento che mi fa piacere, soprattutto perché valorizza la mia attività di direttore», racconta Fagone alla Verità. «È stata una scommessa che ha richiesto sacrifici enormi e che ho portato avanti mentre la carriera di contrabbassista era già ben avviata. Ma si è trattato di un’esigenza artistica che non potevo ignorare, anche se qualcuno mi diceva che era tardi perché oggi viviamo la stagione dei baby direttori. Essere qui è la conferma che lo studio non tradisce mai e che la vita (ma si può chiamare anche Dio o destino) ti restituisce molto di più».Proviamo a riavvolgere il nastro: mi dà la sua versione di questo ingresso heavy metal al Conservatorio?«Da ragazzo avevo trovato un rifugio nella chitarra, visto che ero un tipo irrequieto e la scuola era un dramma. La faccia tosta non mi è mai mancata, così all’esame portai un brano dei Metallica, spacciandolo per mio. La commissione non si accorse di nulla ma mi spiazzò: “Se vuole qui c’è un posto per lei... nella classe di contrabbasso”. D’istinto rifiutai, poi mio padre mi convinse a provare. Alla fine le chitarre sono finite in cantina e il contrabbasso non l’ho più abbandonato».Merito anche del suo maestro?«Certo, Leonardo Colonna mi ha aperto un nuovo mondo e mi ha indicato la via. Al nostro primo incontro mi ha guardato la mano e mi ha detto: “Vedo già che hai molto talento. Se mi ascolti farai una bellissima carriera”. Ero il suo unico allievo per cui facevamo lezione sempre, suonavo anche 12 ore al giorno. Poi, dopo il diploma, mi sono perfezionato con una serie di mostri sacri, come ad esempio Franco Petracchi...». Facciamo un piccolo salto in avanti: a Piacenza il cerchio si chiude perché lei prende la cattedra del suo maestro e la classe si riempie di giovani promesse. Poi cosa accade? «Mi trasferisco a Lugano per insegnare al Conservatorio della Svizzera italiana e lì avviene l’incontro fondamentale con Martha Argerich, che secondo me è la più grande pianista vivente. Mi nota e mi chiede di suonare con lei in giro per il mondo. Da quel momento la mia carriera ha preso il volo».Cosa si impara suonando con la Argerich? «Sicuramente la libertà. Ha un’idea della musica come studio continuo e con una costante dose di insoddisfazione, senza rinunciare a essere sé stessi. Di lei colpisce l’immenso amore per i compositori che affronta: te li fa sentire vivi, quasi presenti. Quando parla di Robert Schumann, ad esempio, è impressionante. Si immedesima nel suo dolore (com’è noto, il compositore tedesco morì in un manicomio dopo una vita tormentata). Come se sapesse esattamente cosa provava Schumann mentre componeva certe opere». Con il contrabbasso vince una sterminata lista di concorsi e viene chiamato a esibirsi e a tenere masterclass in giro per il globo. A un certo punto però lo strumento non le basta più e sente anche l’urgenza di dirigere. Come mai?«Non credo sia un caso, ma questa esigenza è nata proprio mentre stavo diventando padre. È una sorta di maturazione: si passa dal concentrarsi sulla propria parte a una visione d’insieme. E anche l’egocentrismo, che in questo lavoro ci sarà sempre, a un certo punto lascia spazio a una dimensione più ampia, a livello artistico e umano. Forse anche spirituale. Sta di fatto che, incoraggiato da mia moglie e dalla Argerich, inizio a studiare composizione e direzione, anche se un po’ in incognito...».In che senso?«Mi sono detto: devo andare a uno dei corsi del leggendario direttore finlandese Jorma Panula. Se va male lascio perdere e nessuno saprà nulla. Ovviamente la mia copertura è saltata subito perché, anche se eravamo in un luogo sperduto fuori Madrid, in classe ho trovato alcuni miei studenti...» (ride).E alla fine com’è andata?«Lui arriva, gelido e imperturbabile. Chiede di dirigere Il cappello a tre punte di Manuel de Falla. E a uno a uno inizia a massacrare tutti gli allievi... con qualcuno vola anche qualche parola grossa. Tocca a me, tiro fuori la mia “grinta contadina”, della serie “sei venuto da un paesino sconosciuto, come va va”. Inizio a dirigere e lui si mette a urlare...».Insulti anche per lei?«No, ce l’aveva con i miei colleghi: “Voi non conoscete questo brano, lui invece sì”. Sono rimasto a bocca aperta... Per farla breve, da quel giorno ho fatto il pendolare tra Lugano ed Helsinki. Partivo ogni weekend per cercare di imparare tutto da lui. Incastrare gli impegni tra famiglia, orchestra, insegnamento è stato un incubo, ma in qualche modo ce l’ho fatta... Poi ho seguito tanti altri grandi maestri. Mi limito a un nome: Semyon Bychkov».Ma cosa faceva imbestialire di più Panula?«Capiva subito se qualcuno voleva dirigere solo per mettersi al centro dell’attenzione. Non perdonava nessun gesto che non fosse necessario, ma utile solo a fare colpo sul pubblico. “Non girarti mai, guarda i musicisti!”, urlava ai più giovani. L’orchestra è il tuo primo confessore, davanti a lei sei nudo, se fai il furbo ti becca. Per altri versi è una giungla e vive di equilibri psicologici delicatissimi. Chi ci ha suonato lo sa. Oggi posso dire che in un certo senso non si torna più indietro: anche quando sono di nuovo in mezzo ai contrabbassi e guardo l’orchestra da dietro, la mia mente dirige». A questo proposito, torno al suo strumento perché non tutti sanno che lei ha anche riportato in vita il concorso Bottesini, che ogni due anni rende Crema la capitale mondiale del contrabbasso.«Ho solo raccolto il testimone da Petracchi. Per il resto basta fare il nome di Giovanni Bottesini e i più grandi arrivano da ogni parte. Anche perché siamo a due passi da Cremona, la culla della liuteria, e i musicisti stranieri impazziscono. In Italia non ci rendiamo conto di quanto il nostro Paese affascini il mondo...». Mi fa un ritratto di Bottesini in poche pennellate?«È ancora poco conosciuto ma stiamo parlando del più grande contrabbassista di tutti i tempi, che era anche un eccellente compositore e direttore d’orchestra. Anche se queste due ultime attività passavano in secondo piano a causa del suo talento strumentale. Di questo ne soffriva...».Noto delle similitudini.«Per carità, non facciamo paragoni! Al massimo ci accomuna il fatto che all’ammissione al Conservatorio di Milano si presentò come violinista e gli offrirono un posto nella classe di contrabbasso. Lui accettò, ma sfidò la commissione: “Diventerò il Paganini di questo strumento”. Mantenne la promessa, iniziando a comporre brani impegnativi che gli permettessero di emergere come virtuoso: sono ancora insuperabili. Poi viaggiò in tutto il mondo, battezzò l’inno nazionale del Messico e la Prima di Aida di Giuseppe Verdi al Cairo. Insomma, un gigante!».Abbiamo parlato di Cremona, per cui una chicca su Mina in sala di registrazione me la deve raccontare. «La leggenda narra che con lei in studio sia sempre “buona la prima”. Nell’album Todavia (del 2007) però le ho visto ripetere un brano due volte e ho capito cos’è il genio».Cioè?«Iniziamo, lei canta divinamente e va a riascoltare la traccia. Torna in sala e chiede di rifarla. La seconda volta resto deluso: mi sembrava meno convincente, la sentivo appena. Quando ho ascoltato il risultato finale ho imparato la lezione: non stava cantando per me, che ero a qualche metro, ma sapeva esattamente come fissare su disco l’idea musicale che aveva in mente. Il microfono per lei non ha segreti».