2024-02-12
Enrica Garzilli: «Gandhi stimava Mussolini. E in India lo amano ancora»
L’ex docente di Harvard, autrice di un saggio sul Regime e l’Oriente: «All’università di Delhi avevo un preside che ammirava il Duce. Il mio libro censurato sui social».Il fascismo non cessa di rappresentare uno spauracchio in Italia e in Europa. Ma quale memoria conservano di quei fatti le popolazioni d’Oriente? E come fu accolta lì l’avventura mussoliniana? Su questa pagina poco conosciuta della storia, la studiosa Enrica Garzilli (ex docente ad Harvard e all’università di Delhi, già autrice di una biografia dell’orientalista Giuseppe Tucci) ha appena pubblicato Mussolini e Oriente (Utet), che conta più di mille pagine.Innanzitutto una curiosità: il suo libro si intitola Mussolini e Oriente. Senza articolo. È una scelta casuale o è voluto?«È voluto. Se legge Mussolini e l’Oriente, scorre, è come se fosse una cosa sola. Se uno legge Mussolini e Oriente è costretto a fermarsi. C’è Mussolini da una parte, Oriente dall’altra. Sono due soggetti e due visioni, legate ma a sé stanti». In questi mesi si è tornati a parlare della questione palestinese. Si può fissare qualche punto sull’atteggiamento fascista riguardo a tale questione?«Premesso che non ne tratto in maniera specifica, dato che ho coperto soprattutto altre aree dell’Asia, posso dire solo che Mussolini stava molto attento sia al mondo arabo, che privilegiava, sia agli ebrei, ovviamente sino a che, per stringersi in questo abbraccio mortale con la Germania, non varò le leggi razziali. Dobbiamo considerare che in politica estera Mussolini ha sempre cercato di essere molto pragmatico. Ciò non gli ha impedito di fare tutta una serie di errori».Tipo?«Ovviamente l’orrore delle leggi rzziali del 1938. Ma anche l’invasione dell’Abissinia. È vero che all’epoca tutti avevano grandi imperi coloniali tranne l’Italia. Questo, però, gli ha alienato le simpatie dell’Oriente. In India lo stimavano e lo prendevano a modello per le riforme sociali e, in più, vedevano in lui la possibilità di un alleato contro la Gran Bretagna, ma a quel punto si chiesero: “E se un giorno facesse questo anche a noi? E soprattutto, come possiamo appoggiare un politico colonialista, noi che stiamo combattendo un regime coloniale?”. Vennero organizzate molte manifestazioni contro Mussolini. Lì era famoso e popolare. C’erano giornali, fogli e pamphlet dichiaratamente a favore del fascismo. C’erano anche fascisti e camicie nere indiane. Nel 1936 la situazione cambiò. In merito alla questione etiopica, da una parte per tutti i leader indiani e per l’opinione pubblica c’era l’obbligo della solidarietà per un Paese aggredito ma, dall’altra, la guerra coinvolgeva altre forze in campo. Dopo l’invasione dell’Etiopia si tennero gli “Abyssinian Day” in varie grandi città. Subhas Chandra Bose pubblicò a fine novembre 1936 un articolo su un quotidiano pro-Mussolini in cui si chiedeva se il conflitto non rappresentasse il prodromo di un conflitto a livello mondiale. In questo caso le truppe indiane dell’esercito britannico sarebbero state mandate a combattere in Europa. La solidarietà del popolo indiano per la causa etiope poteva essere sfruttata dai britannici». Un altro quadrante tornato d’attualità è il mar Rosso. Nel suo libro leggiamo dei buoni rapporti tra Italia fascista e Yemen. Ma Mussolini fu sempre interessato alla direttrice che dal Mediterraneo arriva all’oceano Indiano. Possiamo dire, visti i fatti degli ultimi 40 anni, che Mussolini ebbe una visione geopolitica lungimirante?«Certamente. Lui voleva estendersi dai Balcani e il Mediterraneo fino ad arrivare alle coste indiane. Già agli inizi del Ventennio riconobbe che l’Afghanistan, per esempio, era un Paese che sarebbe diventato importante, e aveva ragione perché era conteso da Russia e Inghilterra, le superpotenze del tempo. È il famoso Grande gioco. Ebbe una visione globale di politica estera e di rapporti, economici innanzitutto ma non solo, con l’Oriente vicino a lontano. Per esempio l’India, con la quale aveva già rapporti economici e culturali, dopo la metà degli Anni Trenta divenne un potenziale alleato contro la Gran Bretagna e quindi un imperativo strategico». Nel Mussolini persona, invece, c’era una fascinazione per l’Oriente?«Assolutamente sì. Mi lasci raccontare un episodio. Durante un comizio a Ginevra affrontò Vandervelde, che a 36 anni era già presidente della seconda Internazionale socialista. Questi parlava di un Gesù Cristo sovversivo, liberatore degli schiavi e precursore del socialismo. Era il 1904, Mussolini aveva 21 anni. Alla fine della conferenza chiese e ottenne il contraddittorio per un affondo contro il Vangelo e contro Galileo, colpevoli di aver fatto crollare il magnifico edificio dell’Impero romano sotto la spallata della sklavenmoral. Parlò di buddhismo: “Che cos’era poi il Messia, coi suoi quattro discorsi e parabolette, in confronto al corpo di dottrine elaborato dal Buddo in quaranta volumi, attraverso quarant’anni di penitenza, di meditazione e di lavori apostolici?”. Durante il Ventennio con la sua famiglia divenne amico di una famiglia giapponese, gli Ono. Anche a livello etico e spirituale ammirava il Giappone ben prima di far parte del Patto Anticomintern con Berlino e Tokyo. Vi ravvedeva gli stessi valori e ideali fondanti del fascismo: fedeltà, lealtà, onestà, coraggio e il combattimento per un ideale fino anche all’estremo sacrificio. Avevano anche in comune il mito della gioventù, del duro lavoro, ecc.». Cosa vedevano gli orientali, per esempio gli indiani, in lui?«Per loro era un grande uomo perché aveva migliorato la situazione economica e culturale degli italiani. Lo consideravano uno statista che aveva unito etica ed economia. E poi ammiravano anche il leader. Oltre che considerarlo un potenziale alleato contro l’opprimente impero anglo-indiano».Ci racconta quali furono i rapporti tra il Duce e Gandhi?«Nel dicembre 1931, di ritorno dalla Tavola rotonda a Londra, Gandhi accettò l’invito del Duce per venire a Roma. Fu portato in giro per la città e trattato come uno statista. Mussolini lo rispettava per quello che stava facendo per gli indiani. Il Mahatma voleva vedere di Roma non solo i Musei vaticani ma le opere sociali, per esempio la Casa degli sfrattati alla Garbatella, le istituzioni assistenziali del quartiere con i famosi Alberghi suburbani e Palazzo Biffi, che ospitava l’Opera nazionale maternità e infanzia (Onmi). Sulla nave di ritorno verso Bombay scrisse al Nobel e comunista Romain Rolland, suo amico: “Mussolini è un enigma per me. Molte delle riforme che ha fatto mi attraggono. Sembra aver fatto molto per la classe rurale. Ovviamente il pugno di ferro è lì. [...] Il suo interesse per i poveri, la sua opposizione alla super urbanizzazione, il suo tentativo di realizzare la coordinazione fra capitale e manodopera mi sembra che richiedano un’approfondita attenzione. Il mio unico dubbio fondamentale risiede ovviamente nel fatto che queste riforme sono forzate. Ma questo è vero anche nelle istituzioni democratiche. Quello che mi colpisce è che dietro la sua spietatezza c’è il motivo di servire il popolo. Anche dietro i suoi discorsi roboanti c’è un nucleo di sincerità e amore per la sua gente. Mi sembra anche che alla maggior parte degli italiani piaccia il governo di ferro di Mussolini. [...] In generale non sembra un uomo di umanità. Ma devo dire che con me è stato affascinante”. Ciò non toglie che poco prima della guerra scrisse a lui e a Hitler pregandoli di fermarsi».Lei ha fatto molte ricerche sul campo. Qual è oggi l’opinione sull’Italia in quei luoghi?«C’è molto rispetto».Per l’Italia? «Proprio per Mussolini in sé, specie da parte dei più vecchi che ancora ricordano o ne hanno sentito parlare dai genitori come di un amico degli indiani».Ancora oggi?«Sì perché si ritiene che abbia fatto grandi cose per migliorare lo status degli italiani, perché è sempre stato un grande amico dell’India e l’India e l’Italia sono amiche da secoli prima del fascismo. Quando ho insegnato in India il mio supervisor, che era un pandit (un maestro della casta dei brahmani, ndr) molto anziano, ed era anche il preside della vecchia Delhi University, aveva un’ammirazione per l’Italia e per Mussolini. Come ho detto, con la guerra in Etiopia il sentiment cambiò un po’ in parte dell’opinione pubblica, ma di base l’ammirazione è rimasta». Nel suo libro hanno un ruolo importante gli orientalisti, come Giuseppe Tucci e Carlo Formichi. Quanto mancano figure del genere all’Italia di oggi?«Tucci e Formichi hanno svolto un lavoro anche di diplomazia parallela, di soft power. Aprivano la strada alla diplomazia ufficiale. Oggi non è più così. In primis perché di persone di quella levatura non ce ne sono molte in Italia e forse in tutto il mondo. Non avevano solo cultura, avevano delle passioni e degli ideali. Del resto è proprio scomparso quel ruolo ambivalente: gli orientalisti dell’epoca erano intellettuali, ma avevano anche un ruolo politico. Anche perché Mussolini li sosteneva e li finanziava nelle ricerche e nelle spedizioni. Gli intellettuali che vanno per la maggiore oggi sono intellettuali da social media, da televisione. Sinceramente non ce li vedo a rappresentare il nostro paese all’estero». Possiamo dire che, alla luce del suo libro, la frase attribuita (falsamente) a Miguel de Unamuno, «il fascismo si cura viaggiando», sia una baggianata?«Io non l’ho mai sentita questa frase. Me l’hanno mandata su Facebook, ma non l’ho capita. Me la spiega?».Credo si intenda designare il fascismo come chiusura mentale. Di conseguenza, aprendosi al mondo, si diventerebbe antifascisti.«Mi sembra un’associazione ridicola e risibile. Mi fa sorridere. È buona per i meme di Instagram».Ho letto che ha avuto problemi a pubblicizzare il suo libro sui social. Ci racconta perché?«Regolarmente se metto la copertina - che è una elaborazione grafica di tre cartoline originali giapponesi del 1939, di cui una raffigurante Mussolini - i post vengono censurati. Ho una redflag su tutto quello che scrivo, anche se solo nomino il nome proibito. Ma anche i giornali si sono rifiutati di scrivere recensioni “per non avere problemi”, salvo poche eccezioni. Mi è stato esplicitamente detto. Per questo ringrazio questa testata».
Il primo ministro del Pakistan Shehbaz Sharif e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (Getty Images)
Riyadh e Islamabad hanno firmato un patto di difesa reciproca, che include anche la deterrenza nucleare pakistana. L’intesa rafforza la cooperazione militare e ridefinisce gli equilibri regionali dopo l’attacco israeliano a Doha.
Emanuele Orsini e Dario Scannapieco