2024-09-14
Assalto di Greenpeace al palazzo Eni: sotto indagine 14 attivisti stranieri
Lo striscione di Greenpeace sulla facciata del palazzo Eni di Roma il 5 dicembre 2023 (Ansa)
Accusati di violazione di domicilio, diffamazione e imbrattamento. Rischiano tre anni.Tra inchieste e multe salate, vanno a poco a poco diminuendo le proteste ambientaliste che hanno fatto discutere l’opinione pubblica negli ultimi anni. Non a caso questa estate Marina Hagen, leader di Ultima generazione, ha annunciato di voler interrompere le proteste perché «non servono a niente». Più che altro alla base della decisione ci sarebbero le numerose cause legali a carico e i relativi costi per il risarcimento dei danni di palazzi imbrattati o blocchi stradali o interruzione di pubblico servizio. A marzo tre attivisti sono stati condannati a otto mesi di reclusione per aver imbrattato Palazzo Madama. Altri a Bologna si sono beccati sei mesi per violenza privata e interruzione di pubblico servizio dopo aver bloccato una tangenziale. In Inghilterra a luglio alcuni ambientalisti hanno ricevuto una condanna a cinque anni per un blocco autostradale. Non solo. È di pochi giorni fa la notizia di un’indagine che potrebbe fare scuola nel futuro delle proteste ambientaliste. La Procura di Roma (pm Francesco Minisci), infatti, ha indagato 14 attivisti stranieri di Greenpeace, che il 5 dicembre dello scorso anno avevano assaltato di notte il palazzo dell’Eni nella Capitale. Gli attivisti, provenienti da Svizzera, Spagna e Polonia (il più giovane ha 22 anni, mentre il più anziano 54) sono accusati a vario titolo e in concorso tra loro di violazione di domicilio, diffamazione e imbrattamento di edifici. Sono difesi dall’avvocato Alessandro Gariglio. Rischiano fino a tre anni di carcere e multe salate. Di notte, muniti di attrezzatura da scalata, infatti, erano riusciti a salire in cima all’edificio e avevano esposto uno striscione in inglese con la scritta: «Oggi emissioni = domani morte». Per arrivarci avevano anche superato le forze di sicurezza che avevano provato a sbarrargli la strada. L’azione fu portata avanti in contemporanea alla presentazione alla Cop28 di Dubai del report. Da tempo Greenpeace e Recommon stanno portando avanti una campagna mediatica contro Eni, correlata, oltre che da azioni dimostrative, anche da una causa presentata al tribunale di Roma nel maggio. Questo procedimento, dove Greenpeace e altri attivisti chiedono al tribunale di dichiarare Eni «responsabile» per danni subiti e futuri derivanti dai cambiamenti climatici, si sarebbe potuto concludere già in questo mese. Peccato che proprio i movimenti ambientalisti abbiano deciso di chiedere una sospensione che consentirà alle due associazioni di continuare nella propria campagna di disinformazione, soprattutto per raccogliere nuove donazioni. Anche perché la causa promossa da Greenpeace e Recommon è la stessa che fu già portata avanti nel 2021 da altre associazioni che avevano deciso di fare causa al governo chiedendo al giudice di obbligare lo Stato italiano «ad adottare ogni necessaria iniziativa per l’abbattimento, entro il 2030, delle emissioni nazionali artificiali di CO2». Peccato che il 26 febbraio scorso il giudice di Roma, Assunta Canonaco, abbia giudicato la richiesta di risarcimento inammissibile, anche perché le azioni compiute dallo Stato contro il cambiamento climatico sono semmai «atti amministrativi», come ha anche stabilito la Corte di cassazione. «Rientrano nella giurisdizione amministrativa le controversie, anche di natura risarcitoria, relative a comportamenti materiali riconducibili - ancorché solo mediatamente - al concreto esercizio di un potere autoritativo». Per di più, il giudice ha ribadito che «la questione attiene alla legittimità dell’atto amministrativo e, comunque, a comportamenti e omissioni riconducibili all’esercizio di poteri pubblici in materia di contrasto al cambiamento climatico antropogenico e quindi è afferente alla giurisdizione amministrativa generale di legittimità». Secondo il tribunale di Roma c’erano anche evidenti errori di ammissione della domanda stessa, oltre al difetto di giurisdizione.
Giancarlo Fancel Country Manager e Ceo di Generali Italia
Rifugiati attraversano il confine dal Darfur, in Sudan, verso il Ciad (Getty Images)
Dopo 18 mesi d’assedio, i paramilitari di Hemeti hanno conquistato al Fasher, ultima roccaforte governativa del Darfur. Migliaia i civili uccisi e stupri di massa. L’Onu parla della peggior catastrofe umanitaria del pianeta.