2025-04-14
Ellroy di pattuglia sulle vie del male distrugge con stile tutti i moralismi
Torna «L’angelo del silenzio», opera sottovalutata di un autore che non giudica i suoi antieroi ma rifiuta l’etichetta di nichilista.Ogni tanto occorre rileggere James Ellroy. Magari ripartendo proprio da L’angelo del silenzio, romanzo del 1986 che Einaudi ha appena rimandato in libreria. È l’opera forse più sottovalutata di Ellroy, ma è anche uno dei più straordinari e agghiaccianti romanzi sui serial killer mai scritti, radicalmente diverso dagli altri capolavori dello scrittore nato a Los Angeles nel 1948, anche se qua e là - soprattutto nelle parti in cui racconta i bassifondi della metropoli - affiorano i suoi temi caratteristici. In queste settimane in cui si sprecano i dibattiti sulla violenza adolescenziale e il ragazzino omicida della serie Adolescence mobilità esperti e intellettuali di ogni calibro, si può dire che Ellroy abbia anticipato i tempi con quello che a buon diritto si può definire il romanzo di formazione di un assassino. Il protagonista Martin Plunkett, mostruosa macchina di morte, prima di diventare un seviziatore e un macellaio di innocenti è stato infatti un bambino e un adolescente problematico, e soprattutto isolato, rinchiuso in una solitudine gelida che lo ha reso prigioniero della sua mente. Una mente che rapidamente si è incamminata per sentieri tortuosi e malefici. È cresciuto in una epoca in cui i social media non esistevano, ma in cui certo non mancava l’alienazione urbana: le strade della violenza, in qualche modo, sono sempre le stesse. Ellroy è una sorta di cronista dell’abisso, affronta di petto la realtà nei suoi luoghi più oscuri. Qualcuno, agli inizi della sua carriera, lo ha definito un nichilista, e pure lui - maestro nel creare anche per sé stesso un personaggio da film - si è divertito a giocare con il ruolo. Ma in tempi più recenti è venuto allo scoperto: «Sono cristiano», ha detto in una intervista contenuta in Ellroy Confidential (uscito tempo fa per Minimum Fax). «Sono un sostenitore del giudaismo, e considero il giudaismo e il cristianesimo come il filo conduttore di ogni legislazione nella Storia del mondo. Amo la Riforma, ne faccio parte... quel momento in cui ti ritrovi da solo con Dio. Più di ogni altra cosa, credo profondamente in Dio, il Dio che mi ha salvato cosi tante volte il culo, quel culo miserabile e tormentato che mi ritrovo. Ho la responsabilità di raccontare l’aspetto spirituale e religioso della vita. Odio l’ignavia. Rimango spiazzato quando qualcuno se ne esce fuori con l’idea sballata che i miei libri siano nichilistici. Io cerco di raccontare le conseguenze delle azioni immorali: il contrappasso karmico, l’orribile tendenza all’autodistruzione. Spiego le devastanti conseguenze dei crimini storici e individuali. Ciò che succede quando ignori che l’unica ricompensa della virtù è la virtù». Ciò non significa che i suoi libri abbiano qualche pretesa riguardo la redenzione dell’umanità. Ellroy ha ripetuto più volte di non avere «alcun desiderio di migliorare la qualità della vita in America o di promuovere il cambiamento sociale. Coltivare un immaginario letterario ti spinge ad affezionarti alle cose per quello che sono. A cercare nel tuo profondo un’illuminazione sulla loro natura e a condividerla con il lettore. Magari la tua visione delle cose risulterà interessante, magari no. L’importante è affrontare le cose per quello che sono e non averne paura. Ma anche affrontare te stesso per quello che sei e non averne paura. Soltanto il lettore può vacillare, ma devi spingerlo ad affrontare il mondo nel modo in cui tu hai bisogno di affrontarlo». Affrontare il mondo così com’è, senza pretendere di rifarlo daccapo, questa è la sua non-lezione del narratore di Los Angeles. «Se mi stai chiedendo se penso che lo scopo principale della letteratura sia quello di contribuire al progresso sociale, allora la risposta è no», rispose anni fa a un intervistatore. «W. H. Auden diceva: “Perché la poesia non fa succedere nulla. Sopravvive, è un modo di accadere, una bocca”. E se parliamo di crime fiction direi che in generale l’unica responsabilità dello scrittore è quella di intrattenere». In realtà, Ellroy si sottovaluta un po’: egli fa molto più che intrattenere. Intanto c’è lo stile, affinato nel corso degli anni, una esplosione jazzistica che in romanzi come Il sangue è randagio o nel recente Gli incantatori raggiunge l’apice. E poi c’è l’immersione nella storia americana. Il suo, ci ha sempre tenuto a ribadirlo, non è complottismo, nemmeno quando racconta i retroscena della politica o della morte di Jfk (leggere a tale riguardo American Tabloid o Sei pezzi da mille) o quando riesuma i casi gelidi del passato (Dalia nera su tutti). Quello che fa Ellroy è raccontare un mondo sotterraneo e pulsante in cui bene e male si allacciano, in cui non esistono coscienze pulite: non lo sono quelle dei suoi personaggi e ovviamente non lo è nemmeno quella dell’America (che pure lo scrittore continua ad amare). Anzi, forse è la più sporca di tutte, dunque al diavolo la superiorità morale. Ecco una seconda non-lezione: il grande moralista del crime bandisce il moralismo d’accatto e il buonismo ipocrita. Lo fa quando parla del passato, quando rifiuta di entrare nei temi della stringente attualità (anche se poi del presente parla eccome, scandagliando la Storia) e quando intreccia le sue trame roventi. Non per nulla, grazie alla scorrettezza politica, si è preso più volte del fascista, e ci ha riso su aprendo un romanzo con una citazione del Duce. «Sono un wasp, un bianco, eterosessuale, anglosassone protestante e nato in America, e non ho mai condiviso l’ethos controculturale tanto amato da quelli della mia generazione», ha detto una volta. «Ogni tanto qualcuno mi prende in giro sostenendo che sono fascista, razzista, antisemita e omofobo, soltanto perché lo sono i miei personaggi. Credo che alcuni li odino perché in loro fascismo, razzismo, omofobia e antisemitismo non sono in nessun modo caratteristiche identificative, bensì attributi casuali. Questi personaggi usano parole come “negro”, “frocio” ed “ebreo di merda” e la gente non sa come reagire, se prenderne le distanze. Mi piace questo tipo di personaggi. È come se avessi vissuto le loro vite, in un passato remoto. Per questo cerco di non giudicarli e di mostrare come il loro eroismo possa coesistere con certi attributi scomodi». Di sicuro, Ellroy non ha mai subìto la cultura della cancellazione e il wokismo, anzi ne è una sorta di antidoto. E nulla vi è di meno razzista o discriminatorio dei suoi libri, specie quando mostrano che i luoghi oscuri sono dentro ciascuno di noi, nessuno escluso.
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Dopo l'apertura dei lavori affidata a Maurizio Belpietro, il clou del programma vedrà il direttore del quotidiano intervistare il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, chiamato a chiarire quali regole l’Italia intende adottare per affrontare i prossimi anni, tra il ruolo degli idrocarburi, il contributo del nucleare e la sostenibilità economica degli obiettivi ambientali. A seguire, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, offrirà la prospettiva di un territorio chiave per la competitività del Paese.
La transizione non è più un percorso scontato: l’impasse europea sull’obiettivo di riduzione del 90% delle emissioni al 2040, le divisioni tra i Paesi membri, i costi elevati per le imprese e i nuovi equilibri geopolitici stanno mettendo in discussione strategie che fino a poco tempo fa sembravano intoccabili. Domande cruciali come «quale energia useremo?», «chi sosterrà gli investimenti?» e «che ruolo avranno gas e nucleare?» saranno al centro del dibattito.
Dopo l’apertura istituzionale, spazio alle testimonianze di aziende e manager. Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, dialogherà con Belpietro sulle opportunità di sviluppo del settore energetico italiano. Seguiranno gli interventi di Maria Rosaria Guarniere (Terna), Maria Cristina Papetti (Enel) e Riccardo Toto (Renexia), che porteranno la loro esperienza su reti, rinnovabili e nuova «frontiera blu» dell’offshore.
Non mancheranno case history di realtà produttive che stanno affrontando la sfida sul campo: Nicola Perizzolo (Barilla), Leonardo Meoli (Generali) e Marzia Ravanelli (Bf spa) racconteranno come coniugare sostenibilità ambientale e competitività. Infine, Maurizio Dallocchio, presidente di Generalfinance e docente alla Bocconi, analizzerà il ruolo decisivo della finanza in un percorso che richiede investimenti globali stimati in oltre 1.700 miliardi di dollari l’anno.
Un confronto a più voci, dunque, per capire se la transizione energetica potrà davvero essere la leva per un futuro più sostenibile senza sacrificare crescita e lavoro.
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Chi ha inventato il sistema di posizionamento globale GPS? D’accordo la Difesa Usa, ma quanto a persone, chi è stato il genio inventore?