
L’erede Agnelli in audizione in Parlamento si presenta come un eroe («Senza Stellantis il settore sarebbe scomparso in Italia») ma tace su aiuti pubblici, cassa integrazione e delocalizzazioni. La Lega: «Presa in giro, restituisca i miliardi che ha incassato».John Elkann, in audizione in Parlamento, rivendica per il gruppo Stellantis il ruolo di salvatore dell’Italia e proclama il suo amore per il nostro Paese (più che comprensibile a fronte degli svariati miliardi tra sussidi e incentivi pubblici ottenuti dall’azienda di famiglia ma di cui non fa cenno, ripagati con il ripetuto ricorso agli ammortizzatori sociali e lo spostamento di parte della produzione all’estero). E se i conti delle auto elettriche vanno male, il mercato non tira, la responsabilità è sempre della carenza delle colonnine di ricarica. Quanto alla gigafactory c’è un punto interrogativo eppure cita il modello Brasile che investe sull’autonomia tecnologica nazionale. Ammette che il 2025 sarà un altro anno da dimenticare e rimanda la ripresa al 2026 con l’arrivo di dieci nuovi aggiornamenti di prodotto nelle fabbriche italiane e al rilancio della Maserati e della Ferrari ma senza un cronoprogramma. Si può riassumere in questi punti l’intervento alla Camera del presidente di Stellantis, molto centrato sul messaggio rassicurante (tutto da verificare nei fatti) che l’Italia «ricopre un ruolo centrale» nella strategia aziendale e che saprà superare la congiuntura difficile («Il mercato Italia nei primi due mesi è in contrazione del 7% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno», dice) come tante volte ha fatto in passato. Ancora vivo il ricordo del 2004, quando l’azienda era data per spacciata, ma «la mia famiglia si è assunta la responsabilità di difenderla, investendo nuove risorse» e poi con Sergio Marchionne «acquisì un ruolo da protagonista nel panorama mondiale dell’auto» diventando «il quarto costruttore al mondo». Un grande sforzo al quale lo Stato contribuì sempre in modo generoso ma di questo Elkann non fa cenno. Il presidente sottolinea che «per ogni euro di valore creato da Stellantis, se ne generano 9 nel resto dell’economia». E riecheggiando la celebre frase di Gianni Agnelli («Ciò che va bene alla Fiat, va bene all’Italia») insiste sul tema che «l’Italia e la Fiat, oggi Stellantis, sono cresciute insieme». Forse in risposta all’ipotesi, in discussione in Europa ma anche nel nostro governo, di spostare gli investimenti dall’auto al settore della Difesa. Il presidente del gruppo a un certo punto lo dice chiaramente: «La Cina e gli Usa hanno importante industria bellica e dell’auto, dimostrando che si possono avere due industrie forti».Poi ricorda che «al tavolo al Mimit abbiamo ribadito la centralità del nostro Paese, nel quale per l’anno in corso stiamo spendendo circa 2 miliardi di euro di investimenti e 6 miliardi di euro in acquisti da fornitori italiani». E a rimarcare il legame con l’industria dell’indotto nazionale ricorda che «dalla sua nascita nel gennaio 2021, Stellantis ha fatto acquisti dalla filiera italiana dell’auto per un valore di 24 miliardi di euro, che diventeranno 30 alla fine del 2025».Poi la sfida dell’elettrico. Se il mercato non tira, la responsabilità è della mancanza delle colonnine, sostiene Elkann. Quindi non perché le vetture a batteria continuano a costare più delle endotermiche. «È urgente potenziare l’infrastruttura di ricarica: la mancanza di una solida rete di colonnine scoraggia gli acquirenti. Nonostante i progressi compiuti negli ultimi anni, il ritmo di installazione rimane troppo lento e non sufficiente a convincere i clienti a passare all’elettrico». E sottolinea che «in Italia ci sono meno di un terzo delle colonnine installate in Olanda». Quanto alle modifiche del regolamento sulla CO2, con il posticipo delle sanzioni a carico dei costruttori che non riescono a rispettare gli obiettivi nel breve termine, Elkann non è soddisfatto: «Si tratta di interventi di corto respiro, che non danno la necessaria certezza al mercato». Altro nervo scoperto è quello dei costi energetici. «I produttori automobilistici europei stanno affrontando uno svantaggio strutturale rispetto ai loro concorrenti cinesi, pari al 40% del costo manifatturiero complessivo. In particolare, i prezzi dell’energia di Paesi produttori di auto europei risultano cinque volte più alti di quelli cinesi». Nessun chiarimento è arrivato sul futuro della gigafactory. «In attesa che Acc renda noto il suo piano, ci siamo mossi in anticipo, affiancando alla produzione di motori termici i cambi per le auto ibride». Ma ha ricordato che «il consumo di energia necessario è dieci volte superiore a quello di uno stabilimento produttivo di autovetture». Ha poi indicato il modello Brasile che «ha voluto sviluppare un mercato interno realizzando tecnologie proprie». Infine un rapido accenno all’arrivo del nuovo ad, successore di Carlos Tavares, «entro la prima metà dell’anno».Critiche alle parole di Elkann sono venute dalla Lega. «Sono l’ennesima vergognosa presa in giro». In una nota il partito ha ricordato che «il gruppo è cresciuto grazie ai soldi degli italiani, che poi ha licenziato per investire all’estero. Elkann dovrebbe scusarsi e restituire i miliardi incassati dal nostro Paese».
L’aumento dei tassi reali giapponesi azzoppa il meccanismo del «carry trade», la divisa indiana non è più difesa dalla Banca centrale: ignorare l’effetto oscillazioni significa fare metà analisi del proprio portafoglio.
Il rischio di cambio resta il grande convitato di pietra per chi investe fuori dall’euro, mentre l’attenzione è spesso concentrata solo su azioni e bond. Gli ultimi scossoni su yen giapponese e rupia indiana ricordano che la valuta può amplificare o azzerare i rendimenti di fondi ed Etf in valuta estera, trasformando un portafoglio «conservativo» in qualcosa di molto più volatile di quanto l’investitore percepisca.
Per Ursula von der Leyen è «inaccettabile» che gli europei siano i soli a sborsare per il Paese invaso. Perciò rilancia la confisca degli asset russi. Belgio e Ungheria però si oppongono. Così la Commissione pensa al piano B: l’ennesimo prestito, nonostante lo scandalo mazzette.
Per un attimo, Ursula von der Leyen è sembrata illuminata dal buon senso: «È inaccettabile», ha tuonato ieri, di fronte alla plenaria del Parlamento Ue a Strasburgo, pensare che «i contribuenti europei pagheranno da soli il conto» per il «fabbisogno finanziario dell’Ucraina», nel biennio 2026/2027. Ma è stato solo un attimo, appunto. La presidente della Commissione non aveva in mente i famigerati cessi d’oro dei corrotti ucraini, che si sono pappati gli aiuti occidentali. E nemmeno i funzionari lambiti dallo scandalo mazzette (Andrij Yermak), o addirittura coinvolti nell’inchiesta (Rustem Umerov), ai quali Volodymyr Zelensky ha rinnovato lo stesso la fiducia, tanto da mandarli a negoziare con gli americani a Ginevra. La tedesca non pretende che i nostri beneficati facciano pulizia. Piuttosto, vuole costringere Mosca a sborsare il necessario per Kiev. «Nell’ultimo Consiglio europeo», ha ricordato ai deputati riuniti, «abbiamo presentato un documento di opzioni» per sostenere il Paese sotto attacco. «Questo include un’opzione sui beni russi immobilizzati. Il passo successivo», ha dunque annunciato, sarà «un testo giuridico», che l’esecutivo è pronto a presentare.
Luis de Guindos (Ansa)
Nel «Rapporto stabilità finanziaria» il vice di Christine Lagarde parla di «vulnerabilità» e «bruschi aggiustamenti». Debito in crescita, deficit fuori controllo e spese militari in aumento fanno di Parigi l’anello debole dell’Unione.
A Francoforte hanno imparato l’arte delle allusioni. Parlano di «vulnerabilità» di «bruschi aggiustamenti». Ad ascoltare con attenzione, tra le righe si sente un nome che risuona come un brontolio lontano. Non serve pronunciarlo: basta dire crisi di fiducia, conti pubblici esplosivi, spread che si stiracchia al mattino come un vecchio atleta arrugginito per capire che l’ombra ha sede in Francia. L’elefante nella cristalleria finanziaria europea.
Manfred Weber (Ansa)
Manfred Weber rompe il compromesso con i socialisti e si allea con Ecr e Patrioti. Carlo Fidanza: «Ora lavoreremo sull’automotive».
La baronessa von Truppen continua a strillare «nulla senza l’Ucraina sull’Ucraina, nulla sull’Europa senza l’Europa» per dire a Donald Trump: non provare a fare il furbo con Volodymyr Zelensky perché è cosa nostra. Solo che Ursula von der Leyen come non ha un esercito europeo rischia di trovarsi senza neppure truppe politiche. Al posto della maggioranza Ursula ormai è sorta la «maggioranza Giorgia». Per la terza volta in un paio di settimane al Parlamento europeo è andato in frantumi il compromesso Ppe-Pse che sostiene la Commissione della baronessa per seppellire il Green deal che ha condannato l’industria - si veda l’auto - e l’economia europea alla marginalità economica.




