2024-11-02
Elkann scappa e manda «pizzini» alla Meloni
Dopo aver disertato il Parlamento, il presidente di Stellantis rilascia scarni virgolettati al «Foglio» per fare la vittima rispetto agli attacchi ricevuti («Abbiamo più dato che avuto dal Paese») e minacciare l’addio («Cosa fa il governo se ce ne andiamo?»).C’era una strada chiara e diretta che John Elkann avrebbe potuto imboccare per spegnere le polemiche e rispondere alle accuse sul progressivo addio di Stellantis dall’Italia: venire in Parlamento e dare un po’ di numeri. Mettere nero su bianco il piano industriale per i siti italiani in maggiore difficoltà, Mirafiori e Melfi su tutti, e spiegare che certo l’azienda avrà pure commesso degli errori, ma il mercato dell’automotive è troppo condizionato dai diktat sull’elettrico dell’Europa e in questo momento il gruppo non può che andare a rimorchio. Con quello che sta succedendo in Germania (la crisi di Volkswagen) avrebbe avuto un senso. Sarebbe stato un’ammissione parziale e onorevole di colpe. Non avrebbe spiegato tutto (si fa fatica capire perché Stellantis sia l’unica casa che non chiede una revisione anticipata del Green deal Ue), ma avrebbe indicato degli obiettivi inderogabili riempendo, almeno in parte, il vuoto lasciato dalla mancanza di riconoscenza che l’azienda privata italiana più sussidiata dallo Stato dovrebbe al Paese. Ma resta tutto al condizionale. Perché l’erede dell’Avvocato si è girato dall’altra parte e quella strada ha finto di non vederla. Ce n’era invece un’altra, di strada, fatta di mezze frasi e virgolettati concordati sui giornali, un dico e non dico balbettato per lanciare messaggi in codice da decifrare. E su quella Jaki si ci è fiondato. Si fa fatica a capire se la cifra del suo pensiero sia il vittimismo ingiustificato che emerge da ciascuna delle parola riportate venerdì dal Foglio o la minaccia per la serie «se non finiscono gli attacchi me ne vado sul serio dall’Italia». Chiarissimo è invece il metodo usato dall’amministratore delegato di Exor, la cassaforte della famiglia Agnelli, quello del «pizzino».Nel mirino c’è lei. Il premier Giorgia Meloni con la quale i rapporti non sono mai decollati, o forse sarebbe meglio dire che non sono mai esistiti. Da ultimo, al manager nato a New York non sono andate giù le considerazioni del capo del governo sulla «mancanza di rispetto alle istituzioni» dopo che il presidente di Stellantis aveva dato buca a un Parlamento in trepidante attesa delle sue spiegazioni. «Il rispetto delle istituzioni», sottolinea Jaki a mezzo stampa, «fa parte della nostra storia e della tradizione di famiglia. Io sono orgoglioso di essere italiano». La mancata presenza in Aula? «È il risultato di un’incomprensione sul ruolo di Stellantis, una società globale, rappresentata dal suo ad, Tavares, e non un partito politico». E poi ci sono le accuse della destra: «Avete più preso che dato». «Per l’uomo d’affari», continua l’articolo, «sono ingiuste perché non tengono conto di quanto investito e restituito tramite stipendi, tasse e bilancia commerciale». Se Stellantis fosse un’azienda normale, le parole di John Elkann avrebbero potuto anche avere un fondamento. In qualsiasi azienda basta la parola dell’amministratore delegato, perché se qualcuno gli parla sopra finisce per delegittimarlo. Così come è vero che per una società quotata è quasi impensabile rivelare numeri e business plan. Ma Stellantis non è un’azienda normale. Sfugge forse ai ragionamenti dell’erede dell’Avvocato Agnelli che Stellantis è l’ex Fiat. Per questo le sue parole risultano fuori cotesto. Sono sballate nei numeri perché non si contano i miliardi di sussidi ricevuti dalla «Fabbrica italiana automobili Torino» anche nelle sue declinazioni successive, Fca e Stellantis per intenderci. E sballate nel concetto, perché proprio in virtù di quel rapporto ombelicale, non si può pensare di dire che all’Italia devono bastare le promesse (peraltro mai mantenute) di un ad portoghese che viene in Parlamento a chiedere nuovi incentivi sottolineando che servono ai cittadini, mica all’azienda. Una presa per i fondelli altro che mancato rispetto per le istituzioni. Proprio in virtù di quel rapporto viscerale, all’erede dell’Avvocato toccava esporsi in prima persona. E fin qui c’è il vittimismo. Perché dopo arriva il peggio. Sotto le forme di una minaccia neanche tanto velato. «Elkann», continua l’articolo, «si chiede se a Palazzo Chigi c’è la volontà di leggere il contesto internazionale o solo la voglia di un processo che sta cavalcando anche la sinistra [...] Dal governo Elkann desidera un riconoscimento che la prima azienda manifatturiera italiana pensa di meritare. Vuole che si fermi la caccia alle streghe [...] Se Stellantis dovesse un giorno lasciare, perché non ottiene le risposte che cerca, cosa fa l’esecutivo incatena Elkann allo stabilimento? Lo frusta?».Un avvertimento che usa, nella buona tradizione di famiglia, i lavoratori come scudo. O la fate finita con gli attacchi e continuate a darci soldi oppure sbaracchiamo dal Paese e lasciamo a piedi lavoratori e indotto. Mutatis mutandis era quello che intendeva l’Avvocato quando diceva «Ciò che va bene alla Fiat va bene all'Italia». Ma con un altro stile, un’altra personalità eppure altri numeri. Nel 1980 i dipendenti diretti Fiat nella sola Torino erano circa 130.000, oggi se ne contano a malapena 40.000 in tutto il Paese.
Roberto Occhiuto (Imagoeconomica)
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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