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2025-05-06
L’effetto Simion scuote la Romania. Si dimette il premier socialista
Chi l’ha detta meglio è probabilmente Marine Le Pen che, esclusa – almeno per ora – dalla competizione elettorale per iniziativa dei magistrati in Francia, scrive su X: «La Romania ha appena regalato alla signora Ursula von der Leyen un bel boomerang». Il giorno dopo del primo turno delle presidenziali a Bucarest è tristissimo per Bruxelles e agitatissimo nell’immenso Palatul Parlamentului, sede della politica rumena, il secondo palazzo più grande al mondo in stile sovietico. Si è dimesso il primo ministro Marcel Ciolacu, socialdemocratico, che è stato sfiduciato dal suo partito dopo la durissima sconfitta che la fu maggioranza di governo (Psd, Partito liberale e partito filo ungherese) ha subìto al primo turno delle presidenziali domenica con il trionfo del candidato di destra George Simion (Aur, unione dei rumeni). A scrutinio ancora aperto uno degli esponenti di punta del Psd Robert Sighiartau, aveva liquidato il premier: «È evidente che ci deve essere un governo senza Marcel Ciolacu, poiché egli non ha più alcuna legittimità». Dopo una serie di vertici ieri pomeriggio Ciolacu si è recato dal presidente della Repubblica ad interim Ilie Bolojan e ha rassegnato le dimissioni con tutti i ministri socialdemocratici, che restano in carica per l’ordinaria amministrazione per i prossimi 45 giorni, quando si dovrà nominare un nuovo governo. Con tutta probabilità a nominarlo sarà George Simion visto che il ballottaggio per il presidente della Repubblica si terrà il 18 maggio. E, quasi una nemesi, presidente del Consiglio sarà allora quel Calin Georgescu che al primo turno delle presidenziali del novembre scorso aveva sconfitto proprio Ciolacu , che anche allora aveva presentato le dimissioni poi respinte. Rientrate però a seguito dell’intervento a gamba tesa della Corte Costituzionale rumena che aveva annullato quelle elezioni impedendo a Georgescu anche di ricandidarsi perché sarebbero state inficiate da ingerenze russe.
Viene da dire che quei giudici hanno fatto un favore a Simion e alla destra. Georgescu a novembre aveva vinto con circa il 22% dei voti. Ieri Simion ne ha presi quasi il doppio perché i rumeni si sono ribellati. Peraltro George Simion - si è presentato al seggio in compagnia di Georgescu - ha dichiarato già domenica sera: «Farò di tutto per nominare Georgescu primo ministro». Le dimissioni di Ciolacu spianano la strada, tant’è che i liberali fino all’ultimo hanno cercato di far nascere un governo di emergenza presieduto da Ilie Bolojan che – con una forzatura costituzionale – avrebbe retto la presidenza della Repubblica e quella del consiglio dei ministri.
In Romania dunque è successo ciò che l’Ue si augurava che non accadesse: il candidato di destra, trumpiano convinto tanto da ispirarsi al Maga, George Simion, ha stravinto con il 41% dei consensi. Hanno provato anche questa volta ad agitare il sospetto degli hacker russi, ma senza esito. Al ballottaggio avrà di fronte il sindaco di Bucarest Nicusor Dan, che corre da solo e ha preso il 20,9% dei voti, dunque la metà del suo sfidante. Dan giura fedeltà all’Ue e la sua prima dichiarazione è stata: «Al ballottaggio sarà una sfida tra chi crede nell’Europa, noi, e chi vuole portare la Romania allo sbando». Pare però argomento debole; analizzando il voto emerge che Dan ha raccolto consensi solo nella capitale e dalla componente magiara (in Romania c’è una forte presenza di ungheresi), ma non ha un seguito ampio (il voto all’estero gli ha dato appena il 19%). Simion ha stravinto tra i rumeni all’estero (quasi il 61% degli 860.000 voti espressi), in tutte le zone rurali e anche nelle regioni di confine con la Moldavia (Paese che lo ha espulso come l’Ucraina), che lui sogna di riunificare alla Romania. Può recuperare i voti di Viktor Ponta (14%), anche lui approdato su posizioni nazionaliste. Una sorpresa potrebbe venire dall’elettorato socialdemocratico, che sta abbandonando fin dalle prime ore dopo lo scrutinio Crin Antonescu che era sostenuto dalla triade dei partiti di governo: il Pnl (Partito nazional liberale), il Psd (Partito socialdemocratico) e il partito filo ungherese. Antonescu è arrivato terzo con il 20,4% dei voti e questo segna la fine di un lungo periodo di potere dei socialdemocratici.
Simion ieri ha confermato la sua fedeltà atlantica e ha detto di non voler uscire dall’Europa, ma di voler cambiare l’Europa. Del resto è anche vicepresidente di Ecr, il gruppo dei conservatori a cui appartiene Fdi e che fino a qualche mese fa era guidato da Giorgia Meloni. Tant’è che ieri accanto a Simion c’era Carlo Fidanza, capodelegazione a Bruxelles per FdI, che ha ribadito: «Voglio congratularmi con l’amico George Simion per il suo fantastico lavoro. Ma mi congratulo soprattutto col popolo rumeno, perché riafferma il suo diritto alla libertà, alla democrazia e alla sovranità».
Per una strana coincidenza Bruxelles deve temere il 18 maggio, perché assieme al ballottaggio rumeno si tiene anche il primo turno delle presidenziali in Polonia. E anche lì la destra prepara la sorpresa.
«Ora nessuno osi più interferire»
La vittoria del leader di Aur George Simion al primo turno delle elezioni presidenziali rumene divide il continente europeo: l’entusiasmo ha contagiato i partiti di destra, mentre il risultato preoccupa Bruxelles e il Ppe.
Una tendenza che è in qualche modo già visibile all’interno degli stessi confini italiani. C’è chi ha celebrato il trionfo come il vicepremier Matteo Salvini e chi ha avuto una reazione contenuta come il vicepresidente del Consiglio Antonio Tajani.
Il ministro delle Infrastrutture e dei trasporti ha infatti subito commentato su X: «In Romania il popolo ha finalmente votato, liberamente, con testa e cuore. Con buona pace dei signori di Bruxelles e dei loro sporchi trucchi». E ieri il leader della Lega, facendo riferimento alle elezioni annullate alla fine dello scorso anno, ha specificato: «Spero che nessuno osi più interferire con la democrazia in un Paese membro dell’Unione europea. Fermare le elezioni a urne aperte e arrestare un candidato è roba da regime, non da Europa». Invece, il segretario di Forza Italia non ha voluto commentare le parole di Salvini, sostenendo che «ognuno fa quello che vuole». Tajani, pur sottolineando che la Romania «è un Paese libero» e che «bisogna sempre rispettare il voto», si augura che nel secondo turno non ci sia «troppo antieuropeismo», visto anche che «la Romania ha avuto tanto dall’Unione europea».
È interessante notare che è proprio dai cittadini rumeni presenti in Italia che Simion ha ricevuto un vasto consenso. Lo stesso Salvini ha ricordato che «oltre il 70%» della comunità rumena che vive nel nostro Paese «ha sostenuto George Simion».
Il partito dei conservatori e dei riformisti europei (Ecr), di cui Simion è vicepresidente, si è subito congratulato per il risultato ottenuto. Anzi, il vicepresidente di Ecr e capodelegazione di Fratelli d’Italia a Bruxelles Carlo Fidanza era proprio a fianco di Simion sul palco per celebrare il «voto di libertà». Con il leader di Aur che si trova «nelle condizioni concrete di poter vincere al ballottaggio», la speranza è che «questa breve campagna per il ballottaggio non veda interferenze esterne né da Bruxelles né da altrove e i rumeni possano votare liberamente», ha detto Fidanza. E ha ricordato anche: «Per la nostra famiglia politica si tratterebbe di una grande vittoria, vorrebbe dire anche avere il quarto membro del Consiglio europeo (insieme a Meloni e ai premier di Belgio e Repubblica Ceca) superando addirittura i socialisti».
A lanciare una stoccata direttamente contro il presidente della Commissione Ue è stata Marine Le Pen, che su X, entusiasta dell’esito, ha scritto: «La Romania ha appena regalato alla signora Von der Leyen un bel boomerang». Anche il presidente di Vox, Santiago Abascal, non si è risparmiato nelle valutazioni, spiegando che «la libertà di espressione e la democrazia si stanno facendo strada».
Che Simion piaccia poco a Bruxelles pare assodato. E proprio dalle fila del Ppe, il suo vicepresidente, l’eurodeputato rumeno, Siegfried Muresan, ha commentato la vittoria del primo turno: «L’elezione di George Simion a presidente della Romania sarebbe una cattiva notizia non solo per la Romania, ma per l’Europa», visto che «sarebbe una vittoria strategica della Russia». L’eurodeputato ha attaccato Simion su diversi fronti, dalle posizioni anti Ue a quelle ritenute filorusse. Muresan ha sottolineato che al candidato presidenziale «è stato vietato di entrare in Ucraina e in Moldavia per aver minacciato l’integrità territoriale di questi due Paesi candidati all’Ue». Simion, a detta del vicepresidente del Ppe, è colpevole di aver teso una mano all’ex candidato Calin Georgescu, ma anche di aver paragonato l’Ue «all’Unione Sovietica».
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Il sovranista ottiene il 41% dei voti, il doppio di quelli presi a novembre da Georgescu, poi eliminato dai giudici Il 18 maggio. Ballottaggio con Dan, sindaco della capitale, che già chiama in soccorso «chi crede nell’Unione».Salvini: «Arrestare un candidato è da regime». Fidanza (Fdi): «Al secondo turno il voto sia libero». Le Pen: «Un boomerang per Ursula». Freddi il Ppe e Forza Italia.Lo speciale contiene due articoli.Chi l’ha detta meglio è probabilmente Marine Le Pen che, esclusa – almeno per ora – dalla competizione elettorale per iniziativa dei magistrati in Francia, scrive su X: «La Romania ha appena regalato alla signora Ursula von der Leyen un bel boomerang». Il giorno dopo del primo turno delle presidenziali a Bucarest è tristissimo per Bruxelles e agitatissimo nell’immenso Palatul Parlamentului, sede della politica rumena, il secondo palazzo più grande al mondo in stile sovietico. Si è dimesso il primo ministro Marcel Ciolacu, socialdemocratico, che è stato sfiduciato dal suo partito dopo la durissima sconfitta che la fu maggioranza di governo (Psd, Partito liberale e partito filo ungherese) ha subìto al primo turno delle presidenziali domenica con il trionfo del candidato di destra George Simion (Aur, unione dei rumeni). A scrutinio ancora aperto uno degli esponenti di punta del Psd Robert Sighiartau, aveva liquidato il premier: «È evidente che ci deve essere un governo senza Marcel Ciolacu, poiché egli non ha più alcuna legittimità». Dopo una serie di vertici ieri pomeriggio Ciolacu si è recato dal presidente della Repubblica ad interim Ilie Bolojan e ha rassegnato le dimissioni con tutti i ministri socialdemocratici, che restano in carica per l’ordinaria amministrazione per i prossimi 45 giorni, quando si dovrà nominare un nuovo governo. Con tutta probabilità a nominarlo sarà George Simion visto che il ballottaggio per il presidente della Repubblica si terrà il 18 maggio. E, quasi una nemesi, presidente del Consiglio sarà allora quel Calin Georgescu che al primo turno delle presidenziali del novembre scorso aveva sconfitto proprio Ciolacu , che anche allora aveva presentato le dimissioni poi respinte. Rientrate però a seguito dell’intervento a gamba tesa della Corte Costituzionale rumena che aveva annullato quelle elezioni impedendo a Georgescu anche di ricandidarsi perché sarebbero state inficiate da ingerenze russe. Viene da dire che quei giudici hanno fatto un favore a Simion e alla destra. Georgescu a novembre aveva vinto con circa il 22% dei voti. Ieri Simion ne ha presi quasi il doppio perché i rumeni si sono ribellati. Peraltro George Simion - si è presentato al seggio in compagnia di Georgescu - ha dichiarato già domenica sera: «Farò di tutto per nominare Georgescu primo ministro». Le dimissioni di Ciolacu spianano la strada, tant’è che i liberali fino all’ultimo hanno cercato di far nascere un governo di emergenza presieduto da Ilie Bolojan che – con una forzatura costituzionale – avrebbe retto la presidenza della Repubblica e quella del consiglio dei ministri. In Romania dunque è successo ciò che l’Ue si augurava che non accadesse: il candidato di destra, trumpiano convinto tanto da ispirarsi al Maga, George Simion, ha stravinto con il 41% dei consensi. Hanno provato anche questa volta ad agitare il sospetto degli hacker russi, ma senza esito. Al ballottaggio avrà di fronte il sindaco di Bucarest Nicusor Dan, che corre da solo e ha preso il 20,9% dei voti, dunque la metà del suo sfidante. Dan giura fedeltà all’Ue e la sua prima dichiarazione è stata: «Al ballottaggio sarà una sfida tra chi crede nell’Europa, noi, e chi vuole portare la Romania allo sbando». Pare però argomento debole; analizzando il voto emerge che Dan ha raccolto consensi solo nella capitale e dalla componente magiara (in Romania c’è una forte presenza di ungheresi), ma non ha un seguito ampio (il voto all’estero gli ha dato appena il 19%). Simion ha stravinto tra i rumeni all’estero (quasi il 61% degli 860.000 voti espressi), in tutte le zone rurali e anche nelle regioni di confine con la Moldavia (Paese che lo ha espulso come l’Ucraina), che lui sogna di riunificare alla Romania. Può recuperare i voti di Viktor Ponta (14%), anche lui approdato su posizioni nazionaliste. Una sorpresa potrebbe venire dall’elettorato socialdemocratico, che sta abbandonando fin dalle prime ore dopo lo scrutinio Crin Antonescu che era sostenuto dalla triade dei partiti di governo: il Pnl (Partito nazional liberale), il Psd (Partito socialdemocratico) e il partito filo ungherese. Antonescu è arrivato terzo con il 20,4% dei voti e questo segna la fine di un lungo periodo di potere dei socialdemocratici. Simion ieri ha confermato la sua fedeltà atlantica e ha detto di non voler uscire dall’Europa, ma di voler cambiare l’Europa. Del resto è anche vicepresidente di Ecr, il gruppo dei conservatori a cui appartiene Fdi e che fino a qualche mese fa era guidato da Giorgia Meloni. Tant’è che ieri accanto a Simion c’era Carlo Fidanza, capodelegazione a Bruxelles per FdI, che ha ribadito: «Voglio congratularmi con l’amico George Simion per il suo fantastico lavoro. Ma mi congratulo soprattutto col popolo rumeno, perché riafferma il suo diritto alla libertà, alla democrazia e alla sovranità». Per una strana coincidenza Bruxelles deve temere il 18 maggio, perché assieme al ballottaggio rumeno si tiene anche il primo turno delle presidenziali in Polonia. 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Il ministro delle Infrastrutture e dei trasporti ha infatti subito commentato su X: «In Romania il popolo ha finalmente votato, liberamente, con testa e cuore. Con buona pace dei signori di Bruxelles e dei loro sporchi trucchi». E ieri il leader della Lega, facendo riferimento alle elezioni annullate alla fine dello scorso anno, ha specificato: «Spero che nessuno osi più interferire con la democrazia in un Paese membro dell’Unione europea. Fermare le elezioni a urne aperte e arrestare un candidato è roba da regime, non da Europa». Invece, il segretario di Forza Italia non ha voluto commentare le parole di Salvini, sostenendo che «ognuno fa quello che vuole». Tajani, pur sottolineando che la Romania «è un Paese libero» e che «bisogna sempre rispettare il voto», si augura che nel secondo turno non ci sia «troppo antieuropeismo», visto anche che «la Romania ha avuto tanto dall’Unione europea». È interessante notare che è proprio dai cittadini rumeni presenti in Italia che Simion ha ricevuto un vasto consenso. Lo stesso Salvini ha ricordato che «oltre il 70%» della comunità rumena che vive nel nostro Paese «ha sostenuto George Simion». Il partito dei conservatori e dei riformisti europei (Ecr), di cui Simion è vicepresidente, si è subito congratulato per il risultato ottenuto. Anzi, il vicepresidente di Ecr e capodelegazione di Fratelli d’Italia a Bruxelles Carlo Fidanza era proprio a fianco di Simion sul palco per celebrare il «voto di libertà». Con il leader di Aur che si trova «nelle condizioni concrete di poter vincere al ballottaggio», la speranza è che «questa breve campagna per il ballottaggio non veda interferenze esterne né da Bruxelles né da altrove e i rumeni possano votare liberamente», ha detto Fidanza. E ha ricordato anche: «Per la nostra famiglia politica si tratterebbe di una grande vittoria, vorrebbe dire anche avere il quarto membro del Consiglio europeo (insieme a Meloni e ai premier di Belgio e Repubblica Ceca) superando addirittura i socialisti». A lanciare una stoccata direttamente contro il presidente della Commissione Ue è stata Marine Le Pen, che su X, entusiasta dell’esito, ha scritto: «La Romania ha appena regalato alla signora Von der Leyen un bel boomerang». Anche il presidente di Vox, Santiago Abascal, non si è risparmiato nelle valutazioni, spiegando che «la libertà di espressione e la democrazia si stanno facendo strada». Che Simion piaccia poco a Bruxelles pare assodato. E proprio dalle fila del Ppe, il suo vicepresidente, l’eurodeputato rumeno, Siegfried Muresan, ha commentato la vittoria del primo turno: «L’elezione di George Simion a presidente della Romania sarebbe una cattiva notizia non solo per la Romania, ma per l’Europa», visto che «sarebbe una vittoria strategica della Russia». L’eurodeputato ha attaccato Simion su diversi fronti, dalle posizioni anti Ue a quelle ritenute filorusse. Muresan ha sottolineato che al candidato presidenziale «è stato vietato di entrare in Ucraina e in Moldavia per aver minacciato l’integrità territoriale di questi due Paesi candidati all’Ue». Simion, a detta del vicepresidente del Ppe, è colpevole di aver teso una mano all’ex candidato Calin Georgescu, ma anche di aver paragonato l’Ue «all’Unione Sovietica».
Ansa
Eppure, fino a pochi giorni fa, per la banca più antica del mondo l’aria era diventata irrespirabile. Le indagini della Procura di Milano avevano spinto il titolo giù dal cavallo, facendogli perdere miliardi di capitalizzazione. Le prime pagine dei giornali finanziari tremavano all’unisono: «aggiotaggio», «ostacolo alla vigilanza», «patto occulto». Parole che in Borsa funzionano come il fumo negli alveari: tutti scappano, nessuno chiede perché. Poi, lunedì, il colpo di scena. Spunta la parola magica che fa battere il cuore agli investitori: Consob. L’Autorità di vigilanza, finora poco loquace, aveva già detto a settembre che di «concerto» nella scalata a Mediobanca non ne vedeva traccia. E a Piazza Affari questo basta. Non è certezza, è una sfumatura, un mezzo sorriso, un sopracciglio alzato: ma per i mercati è come una benedizione papale. La Procura, però, non sembra aver preso bene la posizione dell’Autorità. Così ha inviato nuove carte, intercettazioni comprese, convinta che tra Luigi Lovaglio, Francesco Gaetano Caltagirone e Francesco Milleri ci fosse più di una semplice comunione d’intenti. Per i magistrati milanesi il trio avrebbe pianificato la conquista di Mps e poi la scalata a Mediobanca con la meticolosità di un architetto che disegna una cattedrale gotica.
Il punto è che dimostrarlo non è affatto semplice. Lo ha ricordato più volte lo stesso Paolo Savona, presidente della Consob, che sulla materia ha mostrato la cautela di un chirurgo: «Il concerto occulto è complesso da provare». Tradotto: puoi avere intercettazioni, sospetti, ricostruzioni, ma per far quadrare la tesi serve molto di più. E forse è questo che ha fatto scattare l’effetto molla sul titolo Mps: l’idea che la montagna giudiziaria rischi di partorire un topolino burocratico. Da qui in avanti il racconto assume i contorni della tragicommedia finanziaria. Milano manda documenti a Roma; Roma annuncia di valutarli. Gli investitori, che hanno il fiuto dei cani da caccia, interpretano la mossa come: «Sì, le carte le leggiamo, ma intanto non cambia nulla rispetto a settembre». E la banca di Siena - che ha passato negli ultimi dieci anni disastri che avrebbero fatto chiudere qualunque altro istituto occidentale - stavolta fiuta l’aria buona. Intanto gli analisti, quelli che il mercato lo guardano dall’alto del loro grafico preferito, si mostrano quasi papali: buy confermato, target price a 11 euro, fiducia intatta. Per loro la tempesta giudiziaria è un rumore di fondo. Una di quelle pioggerelline che fanno frusciare le foglie ma non cambiano le previsioni della vendemmia. Il paradosso è che anche Mediobanca, la presunta vittima designata del «concerto» inesistente, brinda. Alle 17 è a 16,48 euro, in rialzo dell’1,35%. Sembra quasi che il mercato si sia rassegnato a un’idea semplice: questa storia finirà in un grande nulla di fatto, come tante vicende finanziarie italiane in cui i protagonisti si guardano negli occhi e dicono: «Abbiamo scherzato». È un Paese curioso, l’Italia. Le accuse volano come coriandoli, i titoli crollano, la politica si indigna, i pm lavorano a pieno ritmo. Poi basta una riga in una relazione Consob - nemmeno una conclusione, solo un orientamento - e tutto si ribalta.
Il caso Mps dimostra ancora una volta che nel nostro mercato finanziario non c’è nulla di più potente della percezione. Non la verità processuale, non gli atti, non i faldoni. La percezione. Se la Consob solleva un sopracciglio, Mps vola. Se la magistratura invia nuove carte, il titolo magari trema per qualche ora, ma poi risale. È il teatro della finanza italiana: un luogo dove le istituzioni recitano, il pubblico interpreta e il mercato decide chi applaudirà. Intanto, a Siena, si festeggia. Non apertamente, perché la prudenza è d’obbligo. Ma nei corridoi, tra una planata di grafici e una riunione lampo, dev’essere tornato a circolare un pensiero che la banca aveva sepolto da tempo: forse stavolta siamo davvero usciti dal tunnel. Non è detto, perché le carte giudiziarie hanno vita propria e la Procura non ama essere smentita. Ma di certo lunedì è successo qualcosa. La banca più antica del mondo ha mostrato di avere ancora schiena, gambe e fiato. E soprattutto una cosa che da anni le mancava: fiducia. Il resto lo farà il tempo. E, naturalmente, la Consob. Che con un cenno, anche involontario, riesce ancora a muovere montagne. O almeno a far correre Mps come non succedeva da un pezzo.
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Il 43,8 % degli italiani ha detto di non ritenerla utile. «È una riflessione importante», osservava Ghisleri nel programma Realpolitik di Tommaso Labate su Rete 4, «perché vorrebbe dire che la legge sul consenso verrebbe utilizzata come deterrente, ma non sarebbe utile perché manca l’educazione». Ricordiamo che la legge, che introduce nel Codice penale il concetto di «consenso libero e attuale», è stata approvata all’unanimità alla Camera e presentata come un accordo bipartisan tra il premier Giorgia Meloni e il segretario del Pd, Elly Schlein. In commissione Giustizia, la coalizione di governo ha chiesto un nuovo passaggio, scatenando la reazione dell’opposizione che ha parlato di un «voltafaccia», di patto politico tradito. Ancor più singolare è che, nel sondaggio, sia stato il 37,6% delle donne a non ritenere la norma sullo stupro utile a scoraggiare o impedire la violenza sessuale, rispetto a un 38,8% convinto che serva. Perciò, se il 51,6% degli italiani interpellati crede che sia necessaria una legge che inasprisca il reato, ridefinendone le modalità (il ddl torna questa settimana in commissione a Palazzo Madama), la maggior parte di questo campione non lo considera un deterrente effettivo.
Inevitabile chiedersi il senso, allora, di una legge che complica all’inverosimile l’onere della prova di un consenso non «libero e attuale» (e il non poterlo provare può diventare equivalente all’aver commesso il reato), mentre poco inciderebbe nella protezione delle donne. Non la crede utile non solo l’elettorato di centrodestra (47,9% delle risposte, rispetto al 38,2% di «sì»), ma anche una bella fetta di coloro che votano a sinistra (34,3% i «no», 43,3 % i «sì»). E se può non sorprendere che il 53,6% degli elettori di Fratelli d’Italia abbia detto di con credere alla legge come prevenzione di episodi di violenza, è significativo che la pensi allo stesso modo il 38,5% di quanti votano Pd e che appena il 36,5% dei dem la consideri, invece, utile.
Quindi nei due partiti rappresentati da Giorgia Meloni e da Elly Schlein sono più forti le perplessità, circa l’approvazione del ddl come misura deterrente. Quanto all’impatto del reato di violenza sessuale riformato sulla base di un accordo Meloni-Schlein, restano sempre forti le riserve degli italiani. Non tanto perché non serva una legge dura (oltre il 53% sia a sinistra sia a destra si dice a favore), ma in quanto non risulta ben formulata. Non definisce che cosa costituisce consenso, anche nelle forme non verbali e nemmeno chiarisce quali elementi probatori possono dimostrarlo o escluderlo. «Si pensa che questi requisiti di libertà e attualità siano puntualizzati a tutela della donna e a vincolo e controllo per l’uomo: anche qui siamo di fronte a un ribaltamento concettuale e fisico della prova, spesso sono le donne che prendono l’iniziativa e non si può “pregiudizialmente” pensare al maschio come attaccante-persecutore, attizzatore di incendi passionali che si trasformano in atti di coercizione nel “fare” e nell’insistere», osservava due giorni fa su Startmag Francesco Provinciali, già giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Milano.
Fanno pensare, inoltre, gli esiti di un altro sondaggio che è stato riportato sempre da Ghisleri. «Abbiamo chiesto quali sono le paure più grandi (degli italiani, ndr), al primo posto ci sono le aggressioni e le minacce (22,7%), seguite da rapine in casa (20,5%), furti e rapine (19,4%), truffe e frodi (16,6%)». La violenza sessuale risultava solo al quinto posto (9,4%) come preoccupazione. Eppure, dai primi dati emersi dall’indagine 2025 sulla violenza contro le donne condotta dal dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio e l’Istat denominata «Sicurezza delle donne», risultano aumentate «dal 30,1% al 36,3% le vittime che considerano un reato la violenza subita dal partner e raddoppia la percentuale delle richieste di aiuto ai Centri antiviolenza e gli altri servizi specializzati (dal 4,4 del 2014 all’8,7% del 2025)».
Evidentemente, la certezza della pena non è un deterrente. Rispetto al passato, c’è una diversa sensibilità verso la violenza sessuale e i diversi contenuti giuridici che il reato ha assunto nel tempo, però occorrono strategie volte all’educazione, alla sensibilizzazione, al riconoscimento della violenza, formando operatori (dalla scuola alla magistratura, passando per i servizi sociali). Serve rendere operativo ovunque il percorso di tutela per le donne che hanno subito violenza e perseguire chi l’ha provocata. Discutere di pertinenza e liceità all’interno della coppia, criminalizzando a priori, non argina la violenza sessuale.
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Quella al ladro, invece, è finita «grazie» all’intervento di quanti hanno braccato un albanese di 40 anni finito poi in ospedale con 30 giorni di prognosi. Il messaggio della questura è chiaro, «nessuna giustizia fai da te». Ma la corsa a identificare i residenti che hanno inseguito il ladro, alcuni forse armati di piccone tanto da provocargli una frattura al bacino, per la comunità è difficile da digerire. «In casa con me vivono mia moglie e i miei due bambini piccoli. Per fortuna, in quel momento non eravamo presenti. L’allarme è scattato ma le forze dell’ordine sono arrivate una decina di minuti dopo: il tempo sufficiente perché i ladri scappassero», scrive in una lettera al sito Aostasera.it un cittadino che vive in una delle case finite nel mirino dei ladri. «Non vuole essere un rimprovero ai carabinieri che sono intervenuti, ma il dato di fatto di un territorio in cui i tempi di reazione non sono adeguati alla pressione dei furti che subiamo da mesi». Addirittura cinque o sei i raid di furti verificatisi a partire dall’estate. Troppi per il paesino che ormai vive nell’angoscia.
Lo scorso venerdì erano passate da poco le 19 quando un massaggio da parte di un cittadino ha fatto scattare l’allarme: «Sono tornati i ladri». E di lì il tam tam da un telefonino all’altro: «Fate attenzione, chiudete le porte». Il rumore provocato dai ladri nel tentativo di aprire una cassaforte richiama l’attenzione dei cittadini che chiamano i carabinieri. In poco tempo, però, scatta il caos perché in molti si riversano in strada. Partono le urla, le segnalazioni, alcuni residenti sono armati di bastoni. Qualcuno parla di picconi ma i cittadini, oggi, negano. Uno dei malviventi scappa verso il bosco mentre l’altro viene individuato grazie all’utilizzo di una termocamera e fermato. Ha con sé la refurtiva, 5.000 euro, gli abitanti gli si scagliano contro e solo l’intervento dei carabinieri mette fine al linciaggio oggi duramente stigmatizzato dal questore Gian Maria Sertorio: «La deriva giustizialista è pericolosissima, le ronde non devono essere fatte in alcun modo, bisogna chiamare il 112 e aspettare le forze dell’ordine». Dello stesso avviso il comandante dei carabinieri della Valle d’Aosta, Livio Propato, che ribadisce un secco «no alle ronde e alla giustizia fai da te. Non bisogna lasciarsi prendere dalla violenza gratuita perché è un reato. E si passa dalla parte del torto. I controlli ci sono, i furti ci sono, ma noi tutti stiamo facendo ogni sforzo per uscire tutte le sere con più pattuglie e quella sera siamo subito intervenuti».
Già, peccato che, a quanto pare, tutto questo non basti. Negli ultimi mesi il Comune si era attrezzato di una cinquantina di telecamere per contrastare le incursioni dei ladri ma senza successo. «A livello psicologico è un periodo complicato», stempera il sindaco Alexandre Bertolin, «le forze dell’ordine fanno del loro meglio ma non si riesce a monitorare tutto. Abbiamo le telecamere ma al massimo riusciamo a vedere dopo il fatto come si sono mossi i ladri». E anche qualora si dovesse arrivare prima e si riuscisse a fermare il ladro, commentano i cittadini, tutto poi finisce in un nulla di fatto.
«Leggendo le cronache», si legge sempre nella lettera a Aostasera.it, «si apprende che il ladro fermato sarebbe incensurato. Temo che questo significhi pochi giorni di detenzione e una rapida scarcerazione. Tradotto: io resto l’unica vittima, con la casa a soqquadro, i ricordi rubati e la paura addosso; lui invece rischia di cavarsela con poco senza dover dire chi lo aiutava e dove sono finiti i nostri beni».
Un clima di esasperazione destinato ad aumentare ora che si scopre che nemmeno difendersi sarebbe legittimo. Intanto, per il ladro, accusato di furto e in carcere fino al processo che si terrà il 19 dicembre, la linea difensiva è già pronta . Quella di un cuoco con figli piccoli da mantenere e tanto bisogno di soldi. «Mi hanno mandato altri albanesi», dice. In attesa di vedere quale corso farà la giustizia, i cittadini ribadiscono che l’attesa inerme non funziona. «Quando la legge non riesce a proteggere chi subisce i reati, le persone, piaccia o no si organizzano da sole. Se vogliamo evitare che episodi come questo si ripetano non dovremmo essere stigmatizzati. Occorre dare alla comunità strumenti per sentirsi protette. Prima che la rabbia prenda il sopravvento». Non proprio la direzione in cui sembra andare ora l’Arma.
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«Little Disasters: L'errore di una madre» (Paramount+)
Sarah Vaughan è quella di Anatomia di uno scandalo, diventato poi miniserie Netflix. Ed è la stessa che pare averci preso gusto, con la narrazione televisiva. Giovedì 11 dicembre, tocca ad un altro romanzo della scrittrice debuttare come serie tv, non su Netflix, ma su Paramount+.
Little Disasters: L'errore di una madre non è un thriller e non ha granché delle vicissitudini, amorose e politiche, che hanno decretato il successo di Anatomia di uno scandalo. Il romanzo è riflessivo. Non pretende di spiegare, di inventare una storia che possa tenere chi legga con il fiato sospeso o indurlo a parteggiare per questa o quella parte, a indignarsi e commuoversi insieme ai suoi protagonisti. Little Disasters è la storia di un mestiere mai riconosciuto come tale, quello di madre. Non c'è retorica, però. Sarah Vaughan non sembra ambire a veder riconosciuto uno dei tanti sondaggi che alle madri del mondo assegnano uno stipendio, quantificando le ore spese nell'accudimento dei figli e della casa. Pare, piuttosto, intenzionata a sondare le profondità di un abisso che, spesso, rimane nascosto dietro sorrisi di facciata, dietro un contegno autoimposto, dietro una perfezione solo apparente.
Little Disastersè, dunque, la storia di Liz e di Jess, due amiche che sulla propria e personale concezione di maternità imbastiscono - loro malgrado - un conflitto insanabile. Jess, pediatra all'interno di un ospedale, è di turno al pronto soccorso, quando Liz si presenta con la sua bambina fra le braccia. Sembra non stare bene, per ragioni imperscrutabili ad occhio profano. Ma i primi esami rivelano altro: un'altra verità. La piccola ha una ferita alla testa, qualcosa che una madre non può non aver visto. Qualcosa che, forse, una madre può addirittura aver provocato. Così, sui referti di quella piccinina si apre la guerra, fatta di domande silenziose, di diffidenza, di dubbi. Jess comincia a pensare che, all'interno della famiglia di Liz, così bella a guardarla da fuori, possa nascondersi un mostro. Ipotizza che l'amica possa soffrire di depressione post partum, che la relazione tra lei e il marito possa essere violenta. Liz, da parte sua, non parla. Non dice. Non spiega come sia possibile non abbia visto quel bozzo sul crapino della bambina. E Little Disasters va avanti, con un finale piuttosto prevedibile, ma con la capacità altresì di raccontare la complessità della maternità, le difficoltà, i giudizi, la deprivazione del sonno, il peso di una solitudine che, a tratti, si rivela essere assordante.
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