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2022-12-21
«Effetti avversi, rischi per gli over 65». Ma Schillaci insiste per fare altri vaccini
Orazio Schillaci (Imagoeconomica)
«Vacciniamo i più fragili e mettiamo la mascherina»: le risposte delle istituzioni (nella fattispecie, del ministro Orazio Schillaci, intervistato ieri dal Messaggero, ) alla fine, sono sempre le stesse da due anni. Anche adesso che basta un picco influenzale per far precipitare nuovamente la popolazione nell’ennesima percezione di emergenza. Reale o virtuale?
La situazione in realtà è, come al solito, molto amplificata dai media, che ogni giorno titolano sui «pronto soccorso allo stremo» e ancora non hanno deciso se il Covid sia più o meno grave dell’influenza. Le virostar sul tema si accapigliano: ieri il docente di parassitologia molecolare Andrea Crisanti, oggi senatore del Partito Democratico, si è scagliato duramente contro il presidente Aifa, Giorgio Palù, reo di aver dichiarato che il Covid è meno letale dell’influenza: «Questa è una manifestazione di analfabetismo di sanità pubblica», ha attaccato Crisanti. Anche l’ex consigliere scientifico di Roberto Speranza, l’igienista Walter Ricciardi, ha dichiarato in televisione che «il Covid non è affatto meno letale dell’influenza, dato che fa sempre 80-100 morti al giorno». Ma dimentica che, per fare un esempio, durante la prima settimana del 2019, la mortalità, solo da sindrome influenzale, aveva una media giornaliera di 235 decessi (dati ISS-Epicentro). Ed è Ricciardi stesso ad aver partecipato, nel 2019, a uno studio che certificava che nella stagione invernale 2016-2017 i decessi in eccesso attribuibili alle epidemie influenzali sono stati 24.981: non pochi. Eppure all’epoca nessun medico invocava la vaccinazione antinfluenzale di massa, anche per i bambini, come sta accadendo adesso. Sarà forse per non scontentare nessuno che il ministro della Salute, Orazio Schillaci, dovendo fare il sunto delle mille posizioni dei virologi da salotto, ha dovuto da un lato assicurare che gli ospedali non sono in crisi, dall’altro suggerire sempre il solito protocollo: vaccinazione dei fragili e mascherina.
La raccomandazione delle istituzioni italiane per gli over 65 è di fare la quarta dose (per qualcuno addirittura la quinta) e il vaccino antinfluenzale insieme: doppio shot. Eppure, da oltreoceano, continuano ad arrivare informazioni che suggeriscono maggiore prudenza. Il ministro della salute della Florida Joseph A. Ladapo, ad esempio, ha lamentato «il ritardo di due anni nella pubblicazione dei risultati secondo cui il vaccino anti Covid di Pfizer può aumentare il rischio di coaguli di sangue nei polmoni (emboli polmonari) e attacchi di cuore». Ladapo ha ripubblicato uno studio di Science Direct, in collaborazione con Fda, effettuato su anziani over 65 che segnala una possibile correlazione tra vaccinazione Pfizer ed embolia polmonare, infarto miocardico acuto, coagulazione intravascolare e trombocitopenia.
Come per altri segnali, deve essere preso sul serio e studiato più a fondo, dato che negli Stati Uniti, ma anche in Germania e soprattutto in Italia, è mancata completamente una farmacovigilanza adeguata sui vaccini anti Covid. Le evidenze che, giorno dopo giorno, stimolano maggiori approfondimenti sui potenziali danni dei vaccini anti Covid a mRna, si fanno sempre più frequenti: Joseph Ladapo, ad esempio, martedì 13 dicembre ha convocato una riunione sostenendo che la sua decisione di indagare sulle morti improvvise per miocardite da vaccino è stata ispirata da uno studio dalla Germania, pubblicato sul Clinical research in Cardiology. Lo studio ha trovato tracce di miocardite nelle autopsie di 5 persone, su 25, morte improvvisamente dopo la vaccinazione anti Covid. E sempre dalla Germania sono arrivati la scorsa settimana i dati, abbastanza preoccupanti, ricavati dal database di KBV, l’associazione di tutte le assicurazioni malattia a pagamento, che copre circa 72 milioni di tedeschi. In sostanza, i dati resi pubblici dal deputato Martin Sichert rivelano che i casi di «morte improvvisa» nel 2021 si sono più che decuplicati rispetto agli anni precedenti (dai meno di 1.000 negli anni 2016-2020 agli oltre 10.000 del 2021). Non solo: anche il Partito Conservatore britannico ha denunciato in Parlamento che la British Heart Foundation starebbe sopprimendo le prove che i vaccini anti Covid causano danni cardiaci, inviando persino accordi di non divulgazione al suo gruppo di ricerca. Non rassicura neanche la curiosa variazione dei dati sull’eccesso di mortalità osservata su Euromomo, che due giorni fa, il 19 dicembre, registrava 186.083 decessi in più, mentre lo scorso 1 dicembre ne riferiva circa 308.000: risuscitati?
È per questi «segnali», riscontrati ovunque nel mondo, che il governatore repubblicano Ron De Santis ha istituito un «Grand Jury» per indagare sui vaccini a mRNA, sui decessi correlati al cuore legati ai vaccini a mRNA e costituirà un «Comitato per l’integrità della Salute pubblica». Sarebbe opportuno anche qui in Italia. Ma per ora dobbiamo accontentarci delle raccomandazioni del ministro Schillaci su come affrontare le prossime festività: «Con senso di responsabilità e con la vaccinazione dei più fragili». Dal cilindro non esce fuori altro.
Primo arresto nell’inchiesta sui legali vicini a Conte
L’inchiesta di Roma sull’avvocato Luca Di Donna e sul giro di legali legati all’ex premier Giuseppe Conte miete la prima vittima: Federico Tedeschini, pure lui noto civilista della Capitale che, mentre con La Verità scherzava, con un gusto tutto romano per la battuta, sull’inconsistenza del traffico di influenze illecite, avrebbe commesso, secondo il giudice che per lui ha disposto gli arresti domiciliari, un reato più grave, la corruzione. «Per noi avvocati il traffico di influenze che vol di’?», giocherellava mentre i cronisti della Verità gli chiedevano un anno fa se era stato perquisito. Prima di congedarsi fece una previsione: «Con questa accusa nel processo mi assolvono, ma prima mi rompono le scatole». E con la consueta arguzia affermò che li stava aspettando: «Vengano pure, non sono uno che si spaventa». L’altro giorno i carabinieri si sono presentati a casa sua. E del collega Pierfrancesco Sicco (finito pure lui ai domiciliari). Ma sono state notificate anche altre misure cautelari: la sospensione dai pubblici uffici per 12 mesi per il magistrato presidente della Terza sezione del Tar del Lazio, Silvestro Maria Russo, per l’avvocato Giammaria Covino e per il commissario ad acta dell’Ato di Imperia, Gaia Checcucci (ieri inibita dal governatore ligure Giovanni Toti).
L’inchiesta, proprio come aveva ricostruito La Verità, parte da quella su Di Donna, nella quale emerse che nello studio Alpa-Di Donna durante la pandemia si sarebbe consumato un incontro per l’affare mascherine, con un imprenditore in cerca di contatti per ottenere commesse dal commissario per l’emergenza, Domenico Arcuri. E dopo l’articolo della Verità dell’ottobre 2021, i carabinieri, con due informative del febbraio 2022, segnalano alla Procura di Roma alcune «conversazioni [...] costituenti autonome notizie di reato in tema di corruzione». Tedeschini con Di Donna ha condiviso più di una causa civile. Tra queste ne spicca una a difesa del presidente del porto di Trieste Zeno D’Agostino, silurato da una decisione dell’Anac che aveva ritenuto inconferibile l’incarico. I giornali notarono subito il dream team messo in campo da D’Agostino: il professor Guido Alpa, mentore di Conte, e con lui anche Di Donna (l’Autorità portuale lo ha pagato 15.000 euro) e Tedeschini. Il prestigioso collegio difensivo incassò una vittoria davanti al Tribunale amministrativo e D’Agostino tornò in sella.
Ma i carabinieri si sono concentrati su alcuni contenziosi amministrativi. E le due strade di Di Donna e di Tedeschini si sono divise. Dalle chiacchierate intercettate nello studio Tedeschini, annotano i carabinieri, sarebbe emerso che l’avvocato «non solo avrebbe messo a disposizione dei clienti la sua professionalità, ma soprattutto collaudati rapporti con pubblici ufficiali in posizioni apicali». E, così, intercettazione dopo intercettazione, è stata ricostruita quella che secondo i pm era la volontà di interferire con le centrali del potere romano. Con trucchetti per pilotare provvedimenti amministrativi e strategie per tentare di influenzare le nomine all’interno del Consiglio di Stato (con tanto di «cavallo di Troia» con il compito di informare il presidente Franco Frattini che l’eventuale pubblicazione di notizie in merito avrebbe screditato il Consiglio), ma anche «la nomina ai vertici delle unità di struttura per la realizzazione del Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza)».
E non solo. A Tedeschini si rivolgeva chiunque aspirasse a ricoprire incarichi di rilievo per trovare quello che i magistrati definiscono «il giusto canale istituzionale». E lui si faceva forte di un’amicizia col marito del capo di gabinetto di Mara Carfagna al ministero per il Sud e la Coesione Territoriale, Francesca Quadri (che non è indagata). Proprio Checcucci, per esempio, mirava «a essere nominata capo dipartimento della struttura per il Pnrr». Tedeschini, invitando Covino a una cena con la Quadri, torna a ironizzare: «Me l’ha chiesto la Checcucci... è una marchetta... mo’ ci danno il traffico di influenze». Alla fine, invece, è spuntata l’accusa di corruzione.
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Uno studio mostra la possibile correlazione del siero con embolie e infarti tra anziani. Che qui sono invitati all’ennesimo richiamo.Primo arresto nell’inchiesta sui legali vicini a Giuseppe Conte. L’avvocato Federico Tedeschini ai domiciliari per corruzione. Indagini partite dal fascicolo su Luca Di Donna, coinvolto nell’affare mascherine.Lo speciale contiene due articoli.«Vacciniamo i più fragili e mettiamo la mascherina»: le risposte delle istituzioni (nella fattispecie, del ministro Orazio Schillaci, intervistato ieri dal Messaggero, ) alla fine, sono sempre le stesse da due anni. Anche adesso che basta un picco influenzale per far precipitare nuovamente la popolazione nell’ennesima percezione di emergenza. Reale o virtuale? La situazione in realtà è, come al solito, molto amplificata dai media, che ogni giorno titolano sui «pronto soccorso allo stremo» e ancora non hanno deciso se il Covid sia più o meno grave dell’influenza. Le virostar sul tema si accapigliano: ieri il docente di parassitologia molecolare Andrea Crisanti, oggi senatore del Partito Democratico, si è scagliato duramente contro il presidente Aifa, Giorgio Palù, reo di aver dichiarato che il Covid è meno letale dell’influenza: «Questa è una manifestazione di analfabetismo di sanità pubblica», ha attaccato Crisanti. Anche l’ex consigliere scientifico di Roberto Speranza, l’igienista Walter Ricciardi, ha dichiarato in televisione che «il Covid non è affatto meno letale dell’influenza, dato che fa sempre 80-100 morti al giorno». Ma dimentica che, per fare un esempio, durante la prima settimana del 2019, la mortalità, solo da sindrome influenzale, aveva una media giornaliera di 235 decessi (dati ISS-Epicentro). Ed è Ricciardi stesso ad aver partecipato, nel 2019, a uno studio che certificava che nella stagione invernale 2016-2017 i decessi in eccesso attribuibili alle epidemie influenzali sono stati 24.981: non pochi. Eppure all’epoca nessun medico invocava la vaccinazione antinfluenzale di massa, anche per i bambini, come sta accadendo adesso. Sarà forse per non scontentare nessuno che il ministro della Salute, Orazio Schillaci, dovendo fare il sunto delle mille posizioni dei virologi da salotto, ha dovuto da un lato assicurare che gli ospedali non sono in crisi, dall’altro suggerire sempre il solito protocollo: vaccinazione dei fragili e mascherina. La raccomandazione delle istituzioni italiane per gli over 65 è di fare la quarta dose (per qualcuno addirittura la quinta) e il vaccino antinfluenzale insieme: doppio shot. Eppure, da oltreoceano, continuano ad arrivare informazioni che suggeriscono maggiore prudenza. Il ministro della salute della Florida Joseph A. Ladapo, ad esempio, ha lamentato «il ritardo di due anni nella pubblicazione dei risultati secondo cui il vaccino anti Covid di Pfizer può aumentare il rischio di coaguli di sangue nei polmoni (emboli polmonari) e attacchi di cuore». Ladapo ha ripubblicato uno studio di Science Direct, in collaborazione con Fda, effettuato su anziani over 65 che segnala una possibile correlazione tra vaccinazione Pfizer ed embolia polmonare, infarto miocardico acuto, coagulazione intravascolare e trombocitopenia. Come per altri segnali, deve essere preso sul serio e studiato più a fondo, dato che negli Stati Uniti, ma anche in Germania e soprattutto in Italia, è mancata completamente una farmacovigilanza adeguata sui vaccini anti Covid. Le evidenze che, giorno dopo giorno, stimolano maggiori approfondimenti sui potenziali danni dei vaccini anti Covid a mRna, si fanno sempre più frequenti: Joseph Ladapo, ad esempio, martedì 13 dicembre ha convocato una riunione sostenendo che la sua decisione di indagare sulle morti improvvise per miocardite da vaccino è stata ispirata da uno studio dalla Germania, pubblicato sul Clinical research in Cardiology. Lo studio ha trovato tracce di miocardite nelle autopsie di 5 persone, su 25, morte improvvisamente dopo la vaccinazione anti Covid. E sempre dalla Germania sono arrivati la scorsa settimana i dati, abbastanza preoccupanti, ricavati dal database di KBV, l’associazione di tutte le assicurazioni malattia a pagamento, che copre circa 72 milioni di tedeschi. In sostanza, i dati resi pubblici dal deputato Martin Sichert rivelano che i casi di «morte improvvisa» nel 2021 si sono più che decuplicati rispetto agli anni precedenti (dai meno di 1.000 negli anni 2016-2020 agli oltre 10.000 del 2021). Non solo: anche il Partito Conservatore britannico ha denunciato in Parlamento che la British Heart Foundation starebbe sopprimendo le prove che i vaccini anti Covid causano danni cardiaci, inviando persino accordi di non divulgazione al suo gruppo di ricerca. Non rassicura neanche la curiosa variazione dei dati sull’eccesso di mortalità osservata su Euromomo, che due giorni fa, il 19 dicembre, registrava 186.083 decessi in più, mentre lo scorso 1 dicembre ne riferiva circa 308.000: risuscitati? È per questi «segnali», riscontrati ovunque nel mondo, che il governatore repubblicano Ron De Santis ha istituito un «Grand Jury» per indagare sui vaccini a mRNA, sui decessi correlati al cuore legati ai vaccini a mRNA e costituirà un «Comitato per l’integrità della Salute pubblica». Sarebbe opportuno anche qui in Italia. Ma per ora dobbiamo accontentarci delle raccomandazioni del ministro Schillaci su come affrontare le prossime festività: «Con senso di responsabilità e con la vaccinazione dei più fragili». Dal cilindro non esce fuori altro.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/effetti-avversi-rischi-over-65-2658990689.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="primo-arresto-nellinchiesta-sui-legali-vicini-a-conte" data-post-id="2658990689" data-published-at="1671604708" data-use-pagination="False"> Primo arresto nell’inchiesta sui legali vicini a Conte L’inchiesta di Roma sull’avvocato Luca Di Donna e sul giro di legali legati all’ex premier Giuseppe Conte miete la prima vittima: Federico Tedeschini, pure lui noto civilista della Capitale che, mentre con La Verità scherzava, con un gusto tutto romano per la battuta, sull’inconsistenza del traffico di influenze illecite, avrebbe commesso, secondo il giudice che per lui ha disposto gli arresti domiciliari, un reato più grave, la corruzione. «Per noi avvocati il traffico di influenze che vol di’?», giocherellava mentre i cronisti della Verità gli chiedevano un anno fa se era stato perquisito. Prima di congedarsi fece una previsione: «Con questa accusa nel processo mi assolvono, ma prima mi rompono le scatole». E con la consueta arguzia affermò che li stava aspettando: «Vengano pure, non sono uno che si spaventa». L’altro giorno i carabinieri si sono presentati a casa sua. E del collega Pierfrancesco Sicco (finito pure lui ai domiciliari). Ma sono state notificate anche altre misure cautelari: la sospensione dai pubblici uffici per 12 mesi per il magistrato presidente della Terza sezione del Tar del Lazio, Silvestro Maria Russo, per l’avvocato Giammaria Covino e per il commissario ad acta dell’Ato di Imperia, Gaia Checcucci (ieri inibita dal governatore ligure Giovanni Toti). L’inchiesta, proprio come aveva ricostruito La Verità, parte da quella su Di Donna, nella quale emerse che nello studio Alpa-Di Donna durante la pandemia si sarebbe consumato un incontro per l’affare mascherine, con un imprenditore in cerca di contatti per ottenere commesse dal commissario per l’emergenza, Domenico Arcuri. E dopo l’articolo della Verità dell’ottobre 2021, i carabinieri, con due informative del febbraio 2022, segnalano alla Procura di Roma alcune «conversazioni [...] costituenti autonome notizie di reato in tema di corruzione». Tedeschini con Di Donna ha condiviso più di una causa civile. Tra queste ne spicca una a difesa del presidente del porto di Trieste Zeno D’Agostino, silurato da una decisione dell’Anac che aveva ritenuto inconferibile l’incarico. I giornali notarono subito il dream team messo in campo da D’Agostino: il professor Guido Alpa, mentore di Conte, e con lui anche Di Donna (l’Autorità portuale lo ha pagato 15.000 euro) e Tedeschini. Il prestigioso collegio difensivo incassò una vittoria davanti al Tribunale amministrativo e D’Agostino tornò in sella. Ma i carabinieri si sono concentrati su alcuni contenziosi amministrativi. E le due strade di Di Donna e di Tedeschini si sono divise. Dalle chiacchierate intercettate nello studio Tedeschini, annotano i carabinieri, sarebbe emerso che l’avvocato «non solo avrebbe messo a disposizione dei clienti la sua professionalità, ma soprattutto collaudati rapporti con pubblici ufficiali in posizioni apicali». E, così, intercettazione dopo intercettazione, è stata ricostruita quella che secondo i pm era la volontà di interferire con le centrali del potere romano. Con trucchetti per pilotare provvedimenti amministrativi e strategie per tentare di influenzare le nomine all’interno del Consiglio di Stato (con tanto di «cavallo di Troia» con il compito di informare il presidente Franco Frattini che l’eventuale pubblicazione di notizie in merito avrebbe screditato il Consiglio), ma anche «la nomina ai vertici delle unità di struttura per la realizzazione del Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza)». E non solo. A Tedeschini si rivolgeva chiunque aspirasse a ricoprire incarichi di rilievo per trovare quello che i magistrati definiscono «il giusto canale istituzionale». E lui si faceva forte di un’amicizia col marito del capo di gabinetto di Mara Carfagna al ministero per il Sud e la Coesione Territoriale, Francesca Quadri (che non è indagata). Proprio Checcucci, per esempio, mirava «a essere nominata capo dipartimento della struttura per il Pnrr». Tedeschini, invitando Covino a una cena con la Quadri, torna a ironizzare: «Me l’ha chiesto la Checcucci... è una marchetta... mo’ ci danno il traffico di influenze». Alla fine, invece, è spuntata l’accusa di corruzione.
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Prima di essere lapidati da musicofili inflessibili o da fanatici ammiratori di Beethoven (lo siamo anche noi) lasciamo allo stesso Ludwig Vchean l’ultima parola sull’argomento: «Solo i puri di cuore», affermò il genio tedesco, «possono cucinare una buona zuppa». Capito? Il sommo compositore a tavola amava i piatti semplici e disprezzava quelli troppo complicati. Adorava la zuppa, soprattutto quella di pane e uova: era il suo piatto preferito insieme ai maccheroni con il formaggio. Era sordo, ma le papille gustative gli funzionavano alla grande.
Una vera e propria zuppa di verdure musicale la serve al pubblico un gruppo austriaco formato da musicisti, designer, scenografi, autori. Si chiama The Vegetable Orchestra, che usa le verdure come strumenti musicali: una carota intagliata in una certa maniera diventa un flauto, la zucca uno strumento di percussione, le melanzane diventano dopo un sapiente lavoro di intaglio delle nacchere, le zucchine strumenti a fiato e così via. Con questi strumenti suonano pezzi di jazz o di dub, un genere musicale che deriva dal reggae giamaicano, e altra musica. Finito il concerto, dopo gli applausi del pubblico stupito da tanta musica «verde», i musicisti si trasformano in cuochi, gettano gli strumenti in pentoloni e preparano una bella zuppa per il pubblico dopo aver lavato gli strumenti, soprattutto quelli a fiato.
La zuppa vanta una storia vecchia come l’homo sapiens. Fu uno dei primi piatti elaborati dai nostri cavernicoli progenitori centinaia di migliaia di anni fa. Gli studiosi del periodo paleolitico ci documentano che la scoperta dell’acqua calda e il suo impiego per cuocere verdure e altri cibi avvenne nell’età della pietra antica, in incavi di roccia pieni d’acqua nella quale gli uomini primitivi tuffavano pietre roventi per farla bollire. Fu così che nacquero i primi minestroni. La parola «zuppa» arriverà molti millenni dopo, ma sempre in tempi molto antichi rispetto a noi, mutuata dal termine germanico suppa che definiva la fetta di pane inzuppata. Il pane era nell’antichità il cucchiaio dei poveri, le dita della mano la forchetta. La «posateria» delle classi più umili era tutta lì. Una sorta di brodaglia nera molto spartana chiamata melas zomos, nera zuppa, fatta con sangue di porco, budella e vino era la zuppa dei duri soldati di Sparta. A loro, che non cercavano mollezze, piaceva così, brutta da vedere ma semplice e nutriente, adatta a sostenere il fisico durante le campagne militari. Spostandoci in altre parti dell’antica penisola ellenica troviamo una cucina meno rigorosa, ma sempre con un menu nel quale zuppe e piatti brodosi a base di verdure, cereali, erbe spontanee e legumi vari, abbondavano.
Cotture e metodi a parte, quelle preparazioni sono le bis-bis-bisnonne delle zuppe che mangiamo noi oggi fatte, come allora, con cereali tipo orzo e farro, o con legumi, ceci, lenticchie, fave. Borlotti e cannellini erano al di là dell’Atlantico che aspettavano di essere scoperti. Il Phaseolus vulgaris arriverà dopo i viaggi di Colombo e degli altri viaggiatori su caravelle dirette verso il Nuovo mondo. Dalla Grecia a Roma le zuppe sostanzialmente non cambiano: erano piatti che facevano parte della dieta quotidiana dei Romani. Fonti di proteine e nutrienti, erano il comfort food delle classi plebee e dei contadini. Tra le altre zuppe, i legionari amavano quella fatta con pane, aglio, olio e aceto. Furono loro a introdurla in Spagna dove si evolverà fino a diventare il moderno gazpacho, zuppa fredda che si arricchì dal Cinquecento in poi con il pomodoro e i peperoni venuti dall’America.
Una zuppa leggendaria è la soupe à la pavoise, la zuppa pavese, che ha trovato posto nei libri di storia gastronomica dove si racconta di Francesco I di Valois, re di Francia sconfitto e fatto prigioniero dagli spagnoli di Carlo V nella battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525. L’accasciato François du grand nez, come lo chiamavano i suoi sudditi per via del nasone che gli troneggiava sopra la bocca, fu portato dai nemici vincitori in un cascinale di campagna dove trovò ristoro e consolazione nella povera zuppa preparatogli dalla contadina del casolare che mise in una rozza scodella due croste di pane raffermo sopra le quali scocciò un uovo versando poi sul tutto il brodo bollente di erbe spontanee che gorgogliava quotidianamente nella marmitta sul camino. Francesco I, con il morale a terra per la sconfitta («Tutto è perduto fuorché l’onore»), apprezzò talmente quella zuppa villana che quando ritornò sul trono convocò i cuochi di corte insegnando loro la ricetta della zuppa pavese che fu perfezionata dagli chef i quali aggiunsero altri ingredienti ricchi elevandola da contadina che era ad aristocratica.
C’è da dire che la zuppa in Francia troverà il successo che merita grazie a una figura più leggendaria che reale, tale Monsieur Boulanger marchand de bouillon, mercante di brodo. Siamo a Parigi 25 anni prima della presa della Bastiglia e dello scoppio della rivoluzione. Il mitico Boulanger vende zuppe restaurateurs, restauratrici, che sistemano lo stomaco dei clienti cagionevoli rimettendoli in salute in un ambiente tutto sommato comodo con i tavoli accoglienti. Nasce da queste zuppe il restaurant, il ristorante che prende il nome dal ristoro, il conforto, che regalano le zuppe. Dando ragione in questo all’antico e saggio proverbio italiano regalatoci dalla civiltà contadina fin dal Medioevo: «Sette cose fa la zuppa: cava la fame e la sete tutta, empie il ventre, netta il dente, fa dormire, fa smaltire e la guancia fa arrossire».
Il più alto riconoscimento a questo piatto umile ma tanto utile alla sopravvivenza della povera umanità, lo firmano, tra gli altri, alcuni grandi artisti moderni: Paul Cézanne con la sua Natura morta con zuppiera (1884), Pablo Picasso che affronta il tema della povertà ne La zuppa, opera del periodo blu che mostra una vecchia paurosamente magra che porge una scodella di zuppa a una bambina, ma soprattutto Andy Warhol. Il re della Pop art che confessò di aver mangiato a pranzo per vent’anni i barattoloni di zuppa Campbell’s rivoluzionò i concetti di natura morta e di bellezza immortalando le stesse lattine zuppesche in una serie di opere seriali la più importante delle quali è la Campbell’s Soup Cans che presenta tutta la produzione di zuppe della Cambell’s: al pomodoro, agli asparagi, alla carne, al pollo, ai fagioli neri, e così via per 200 volte. Paradossalmente a dare importanza alla zuppa nell’arte sono stati anche le attiviste per il clima che il 28 gennaio dello scorso anno lanciarono la zuppa contro la Gioconda di Leonardo, ben protetta dal vetro antiguai, invocando un’agricoltura mondiale sana.
È profondamente ingiusto nei confronti della zuppa il detto «Se non è zuppa è pan bagnato». Come sopra detto la zuppa è salvifica, ristoratrice, ristoro e medicina attraverso i secoli dell’umanità misera. E poi la famiglia zuppesca è molto varia. Oltre alla zuppa-madre ci sono la minestra, il minestrone, la crema, la vellutata, il passato. Non sono sinonimi, ogni piatto ha la sua caratteristica che riguarda gli ingredienti e le tecniche di preparazione per le quali rimandiamo ai libri di cucina.
Concludiamo con la mistica zen. Un allievo chiede al maestro: «Cosa devo fare per raggiungere l’Illuminazione?». Gli risponde il maestro: «Hai mangiato la zuppa?» «Sì». «Allora lava la scodella».
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Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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