2019-04-29
Ecco il libro nero dei «buoni»: la carità globale tra affari e pratiche immorali
Dai massacratori del Ruanda accuditi dai volontari agli stupri di Oxfam ad Haiti. E pure a sinistra ormai criticano il no profit.Nel 1994, tra aprile e luglio, una tremenda ecatombe di stampo tribale (hutu contro tutsi) portò in Ruanda allo sterminio di almeno 800.000 persone. Nell'indifferenza dell'Occidente, che oggi versa le rituali lacrime di coccodrillo in memoriam. Tralasciando omertosamente un dettaglio: il ruolo nefasto giocato dalle Ong, le Organizzazioni non governative. Nel campo di Goma, nel Congo alla frontiera con il Ruanda, in cui operavano un centinaio di esse per accogliere i profughi scampati al genocidio, si diede ospitalità e protezione anche ai macellai hutu come se fossero stati loro, le vittime. Le belve furono accudite e rifocillate, mentre spadroneggiavano nel perimetro riscuotendo perfino una sorta di tassa sulle razioni alimentari distribuite, partendo da lì per compiere raid notturni di morte oltre confine. Una situazione fuori controllo che spinse alcune organizzazioni, in testa Medici senza frontiere Francia, a levare le tende per non rendersi complici. Risultato? Furono accusate di essere a caccia di pubblicità, e sostituite da altre.Perché quello degli aiuti è un mercato economico come un altro: si fa a gara - con ogni mezzo - per ottenere gli «appalti», anche per progetti manifestamente inutili. Non era questo il caso di Goma, ovvio: quel presidio doveva servire a salvare vite umane. Ma che ci fosse del marcio è cosa nota.Ha ricordato Philip Gourevitch in un articolo, Il lato oscuro degli aiuti, pubblicato dal settimanale Internazionale: «Nella letteratura sugli aiuti umanitari, i campi di confine istituiti dall'Onu dopo il genocidio ruandese, e in particolare Goma, figurano come esempi di un interventismo corrotto e disumano». Già. I «buoni» talvolta non sono così «buoni», e anche quando sono animati dalle migliori intenzioni, possono risultare dei perfetti «buoni» a nulla.generosità nocivaGli studi più puntuali sul mare magnum delle Ong, delle onlus (organizzazioni «non lucrative di utilità sociale") e del non profit non sono però arrivati da saggisti di destra, pronti a irridere - almeno così vuole il pregiudizio - l'impegno e la partecipazione.No: le critiche più abrasive sono piovute da osservatori che non ti aspetti. I quali, proprio in nome del volontariato e della solidarietà genuini, hanno vergato - con onestà intellettuale - analisi tutt'altro che indulgenti.Del resto, nelle Lettere dal carcere era stato Antonio Gramsci ad ammonire: «La bontà disarmata, incauta, inesperta, senza accorgimento non è neppure bontà, è ingenuità stolta e provoca solo disastri». Figuriamoci quando è in malafede.Già nel 2002 Le ambiguità degli aiuti umanitari (Feltrinelli) di Giulio Marcon - nel 2017 capogruppo di Sinistra italiana alla Camera dei deputati - segnalava come non fosse oro tutto quel che luccicava nel cosiddetto terzo settore (dopo lo Stato, cioè il pubblico, e il mercato, ossia il profitto) in crescita impetuosa - con i suoi 1.100 miliardi di dollari di fatturato globale, «l'ottava economia mondiale, davanti a Spagna, Russia, Canada» - tanto da farlo apparire un perfetto ingranaggio della globalizzazione. In sostanza, accusava Marcon, parte delle organizzazioni non profit ha venduto l'anima al diavolo, «anzi a due: il business e la cooptazione istituzionale, a volte senza nemmeno accorgersene».stato paralleloNel 2009 è la giornalista olandese Linda Polman a firmare L'industria della solidarietà. Aiuti umanitari nelle zone di guerra (Bruno Mondadori), che ha conosciuto una rinnovata stagione di popolarità l'anno scorso, quando Polman ha stigmatizzato quanto emerso sugli operatori dell'organizzazione britannica Oxfam ad Haiti, dopo il terremoto del 2010 in cui persero la vita 300.000 persone. Stupri, festini hard e giri di baby prostitute, scandalo non ignoto ai piani alti dell'associazione, che hanno cercato di insabbiarlo: «Le Ong avevano 9,5 miliardi di dollari da spendere, che è più di quanto il governo di Haiti possedesse. Era uno Stato parallelo che entrava in un altro. Da qui, il senso di onnipotenza». Ovvero un micidiale cocktail di cinismo e moralismo che fa sentire taluni operatori «in missione per conto di Dio», pronti tuttavia ai compromessi, pagando tangenti a questa o a quella fazione (il 15% del valore degli aiuti nella Liberia di Charles Taylor, accusato di crimini di guerra e contro l'umanità, addirittura l'80% in alcuni territori della Somalia), oppure, aggiunge Gourevitch, «complici nel fornire le infrastrutture logistiche per la pulizia etnica, com'è successo in Bosnia».Polman è inflessibile: «Non credo che se vogliamo un mondo migliore, la strada degli aiuti internazionali sia quella corretta. Ci sono troppe Ong, troppe agende da rispettare, troppi interessi in gioco. Le scelte non sono più etiche ma economiche. Le Ong non sono Madre Teresa di Calcutta».Nel 2013 tocca a L'industria della carità. Da storie e testimonianze inedite il volto nascosto della beneficenza (Chiarelettere, 2013) di Valentina Furlanetto. Per padre Alex Zanotelli, già direttore di Nigrizia, che ne ha scritto la prefazione, «in generale si ha l'impressione che le Ong siano servite più a noi che agli impoveriti, diventando i paletti avanzanti del nostro commercio estero. Non sempre questo accade consapevolmente, ma accade». Furlanetto fa nomi e cognomi: «Per salvaguardare oceani, balene, foreste e ambiente Greenpeace Italia ha utilizzato 2.349.000 euro, meno di quanto spenda per pubblicizzarsi e cercare nuovi iscritti: 2.482.000 euro. Dalla vendita delle azalee l'Airc, l'associazione per la ricerca sul cancro, ha ricavato 10 milioni di euro. Peccato che per organizzarne la vendita ne spenda circa 4». Spulciando i bilanci delle associazioni benefiche (quando possibile: in Italia non sussiste l'obbligo di renderli pubblici), l'autrice ha scoperto che alcune accantonano riserve di liquidità proprio come le aziende profit, altre stipendiano i loro vertici come le multinazionali i propri top manager. Finendo per domandarsi: «Cosa differenzia il non profit dal profit, una ong o una onlus da un'azienda o da un'attività commerciale?».NEL MAGMA DI SOLDIUn quesito provocatorio, non dissimile da quello da cui parte Giovanni Moro - sociologo politico, figlio dello statista democristiano assassinato dalle Brigate Rosse, responsabile scientifico di Fondaca, Fondazione per la cittadinanza attiva - nel suo libro Contro il non profit (Laterza, 2014): «Cosa c'è di più ripugnante di schierarsi contro chi si occupa di poveri, deboli, malati e bambini abbandonati?». La sua è una riflessione su una realtà che proprio perché definita in negativo, come «non qualcosa», con un'etichetta deficitaria e residuale, si presta a ricomprendere fenomeni eterogenei, una galassia «magmatica», un mostro concettuale prima che fattuale, «che assomiglia a un Golem»: «uno spazio protetto di azione in cui un po' tutto è possibile, dai ristoranti alle palestre alle cliniche, con tutto ciò che ne consegue in termini di dubbia utilità sociale, possibili arricchimenti personali (utilizzando i soldi raccolti per i poveri per pagare superstipendi o le vacanze del presidente di un'associazione), conflitti di interessi, elusione tributaria, rapporti di lavoro insani, concorrenza sleale con le imprese private, ricchi che diventano più ricchi e poveri che diventano più poveri, buoni che legittimano vantaggi per i cattivi». A questo puzzle manca un ultimo tassello, non meno urticante. Quello dei «missionari» impiegati sulle strade con il compito di colpirci al cuore. Li riconoscete perché hanno corpetti colorati, accanto a tavolini nei luoghi nevralgici delle città, sotto locandine su cui campeggia l'invito con tanto di foto toccante: «Regala un sorriso a questo bambino», «Grazie dai bambini malati», e si avvicinano con sorriso e frase standard: «Posso rubarti 30 secondi?».Ne fa l'identikit Zoe Valentini nel suo libro Viaggio al termine delle onlus. Diario di uno sfruttamento (Meltemi, 2018). Volendo indagare i cambiamenti del mercato del lavoro nell'Italia post Jobs act, Valentini si è concentrata sul mondo della beneficenza, partendo dalla sua esperienza personale: due particolari Onlus con cui ha collaborato in qualità di «dialogatrice umanitaria», grazie a un contratto di lavoro con un'agenzia privata legata a doppio filo, in lampante convergenza d'interessi, alle stesse organizzazioni, «all'apparenza non profit».NIENT'ALTRO CHE VENDITORIHa ascoltato gli sfoghi di questi «volontari a percentuale», che si sono scontrati con la dura realtà: «Arriva un momento in cui capisci che non stai salvando i profughi in mare, ma che sei un venditore che deve far firmare un pezzo di carta, un contratto. Non stai più aiutando un bambino, e alla fine non ti cambia se vendi un aiuto umanitario, un pezzo di formaggio, un'assicurazione per auto, la tecnica è sempre la stessa, interrompere la persona, farle cambiare atteggiamento, per quel pezzo di carta che poi un domani ti fa mangiare. Insomma: prima realizzi che sei un venditore, e meglio è». Vicentini svela attraverso quali trucchi di marketing i «dialogatori», a ciò opportunamente addestrati dai «motivatori» inquadrati in una piramide gerarchica, riescono a convincere migliaia di persone a sostenere un progetto umanitario, sezionando quello che si rivela solo business, svelandone le ipocrisie e le logiche di sfruttamento di chi va per strada a chiedere una firma in nome e per conto di altri sfruttati.Furlanetto nel suo libro e Valentini nella sua tesi di laurea presso l'università Ca' Foscari di Venezia, dal titolo Lavorare per beneficenza: un'etnografia della precarietà tra i dialogatori umanitari, di cui il suo volume è un'estensione, citano entrambe l'ammonimento che Carlo Collodi mette in bocca a Mangiafuoco, e che può valere come degna epigrafe di queste righe: «E bada, Pinocchio, non fidarti mai troppo di chi sembra buono».
Nel riquadro il professor Andrea Fiorillo, presidente dell’Ente Europeo di Psichiatria e testimonial scientifico della giornata palermitana (iStock)
Il 10 ottobre Palermo celebra la Giornata Mondiale della Salute Mentale con eventi artistici, scientifici e culturali per denunciare abbandono e stigma e promuovere inclusione e cura, su iniziativa della Fondazione Tommaso Dragotto.
Il 10 ottobre, Palermo non sfila: agisce. In occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale, la città lancerà per il secondo anno consecutivo un messaggio inequivocabile: basta con l’abbandono, basta con i tagli, basta con lo stigma. Agire, tutti insieme, con la forza dei fatti e non l’ipocrisia delle parole. Sul palco dell’evento – reale e simbolico – si alterneranno concerti di musica classica, teatro militante, spettacoli di attori provenienti dal mondo della salute mentale, insieme con tavoli scientifici di livello internazionale e momenti di riflessione pubblica.
Di nuovo «capitale della salute mentale» in un Paese che troppo spesso lascia soli i più fragili, a Palermo si costruirà un racconto, fatto di inclusione reale, solidarietà vera, e cultura della comunità come cura. Organizzato dalla Fondazione Tommaso Dragotto e realizzato da Big Mama Production, non sarà solo un evento, ma una denuncia trasformata in proposta concreta. E forse, anche una lezione per tutta l’Italia che alla voce sceglie il silenzio, tra parole come quelle del professor Andrea Fiorillo, presidente dell’Ente Europeo di Psichiatria e testimonial scientifico della giornata palermitana che ha detto: «I trattamenti farmacologici e psicoterapici che abbiamo oggi a disposizione sono tra i più efficaci tra quelli disponibili in tutta la medicina. È vero che in molti casi si parla di trattamenti sintomatici e non curativi, ma molto spesso l’eliminazione del sintomo è di per sé stesso curativo. È bene - continua Fiorillo - diffondere il messaggio che oggi si può guarire dai disturbi mentali, anche dai più gravi, ma solo con un approccio globale che miri alla persona e non alla malattia».
Continua a leggereRiduci