2023-10-11
Il vicepresidente Zanon e le «invenzioni» della Corte sulla sentenza Cappato
Nicolò Zanon (Imagoeconomica)
Nel podcast della «Verità» il numero 2 della Consulta racconta il pensiero originalista E sul caso del suicidio assistito spiega: «Scelta una soluzione che nella Carta non c’è». Ascolta il podcast di Martino Cervo Dialoghi TestardiL’ospite della seconda puntata di Dialoghi testardi, il podcast della Verità a cura di Martino Cervo, è il professor Nicolò Zanon, attuale vicepresidente della Corte costituzionale. Il format del programma, ascoltabile da oggi sui nostri canali e sulle principali piattaforme, prevede l’ascolto di un testo e un’intervista su di esso: in questo caso, si parte da due estratti da discorsi di Antonin Scalia (1936-2016), grande giurista americano, per 30 anni membro della Corte suprema degli Stati Uniti.Scalia, di cui Zanon è uno dei massimi studiosi, è esponente della filosofia del diritto che chiamiamo «originalista», che assegna cioè al giudice il compito di custodire il testo della Carta senza sovrapporvi «agende» politiche. Il professor Zanon guida l’ascoltatore attraverso i punti principali del pensiero di Scalia (di cui è, in un certo senso, «collega»), in ragione della sua esperienza di giudice della Corte costituzionale e affrontando anche casi specifici. «Una delle cose più importanti che ho imparato in questi anni alla Corte», spiega infatti Zanon, «è che il giudice fa un buon lavoro quando non è contento della decisione che ha preso, ma è sicuro di aver applicato nel modo più onesto possibile le regole che si trova davanti. Il problema è quando i giudici, invece, hanno delle agende, degli obiettivi, tentano di raggiungere dei risultati facendo dire alle disposizioni anche magari quello che esse non dicono».Sollecitato dalle domande sulla situazione in Italia (nota bene: la registrazione precede il caso della giudice Iolanda Apostolico e le relative polemiche), il vicepresidente della Consulta spiega: «È un tema che riguarda la scienza giuridica europea e non solo. Quanto al nostro Paese, l’idea che il diritto possa essere uno strumento per il cambiamento sociale è una posizione che ha radici lontane, nel Dopoguerra e negli anni Sessanta. Si collega all’idea delle concezioni “alternative” del diritto: sono cresciute generazioni di giuristi e giudici con impostazioni ideologiche molto marcate, che tendevano a dare letture che si definivano “avanzate” della Costituzione e delle leggi, nel senso del cambiamento progressista delle nostre istituzioni e della nostra società. Da questo punto di vista, l’idea è che il giudice - quando può - debba dare appunto interpretazioni, letture che consentano particolari risultati anche al di là di ciò che le disposizioni dicono e prevedono». Un fenomeno alimentato anche dalle carenze istituzionali: «La rappresentanza politica, le istituzioni politiche hanno spesso rinunciato a compiere scelte significative in vari ambiti anche eticamente sensibili, lasciando campo libero alle scelte della magistratura. Ciò ha reso evidente questa volontà di usare il diritto come strumento di cambiamento da parte del potere giudiziario in luogo della politica».Nella parte forse più attuale del dialogo, Zanon esplicita il suo punto di vista su uno dei casi più noti e controversi della giurisprudenza costituzionale italiana: «Mi viene in mente un caso che ha suscitato tanta attenzione da parte dell’opinione pubblica, il cosiddetto caso Cappato, che riguardava come noto il suicidio assistito. Non si tratta di avere una preferenza o un’altra sulle scelte di fine vita: personalmente, essendo un serio liberale, penso che ciascuno possa decidere per sé stesso come vuole. Qui il problema giuridico è che la nostra Corte Costituzionale ha fatto un’operazione su un articolo del codice penale creando una regola giuridica che non esisteva nel codice penale, e che difficilmente è desumibile dalla Costituzione. Ha detto: quando una persona è affetta da una malattia molto grave che non è guaribile, è mentalmente lucida è collegata a dei macchinari che lo tengono in vita, e ritiene che questa sua condizione gli crei delle sofferenze fisiche o psicologiche insopportabili, allora ha diritto di ottenere il distacco dalla vita, secondo una procedura che la Corte stessa ha indicato addirittura nella sua sentenza. Ma nella nostra Costituzione tutto questo non è detto: si parla di “dignità” in vari articoli, ma del concetto di dignità si possono avere tante diverse interpretazioni… Ecco, qui la Corte, con una sentenza che ha dichiarato incostituzionale il codice penale nella parte in cui non consente tutte le cose che ho descritto prima, ha creato un giudicato costituzionale sostanzialmente inventando, solo sulla base della propria sensibilità, o meglio della sensibilità della maggioranza della Corte, questa soluzione. Io credo che invece la soluzione giusta sarebbe stata quella di dire: “Chi siamo noi per poter decidere una cosa del genere? La Costituzione non contiene indicazioni chiare e decisive su questo punto: lasciamo che decida la democrazia. Lasciamo che decidano gli elettori, i rappresentanti del popolo”. Tant’è vero che, personalmente, davanti alla richiesta di ammissibilità del referendum abrogativo dell’omicidio del consenziente, io ero a favore: ritenevo, a differenza della maggioranza dei miei colleghi, che fosse lecito lasciar decidere al corpo elettorale su una questione così importante sulla quale la Costituzione non contiene indicazioni chiare. Invece la nostra Corte ha detto no. Per essere chiari: io non so poi come avrei votato al referendum, ma il problema è: chi decide legittimamente? Secondo me non lo può fare una Corte: non può creare dei nuovi diritti. È una forma di “giuristocrazia” che io non apprezzo. Se la Costituzione lo richiede è ovvio che la Corte lo debba fare, ma se questo non accade non vedo perché lo debba fare una Corte. Se invece il nuovo diritto, la nuova pretesa viene riconosciuta sulla base di una scelta democratica, io non ho nulla da dire. Questa è la differenza di fondo».Perché, ci si potrebbe chiedere, di questa diversità di inquadramento non v’è traccia formale nella sentenza Cappato, pur essendo Zanon formalmente partecipe della stesura? Perché nel nostro Paese non esiste la cosiddetta «dissenting opinion», cioè appunto la messa nero su bianco di posizioni presenti in Corte, ma su cui non si forma il consenso. Spiega la toga: «Lo ritengo in effetti un passaggio importante, e credo che si andrà in questa direzione. Intanto è una questione di trasparenza, e in secondo luogo di lealtà e di democrazia. L’interpretazione del diritto costituzionale o legislativo non è un’operazione matematica per cui esiste una e una sola soluzione, soprattutto quando le cose non sono chiarissime. E questa interpretazione avviene secondo criteri e canoni che sono differenti a seconda delle impostazioni dei giudici. Ora, queste differenti interpretazioni conducono tante volte a risultati diversi sulla medesima questione: sul medesimo dubbio di costituzionalità, infatti, possono talvolta esserci soluzioni diverse. È chiaro che poi ne prevale sempre una: quando non si riesce a trovare un accordo dentro la Corte si vota e quella diventa la soluzione dell’intera Corte. Questo va bene quasi sempre, ma ci sono casi in cui non va bene perché anche i dissenzienti di minoranza sono costretti a portare la responsabilità di una decisione che non hanno condiviso. E questa secondo me è una diminutio: significa togliere qualcosa al dibattito pubblico. Spiegare perché si è in dissenso significa mostrare che esisteva la possibilità di un percorso diverso. Significa lasciare una traccia per il futuro e fare in modo magari che quella idea oggi rimasta in minoranza possa diventare maggioritaria nella Corte nel futuro. Spero che in futuro la Corte si orienti in questa direzione».Il testo completo della conversione è ascoltabile inquadrando il Qrcode in pagina.
Andrea Sempio. Nel riquadro, l'avvocato Massimo Lovati (Ansa)
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Pier Luigi Lopalco (Imagoeconomica)