2023-07-17
E se si «cambia», pensione anticipata
Nel riquadro, Emanuela. (iStock)
Per la Corte di giustizia europea, va considerato il genere della persona che presenta la domanda d’anzianità nel momento in cui la chiede. In Italia manca una regola chiara.Emanuela, 53 anni è nata uomo ma si sente donna, si definisce tale eppure di operarsi non se ne parla. Per questo motivo la legge italiana non gli consentiva di cambiare il nome all’anagrafe e sui documenti. Almeno fino al 6 luglio scorso, quando il tribunale di Trapani ha emesso una sentenza che ha ribaltato tutto. Adesso Emanuela potrà modificare il suo nome all’anagrafe così come sui documenti di identità, nonostante le leggi dicano altro.Estrapolando una sentenza della Corte di Cassazione del 2015 che concedeva ad un’altra donna transgender di legittimarsi tale pur non avendo subito l’operazione (anche se programmata), è stato stabilito di fatto che l’organo sessuale maschile non è di impedimento alla percezione di sé come donne. Insomma, ci risiamo, ancora una volta la magistratura si sostituisce alla politica e detta la linea da seguire. Ma questo non è l’unico caso. In provincia di Cosenza a Paola, il tribunale civile ha concesso la rettifica del genere a una donna transessuale che non ha ancora ultimato la transizione. In questo caso il percorso era avviato, non come nel caso di Emanuela, ma è evidente che queste sentenze cominciano a creare un precedente importante. Capace di sdoganare per sempre il concetto di uomo e donna dal punto di vista legale.Nel 2015, la Corte costituzionale, nella sentenza 221, scriveva che la mancanza di un riferimento testuale alle modalità (chirurgiche, ormonali, ovvero conseguenti ad una situazione congenita), attraverso le quali si realizzi la modificazione, «porta a escludere la necessità, ai fini dell’accesso al percorso giudiziale di rettificazione anagrafica, del trattamento chirurgico, il quale costituisce solo una delle possibili tecniche per realizzare l’adeguamento dei caratteri sessuali».Al di là del dibattito sul merito della questione, piaccia o meno, abbiamo già visto come il cambiamento di sesso possa creare delle iniquità in molti settori. Si è parlato ampiamente dello sport, per fare un esempio. Il trattamento pensionistico, differenziato tra uomo e donna, rischia di diventare l’ennesimo esempio di quanto sia complesso gestire legalmente il cambio di sesso senza rischiare di commettere ingiustizie. A questo proposito, è bene citare un caso del Regno Unito finito davanti alla Corte di giustizia europea. Sarah Margaret Richards, registrata alla nascita come persona di sesso maschile, si era sottoposta a una operazione chirurgica di cambiamento del sesso per divenire donna. Nel Regno Unito gli uomini raggiungono l’età pensionabile a 65 anni mentre alle donne basta compierne 60. Raggiunta questa soglia, la Richards aveva chiesto al Secretary of State for work and pensions, l’istituto pensionistico britannico, l’erogazione della pensione che le veniva, però, negata in quanto il sesso di una persona, in base alle norme applicabili in materia di sicurezza sociale, era da rinvenire in quello menzionato nel certificato di nascita. Insomma, per quanto la ricorrente poteva essere donna, ai fini della pensione rimaneva uomo. Ed è qui che interviene la Corte di giustizia europea, che ha bacchettato il Regno Unito stabilendo che l’età pensionabile, distinta per genere, deve tener conto del sesso del lavoratore nel momento in cui questi presenta la domanda di anzianità e ignorare, dunque, quello posseduto al momento della nascita. Una normativa diversa «viola il diritto dell’individuo a non essere discriminato in ragione del proprio sesso, situazione giuridica soggettiva che costituisce uno dei principi fondamentali della persona umana».Insomma, i presupposti sembrano chiari. In Italia non esistono ancora sentenze che si esprimano su questo tema, né l’Inps prevede di trattare situazioni del genere. Per cui resta altamente probabile che si applichi il principio indicato dalla Corte europea: per accedere alla pensione si tiene conto del sesso del richiedente nel momento della domanda.
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