2022-10-01
È saltato l’equilibrio dell’Ue made in Berlino
Olaf Scholz e Angela Merkel (Ansa)
Assurdo stupirsi dell’egemonia tedesca: l’Unione nasce per quello. Ma ora è messa a repentaglio dagli Usa, decisi a smontare il modello economico germanico rivolto a Est. Una sterzata che ridefinirà l’Occidente, e da cui l’Italia non deve farsi stritolare.«Non possiamo pensare che di fronte a una crisi di questo genere che riguarda tutti, ciascuno risponda per sé magari misurando la propria risposta sulla base dello spazio fiscale, dello spazio di bilancio. Questa è la logica che abbiamo evitato durante la pandemia», ha detto ieri il commissario Ue Paolo Gentiloni. «Davanti alle minacce comuni dei nostri tempi, non possiamo dividerci a seconda dello spazio nei nostri bilanci nazionali. Nei prossimi Consigli europei dobbiamo mostrarci compatti, determinati, solidali, proprio come lo siamo stati nel sostenere l’Ucraina», ha detto mercoledì sera Mario Draghi.La retorica del wishful thinking fa talmente attrito con la realtà da mettere in crisi perfino l’europeismo: forse il filone politico-culturale sul quale è stato fatto il più grande investimento ideologico dalla caduta del Muro in poi. Il fideismo sulle «soluzioni» europee sul gas viene frustrato in tempo reale, e suscita la tenerezza di Charlie Brown quando sognava: «Non sarebbe stupendo se venisse fuori che le patatine fritte fanno bene?». Le patatine fritte non fanno bene, e l’Unione europea ha appena dimostrato che si può misurare la propria risposta alla crisi energetica (in buona parte da essa innescata via «green deal») proprio sulla base dello spazio fiscale, soprattutto se a prendere le misure di questo spazio è la Germania. Non siamo però di fronte a un ostacolo figlio di egoismo nazionale, come spiegava ieri il Corriere, né a un colpo al sogno dell’Europa solidale. È un passaggio coerente con la struttura dell’Ue e dell’unione monetaria che la Germania ha pazientemente costruito, e che ora è un punto di svolta talmente drammatico da rendere fatale ogni errore di prospettiva, soprattutto per un governo che intenda costruire una strategia a difesa dell’interesse nazionale.La prima semplificazione fuorviante è quindi quella di una Germania «cattiva»: almeno dalla nascita dell’euro in avanti il vettore della Commissione e delle sue burocrazie (quelle che decidono sulle banche, sugli aiuti di Stato, sulle procedure d’infrazione, sulla sostenibilità del debito) è in mano ai tedeschi, che lo plasmano sui propri interessi nazionali. È la Germania a chiedere e ottenere di sforare i parametri Ue nel 2003 a colpi di sussidi al suo sistema industriale. È Berlino a guidare la sbornia del credito facile ai Paesi del «club Med» (poi diventati «Piigs» con la crisi del debito aperta da Lehman nel 2008); e sono sempre i tedeschi a imporre l’austerity ai suddetti Piigs proprio per garantirsi il rientro di quei crediti. La conseguente compressione di domanda è diventata però un problema per l’industria tedesca, che ha così approfondito e reso strutturale a cavallo degli anni Dieci la sua «torsione» verso Est: sia verso i mercati cinesi e asiatici, sia verso l’approvvigionamento energetico (Nord Stream viene inaugurato nel novembre 2011). In questo periodo la Germania continua tranquillamente a violare diversi parametri Ue (a un certo punto lo riconoscerà perfino Jean Claude Juncker) senza incorrere in procedure d’infrazione significative, ma nasce e si consolida un doppio problema. Da un lato le conseguenze geopolitiche dell’abbraccio con Russia e Cina, dall’altro il loro effetto economico: un surplus commerciale mostruoso. Entrambi iniziano a indisporre Washington. A prescindere dal doppio cambio di colore dell’amministrazione Usa (Obama-Trump-Biden), questo tratto resta. Il Dieselgate, le occhiute indagini della Sec sul riciclaggio dei colossi tedeschi, vanno letti in quest’ottica, fino all’esplosione dell’invasione dell’Ucraina. Qui l’accelerazione sulla disarticolazione del modello tedesco (export trainato dall’euro «svalutato» rispetto al marco, gas a basso costo da Mosca, ferreo controllo delle grandi partite industriali, assoluta riluttanza geopolitica plasmata dall’equilibrista Merkel) è violenta fino al parossismo.E siamo all’oggi: l’Ue non cambia perché non può cambiare, nel suo cristallizzare rapporti di forza esistenti. Ed è ipocrita stupirsi dei 200 miliardi annunciati da Scholz per salvare l’industria tedesca: sarebbe una notizia il contrario. È un fatto che con il Recovery fund per la prima volta i tedeschi si siano assunti - a tutela dell’interesse delle loro aziende, di cui il Nord Italia è primario fornitore - l’onere di garantire il debito comune del Pnrr, in cambio del controllo burocratico via Commissione di una larga fetta della politica economica dei partner. Ma è altrettanto chiaro che questa eccezione non si ripeterà, né si vede spazio per una riforma dei Trattati. Ieri mattina il Segretario di Stato tedesco al ministero dell’Economia e per la protezione del clima, Sven Giegold, ha pubblicato un lungo thread in cui esultava per l’accordo in sede Ue spiegando: «Il modello del tetto agli utili corrisponde a quello sviluppato in estate dal nostro ministero, per scremare e ridistribuire gli utili in eccesso nel sistema elettrico, ma senza una imposta. Ora la nostra proposta è legge in tutta Europa!». Giusto per chiarire, dopo mesi passati ad attendere un impossibile tetto al prezzo del gas, quale sia il soggetto ispiratore del legislatore europeo.Seconda evidenza da illuminare: il mantra sulla collocazione «atlantista ed europeista» del nostro Paese è tanto storicamente ineccepibile (e stupido da contestare) quanto ingenuo di fronte al fatto che oggi il modello economico e geopolitico dell’Ue degli ultimi quattro lustri è in fase di collasso, e ha Berlino come buco nero. E non ci sono orde di pericolosi populisti cui dare la colpa: un equilibrio è saltato e a Washington va benissimo così. L’«atlantismo» implica, in questo frangente, accelerare questo colossale e potenzialmente pericolosissimo riequilibrio, non rallentarlo. Si può negoziare su un sentiero stretto come un filo, facendo valere le nostre leve piccole, ma presenti. Ma senza sgombrare il campo dalle illusioni più grosse, si fa veramente difficile.
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