2021-09-26
È finita la stagione dei processi senza prove
La bocciatura delle tesi della Procura di Palermo è netta e non offre appigli bizzarri come nel caso della sentenza Andreotti. Il Csm non potrà ignorare ancora a lungo il libro nero delle fallimentari inchieste siciliane e milanesi (vedi assoluzione Eni).Antonio Ingroia, il pm che per primo indagò sugli accordi fra lo Stato e la mafia per fermare le stragi degli anni Novanta, pare che, dopo la sentenza con cui sono stati assolti gran parte degli imputati, si sia consolato dicendo che «la condanna dei mafiosi conferma l'esistenza della trattativa e del papello con le richieste trasmesse a uomini dello Stato». Per questo, lui che ormai fa l'avvocato e non si occupa più di rappresentare la pubblica accusa, può permettersi di «auspicare un ricorso in Cassazione». Suggerendo una strategia che ricorda molto quella che Stefano Ricucci, uno dei furbetti del quartierino, sintetizzò con una frase passata alla storia, ossia «fare il frocio con il culo degli altri» (chiedo naturalmente scusa ad Alessandro Zan, firmatario della proposta di bavaglio contro l'omofobia, per l'uso del termine popolaresco, ma Ricucci pronunciò la frase prima che l'onorevole e il Pd vietassero l'uso di alcuni sostantivi che si trovano nei vocabolari italiani).Ingroia del resto, non è il solo tra i magistrati della trattativa Stato-mafia ad aver cambiato mestiere o per lo meno a occuparsi d'altro. La maggior parte dei pm che per anni inseguirono con avvisi di garanzia generali e politici, accusandoli di attentato agli organi dello Stato per aver raccolto le richieste di Totò Riina e dei suoi compari, oggi non lavorano più alla Procura di Palermo. Il pool che arrivò fino a cercare di mettere sul banco degli imputati un presidente della Repubblica, ossia Giorgio Napolitano, intercettando anche il suo consigliere giuridico, ormai non esiste più. E chi in questi mesi ha vestito la toga, rappresentando nel processo la pubblica accusa, probabilmente non sente la sentenza di assoluzione degli uomini dello Stato come una propria sconfitta. La sensazione infatti, è che la decisione della Corte d'Assise d'Appello di Palermo chiuda (anche se la faccenda finirà in Cassazione) una stagione che nessuno ha voglia di riaprire. Soprattutto chiuda l'era dei processi senza prove e con accuse fantasiose.Anni fa, quando Antonio Ingroia era il dominus dell'inchiesta sulla trattativa, mi imbarcai con lui su un volo Roma-Palermo. Fu un'intervista a singhiozzo, un po' in aereo, un po' sulla macchina blindata che da Punta Raisi ci portò in Procura. Finì nel giardinetto di un bar, dove gli avventori guardavano la strana coppia che discuteva dell'inchiesta davanti a un caffè. Riempii un blocco di appunti e feci un'intervista di due pagine che Ingroia non contestò di una virgola, riconoscendo a distanza di tempo che avevo riportato correttamente le sue parole. Silvio Berlusconi ne usciva come vittima dell'attentato agli organi dello Stato. Tuttavia, la lunga chiacchierata non riuscì a diradare i miei dubbi e credo quelli dei lettori (ma a quanto pare le accuse non hanno diradato neppure quelli dei giudici) sulle ragioni dello strampalato processo a uomini dello Stato che avevano solo cercato di tutelare lo Stato. Per evitare le stragi, qualcuno aveva provato a dialogare con gli stragisti? E allora? Sarebbe come dire che il generale Alberto Dalla Chiesa, l'uomo che fermò le Br, ma fu fermato a colpi di kalashnikov dalla mafia, era colpevole di aver trattato con alcuni brigatisti pur di sgominare la banda armata con la stella a cinque punte. Ma se questa era la colpa addossata ad alcuni generali dei carabinieri, per Marcello Dell'Utri non c'era neppure questa, e infatti la Corte lo ha assolto per non aver commesso il fatto.Ma al di là della sentenza di Palermo, di cui sarà interessante leggere le motivazioni, ciò che colpisce nella decisione della Corte d'Assise d'Appello è la volontà di farla finita con le mezze verità, ossia con quelle assoluzioni che ti mandano libero, ma ti lasciano addosso comunque il marchio dell'accusa. Tanto per intenderci, il processo Stato-mafia non si è chiuso come il processo Andreotti, cioè con una bizzarra sentenza in cui si stabiliva che l'ex presidente del Consiglio era stato mafioso solo per un certo periodo, ma non lo era stato negli anni più recenti. Un modo per assolverlo con la formula della prescrizione e poter lasciare modo a tutti di cantare vittoria. Il divo Giulio riuscì a congedarsi dal mondo all'età di 94 anni con il certificato penale immacolato e Gian Carlo Caselli e compagni ancora oggi possono sostenere di aver dimostrato che l'Italia ha avuto un tre volte premier in combutta con la mafia. Miracoli dei contorcimenti giuridici italiani.Ciò detto, la sentenza di Palermo è importante anche per un altro aspetto, e cioè perché arriva dopo che un altro processo e un altro pool si sono squagliati come neve al sole. Alludo al caso Eni e alla Procura di Milano, uscita devastata dalla causa contro il cane a sei zampe. Da un certo punto di vista, la sconfitta dei pm lombardi, che volevano dimostrare come il vertice dell'azienda petrolifera fosse rappresentato da un gruppo di manigoldi e corruttori internazionali, è perfino più devastante di quella dei colleghi siciliani, perché quasi tutti i sostituti che si sono occupati della faccenda sono stati indagati con accuse gravissime, come quella di aver nascosto prove a discarico degli imputati. Oltre a essersi bevuti tutte le fandonie dei presunti pentiti. Per certi versi, la storia ricorda quella dell'indagine sulla strage di via D'Amelio, dove morì Paolo Borsellino. Allora si parlò di depistaggi e alcuni pm finirono loro stessi sotto processo. Una brutta pagina per la magistratura. A cui oggi si aggiungono le pagine del processo Eni e dell'indagine sulla trattativa Stato-mafia, finendo per comporre un libro nero che prima o poi il Csm dovrà sfogliare. A uscirne a pezzi è la credibilità della magistratura inquirente, l'ala giustizialista e manettara. Luca Palamara, uno che di toghe se ne intende per averle guidate per anni come presidente dell'Anm, ha parlato di un sistema. Ma forse, nel 2021, con un ritardo di circa 30 anni, il sistema è giunto al capolinea. Antonio Ingroia, Piercamillo Davigo, Francesco Greco e i tanti altri che sono stati protagonisti per oltre un quarto di secolo della storia d'Italia, arrivando fino a condizionarla, oggi sono storia passata.
Giorgia Meloni ad Ancona per la campagna di Acquaroli (Ansa)
«Nessuno in Italia è oggetto di un discorso di odio come la sottoscritta e difficilmente mi posso odiare da sola. L'ultimo è un consigliere comunale di Genova, credo del Pd, che ha detto alla capogruppo di Fdi «Vi abbiamo appeso a testa in giù già una volta». «Calmiamoci, riportiamo il dibattito dove deve stare». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nel comizio di chiusura della campagna elettorale di Francesco Acquaroli ad Ancona. «C'é un business dell'odio» ha affermato Giorgia Meloni. «Riportiamo il dibattito dove deve stare. Per alcuni è difficile, perché non sanno che dire». «Alcuni lo fanno per strategia politica perché sono senza argomenti, altri per tornaconto personale perché c'e' un business dell'odio. Le lezioni di morale da questi qua non me le faccio fare».
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