2022-04-16
Il Dragone sputa fuoco sul fronte orientale
Una delegazione di politici Usa visita Taiwan e Pechino risponde con manovre militari e incursioni di jet nello spazio aereo. «La riunificazione avverrà, è un fatto», dice il ministero degli Esteri. Un modo per impegnare Washington su più tavoli.Torna a salire la pressione cinese su Taiwan. Pechino ha infatti condotto ieri delle esercitazioni militari attorno all’isola, schierando fregate, bombardieri e caccia (con relative incursioni di sei jet nello spazio di difesa aereo di Taipei in serata). La mossa è stata di fatto giustificata come una reazione al viaggio di alcuni parlamentari statunitensi in loco. «Questa operazione è in risposta ai frequenti e recenti segnali dati dagli Usa sulla questione di Taiwan», ha tuonato il portavoce dell’Esercito popolare di liberazione, Shi Yilu. «Coloro che giocano con il fuoco si bruceranno», ha proseguito. Proprio ieri una delegazione bipartisan di parlamentari statunitensi, capeggiata dal senatore dem Bob Menendez e dal collega repubblicano Lindsey Graham, era a Taipei, per incontrare la presidentessa di Taiwan, Tsai Ing-wen. Nel frattempo, Pechino è tornata a parlare di «riunificazione», sottolineando che «ci sarà, esiste una sola Cina al mondo e Taiwan è parte inalienabile del suo territorio». Sempre ieri, il portavoce del ministero degli Esteri cinese Zhao Lijian, ha dichiarato: «Ci adopereremo per una riunificazione pacifica […] Detto questo, ci riserviamo la possibilità di prendere tutte le misure necessarie in risposta all’ingerenza delle forze straniere e alle attività secessioniste di un pugno di separatisti». Parole che lasciano intendere come, per la Repubblica popolare, l’opzione militare resti seriamente sul tavolo. C’è tuttavia da sottolineare che, nella versione cinese, qualcosa non torna. Sebbene Pechino sostenga che le esercitazioni militari siano una risposta al viaggio dei parlamentari americani, va ricordato che è dallo scorso ottobre che la Repubblica popolare ha ripreso a mettere sotto pressione l’isola, violandone più volte lo spazio di difesa aereo con i propri velivoli militari. Il tempismo lascia del resto poco spazio all’immaginazione: Pechino è infatti tornata ad esercitare la pressione su Taiwan appena qualche settimana dopo la caduta di Kabul. E non è da escludere che, guardando alla crisi ucraina, la Repubblica popolare stia accarezzando scenari legati alla «teoria del domino». Pechino si ostina d’altronde a definire il dossier taiwanese una «questione interna», sebbene la situazione sia in realtà ben più complessa, visto che Taipei non ha mai riconosciuto il regime instaurato dal Partito comunista cinese nel 1949. Il riesplodere della tensione su Taiwan pone agli Usa un duplice problema. Il primo riguarda i semiconduttori. Gli Stati Uniti importano significative quantità di chip dall’estero. Ed è qui che assume un’importanza decisiva Taipei: basti pensare che il colosso taiwanese Tsmc detiene circa il 50% della produzione mondiale di semiconduttori. Un’eventuale occupazione di Taiwan da parte della Cina avrebbe quindi degli effetti significativamente problematici. Pechino potrebbe bloccare la fornitura di chip agli Stati Uniti o mettere in commercio tecnologia contenente apposite falle sul fronte della sicurezza. Non è un caso che al Congresso americano siano di recente stati presentati alcuni disegni di legge che mirano a ridurre la dipendenza dall’estero in materia di semiconduttori. L’altro problema di Washington riguarda invece la credibilità internazionale. Sebbene mantenga ufficialmente la politica dell’ambiguità strategica (non specificando, cioè, se in caso di attacco interverrà per difendere l’isola), Joe Biden - contrariamente al predecessore - ha dimostrato di non saper esercitare la deterrenza: lo abbiamo visto con la crisi afgana e con quella ucraina. In entrambi i casi, anziché sparigliare le carte e scoraggiare gli avversari dall’agire, si è limitato a chiudere la stalla quando i buoi erano già scappati. Un atteggiamento, questo, che potrebbe spingere Pechino a osare su Taiwan. Tanto più che l’attuale Casa Bianca sta mostrando una linea ai limiti dell’assurdo. Si ostina a cercare di sganciare la Cina dalla Russia, quando Xi Jinping non ne ha alcuna intenzione. Il leader cinese sta infatti mettendo Biden con le spalle al muro, con la creazione di un fronte che, oltre alla stessa Russia, sta includendo anche Paesi un tempo vicini agli Usa (come India e Arabia saudita). Se anche non avesse intenzione di invadere l’isola nel breve termine, Xi potrebbe continuare ad alzare la tensione su Taiwan, con l’obiettivo di mettere Biden sotto pressione e minarne così ulteriormente la credibilità. La Cina sta del resto usando la crisi ucraina per instaurare un ordine internazionale di cui essere il perno: suo obiettivo è assoggettare Mosca, irretire Bruxelles e marginalizzare Washington. O la Casa Bianca si affretta a capirlo o per l’Occidente (e per Taiwan) si prospettano guai seri.
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