2021-12-06
Francesco Alberoni: «Draghi è un podestà. La sua fortuna è il legame con gli Usa»
Francesco Alberoni (Ansa)
Il sociologo: «È un nuovo Keynes, fa soltanto una politica di spesa senza badare ai debiti. Il prossimo presidente? Non m’interessa»«La Rai è sempre un ente statale e alla fine è influenzata dal governo o dal presidente della Repubblica: al tempo mio erano il presidente della Camera e del Senato a prendere le decisioni, Pera e Casini». Il sociologo Francesco Alberoni per tre anni, dal 2002 al 2005, fu presidente della Rai da consigliere anziano e parla con cognizione di causa delle ultime vicende legate alla tv di Stato.Il M5s si è lamentato delle nomine: un tempo erano l’antipolitica, oggi si lamentano perché esclusi dalla lottizzazione.«Non entro nella politica minuta, in questa lunga e continua schermaglia per metà fatta di decisioni come queste che dipendono da chi è al comando, e per l’altra metà di commenti su commenti. Posso dire che i grillini hanno la maggioranza in Parlamento, però i sondaggi li danno in forte calo ed è ovvio che gli altri se ne approfittino. È la dimostrazione che questo è un governo forte perché può scavalcare alcune volontà del Parlamento o comunque ottenere un risultato con energia».Perché i grillini hanno perso consenso?«Perché non sono più stati quel che avevano detto di essere. La gente era come attratta da una stella che si espande, un ideale, un sogno. Ma il sogno non si realizza mai e a un certo punto ci si accorge che delle cose promesse nessuna viene realizzata. Quindi anche il movimento più entusiasmante stufa. Anche il fascismo ebbe un forte consenso popolare, ma quando Mussolini andò in guerra la gente disse basta. Anche il grillismo ha prodotto delusione, anche se certe idee continueranno ad avere un’influenza sul Paese. La democrazia diretta e la partecipazione tramite il Web hanno fatto presa sulla generazione più giovane e non solo». Era stata questa la chiave del loro successo?«Era un vero movimento, non lo è più. Come lo era stata la Lega di Umberto Bossi e, per certi versi, i movimenti di Silvio Berlusconi e Antonio Di Pietro. Grillo e i suoi sono riusciti a raccogliere una sorda aggressività, un rancore provocato dalla mondializzazione che nessuno aveva capito. In quel momento, c’era un popolo quasi in rivolta contro una classe politica che stava provocando disagi economici: non dimentichiamo la crisi molto grave del 2008. Abbiamo avuto un governo Monti di ristrettezze e austerità, è aumentata la disoccupazione, allontanata l’età pensionistica. Il malcontento sotterraneo è stato interpretato dal gruppo di Casaleggio, uomo geniale, e da un comico dotato come Grillo. Ma le poche persone in cui si accentrava il potere, anziché circondarsi di un gruppo politico culturale di alto livello, hanno sbattuto in prima fila dei ragazzini».Che cosa intende per «movimento»?«È come un’onda che ti travolge. Come la guerra, che quando scoppia tutti urlano “vinceremo” e si dicono pronti a partire. La Prima guerra mondiale fu così. Milioni di persone che stavano bene scelsero di andare a crepare in trincea in mezzo al fango e ai topi. Capisce cos’è la follia umana? Un movimento è come un tornado tropicale».Crede che i 5 stelle siano un movimento democratico?«No, come tutti i movimenti è autoritario. Il capo assoluto era Gianroberto Casaleggio, aveva in pugno la struttura mentre Grillo agitava le idee con il suo blog. Poi hanno scelto i deputati a loro piacimento, hanno espulso a calci nel sedere chi volevano e senza dire niente, anzi promettendo la democrazia diretta con i cittadini che avevano fatto le loro leggi da casa sul computer. Un’utopia per i giovani è ciò che l’ha tenuto in piedi fino adesso. Poi c’era la componente rabbiosa di protesta, ma quella la possono interpretate tutti. Grillo è sempre stato autoritario, anche vent'anni fa».La riforma dei 5 stelle è il reddito di cittadinanza.«È l’unica cosa che sono riusciti a realizzare. Democrazia diretta niente: comanda sempre il Parlamento. Non si sono più occupati di ecologia come avevano detto. Gli elementi ideali sono svaniti. I deputati sono aggrappati alla loro sedia e hanno solo paura che cada il governo, che si vada a nuove elezioni e di non venir più eletti. Essendo degli incapaci, hanno pure ridotto il numero di parlamentari: si sono fregati da soli. Il reddito di cittadinanza, sempre concepito come reddito per i poveri, è stato annacquato con i navigator, sciocchezze populiste. Il reddito di cittadinanza non resterà, così come i navigator, quattro ignoranti che devono trovare lavoro a quattrocento ignoranti».Prima delle elezioni amministrative si è gridato al ritorno del fascismo. Crede sia così?«Ma no, nessun rischio di fascismo. Quell’epoca è finita con la fine della Seconda guerra mondiale. Sconfitto in battaglia. L’autoritarismo è una tendenza di tutti i partiti, ma in Italia quando si vuol dire autoritarismo si dice fascismo. A Roma ci sono gruppetti nostalgici, bisogna tener presente che il duce aveva fatto di Roma un mito e mettendoci anche tanti soldi. Ha trattato bene i romani e quindi un po’ di nostalgia alcuni ce l’avevano. Ma l’amore per il duce è passato quando è scoppiata la guerra e questa follia non gliel’hanno più perdonata. Ci saranno nostalgici del duce come ci sono anche quelli di personaggi come Napoleone o Stalin».Perché ha scelto di mettersi in gioco in politica e di scendere in campo con Giorgia Meloni?«Era il 2019. Non volevo che durasse il governo gialloverde, ero contrario alla combinazione di Matteo Salvini con i grillini. A questo punto, parlando con Giorgia e con Ignazio La Russa alla vigilia delle elezioni per il Parlamento europeo, mi hanno detto: “Franco, se ti presenti tu potremo superare la soglia del 4% che ci consente di avere deputati”. Mi sono candidato da indipendente capolista e l’ho fatto in piena tranquillità perché parlavo di me stesso e quindi dell’europeismo. In quell’epoca il grillismo aveva ancora un carattere anarchico comunista di disordine politico. Per questo mi presentavo: volevo che si costruisse un altro tipo di governo. Certo, non si è costituito quello che volevo io. E la Giorgia è partita».È d’accordo con il green pass?«È un accorgimento transitorio di questo governo. Siamo ancora tutti in divisa, si gira per l’Italia con la mascherina».Condivide?«Draghi non è un governante eletto. È come quando nel medioevo le città arrivavano a un certo grado di disordine, di lite interna come tra Montecchi e Capuleti, e chiamavano uno dall’esterno a comandare, il podestà, il quale riusciva a fare cose con l’assenso di tutti, o per lo meno con l’assenso decisivo di molti. Draghi in fondo è un personaggio che noi prendiamo dall’Europa, la sua forza sta nel fatto d’aver effettivamente salvato l’euro e di aver sovvenzionato i Paesi quando la politica delle banche tedesche era per l’austerità con conseguenti disoccupazione e aumento delle tasse. In realtà la politica di Draghi è keynesiana, spendi spendi spendi. E se non ne hai, si stampa moneta». Qual è la forza di Draghi?«È andato in armonia con la Federal reserve americana, sono in rapporti più che ottimi. Credo che potrebbe andare addirittura a dirigere la Federal reserve... Ha scelto la politica della spesa mentre gli altri Paesi europei cercavano di imporre il rientro dal debito. I tedeschi hanno distrutto la Grecia e stavano affossando anche noi. Draghi, da solo, senza grandi appoggi, ha detto no, a questo punto spendo. E dove trovare i soldi? Comprando i buoni del tesoro italiani, francesi e quelli che non vuole nessuno, liberando così moneta. C’è voluto coraggio».Chi vede come futuro presidente della Repubblica?«Posso dire che non me ne importa niente? Ho apprezzato diversi presidenti, di alcuni ero amico. L’unico che non ho conosciuto è proprio Mattarella». Lei spera che Draghi resti premier?«Non spero niente perché non so che cosa avverrà in Europa. È andata via la protagonista principale, la “Mutti” Merkel, una donna che ha gestito la situazione tra il comunismo e il liberalismo di metà della Germania. Angela Merkel è un personaggio importante e ora scompare, Chi verrà, non lo so. In Francia Emmanuel Macron non è stato meglio di altri, ma anche lui se ne va. In Spagna c’è un sistema incerto, un Paese diviso anche geograficamente, una confederazione di Stati con una forza apparente che non si manifesta mai in pieno perché è divisa all’interno. Non è facile fare previsioni».L’ideologia gender a scuola: cosa ne pensa?«Una cretinata. Sono gruppi di intellettuali che, sul piano biologico, trovano che tra il maschio e la femmina ci siano tutte le forme intermedie. È una pretesa di alcune minoranze che di fatto nasconde un’offensiva micidiale contro la famiglia».
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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