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2018-10-26
Draghi ammette: lo spread è guerra politica
ANSA
Stavolta non ha detto «whatever it takes», farò tutto ciò che è necessario. Mario Draghi, governatore della banca centrale europea, ha rivestito la divisa d'ordinanza fornita a Francoforte senza aggiungere nessun accessorio personalizzato. All'allarme lanciato dal ministro Giovanni Tria («Lo spread a 320 a lungo non è sostenibile per via del rischio banche»), il governatore ha risposto con una sigla, Omt. Si tratta dell'arma anti spread, Outright monetary transactions, figlio del compromesso: un'operazione di salvataggio alla quale la Bce attribuisce (per non irritare troppo la Bundesbank?) una funzione tipica di una banca centrale, cioè la salvaguardia del canale di trasmissione della politica monetaria, messo a rischio dal balzo dei tassi di mercato. Di fatto, con l'Omt l'eurozona ha una banca centrale in grado di farsi carico del debito pubblico. Con una sola, enorme clausola, cioè l'intervento dell'Esm, il meccanismo di stabilità, che implica di fatto il commissariamento del Paese. Non a caso l'Omt non è mai stato utilizzato. Il fatto che ieri Draghi l'abbia citato due volte rende bene l'idea della distanza dall'esecutivo italiano. Il numero uno della Bce ha infatti ribadito che anche dopo il termine del quantitative easing continuerà con la politica monetaria espansiva e lo si vedrà dai riacquisti dei titoli a lunga scadenza. Tutto ciò però ha un valore spalmato sull'intera Unione, e non può essere diversificata per singole nazioni. Non solo. Un giornalista del New York Times ieri ha chiesto al governatore che cosa accadrebbe in caso di bocciatura del rating sovrano italiano e impossibilità di acquistare i titoli (sotto la soglia dell'investment grade) la risposta di Draghi è stata «What if? I don't know». In sostanza saremmo di fronte a una terra incognita. Tant'è che, da vero democristiano, il governatore spiega che se lo spread sale va in crisi il capitale delle banche e calano i margini di manovra, e conclude che il suo auspicio sta nel fatto che governo gialloblù e Commissione Ue trovino un accordo sulla via del buon senso. «Non spetta alle banche centrali un ruolo di mediazione. Per raggiungere un'intesa serve comune buon senso», ha detto espressamente il governatore, il quale per il resto ha snocciolato le decisioni prese durante il direttivo.
Per quanto riguarda le decisioni di politica monetaria, il Consiglio dei governatori della banca centrale europea ha lasciato i tassi invariati e confermato la exit strategy dal quantitative easing. Le prospettive economiche dell'eurozona, ha aggiunto Draghi, restano in espansione sebbene i dati segnalino un indebolimento della crescita. «E l'Italia è tra i fattori di rischio, insieme alla Brexit, alla guerra commerciale, alla volatilità dei mercati» e al cattivo andamento dell'industria dell'auto tedesca nell'ultimo trimestre, aggiungiamo noi. Agganciandosi a questo ragionamento, vale la pena riportare le dichiarazioni del ministro agli Affari europei, Paolo Savona, rilasciate due ore dopo la conferenza stampa di Francoforte. «Il governo non cambierà la manovra ma la rinvierà tale e quale a Bruxelles», ha detto Savona, ospite a Sky Tg24. «La manovra non sarà corretta su questo non c'è alcun dubbio. Se lo spread ci sfugge, così come abbiamo deciso in Consiglio dei ministri, noi non riesamineremo la manovra, ma il contesto nel quale ci poniamo». La posizione di Savona cozza con la richiesta inviata alla Bce di trovare una soluzione alle turbolenze (anche se ieri si sono messe alla finestra con uno spread sceso a 309 punti base)? Ovviamente l'opposizione definisce il concetto sovranista come una bolla che si deve astrarre da qualunque contesto. Secondo Savona non è così. Significa che la politica detta all'Unione europea le linee guida della flessibilità e del cambiamento. La risposta di Draghi fa riferimento a una situazione cristallizzata al 26 ottobre del 2017, quando la Bce ha cominciato a chiudere i rubinetti della liquidità.
L'Italia chiede un rimescolamento delle carte e una politica monetaria correlata in qualche modo alle decisioni di bilancio: in pratica un diverso fiscal compact. Per Draghi alla domanda come si fa a fermare lo spread la risposta è: con una solida politica di bilancio. Per il governo, con una solida politica di investimenti. In sostanza Savona chiede alla Bce di fare prestatore di ultima istanza fino a che l'effetto degli investimenti non raggiunga il Pil. A quel punto, scendendo il rapporto con il debito, scenderà di conseguenza anche lo spread a livello strutturale.
Le posizioni sono evidentemente molto lontano e la sportellata di Draghi lascia aperta solo una strada: di nuovo il braccio di ferro con la Commissione. Il gioco è molto pericoloso, perché funziona per chi si ferma per primo. Salvo che poi l'altro cade nel burrone a trascina a sua volta il compagno. Bisogna prendere però atto che il mondo attorno all'Europa è cambiato.
L'effetto Obama è finalmente svanito, gli Usa sono tornati a interessarsi del Mediterraneo e hanno avviato una politica di dazi che schiaccia il Vecchio Continente a metà strada tra l'Atlantico e il pacifico. La Germania non è più locomotiva e rimane agganciata alla Cina per necessità. La fine del Qe e le scelte del fiscal compact sono relativamente recenti ma molto distanti dagli eventi alleati. Chi sostiene le scelte della Commissione Ue come l'unica strada possibile per l'Europa dimentica i timori avanzati nel 1989 dall'ex cancelliere Tory, Nigel Lawson. Il consigliere di Margaret Thatcher ebbe a dire alla Chatam house: «Che sorta di area comune finanziaria europea ci dobbiamo aspettare», esordì Lawson ribadendo ciò che più volte aveva sostenuto (nessuno degli obiettivi né monetario né fiscale avrebbe potuto prescindere dal single market): libertà di circolazione di beni, servizi e capitali con più competizione e meno Stato. «Invece», proseguì, «c'è chi cerca di arrivare all'Unione nel 1992 con regole sopranazionali, dove però le barriere non saranno tirate giù, ma saranno innalzati i controlli e le restrizioni. E persino chi credendo il regime liberale inevitabile (ma non invidiabile) cerca di creare un club esclusivo europeo nel quale il single market non è deciso dalla tendenza alle liberalizzazioni ma circoscritto da tutte le norme erette in sua difesa».
Ecco la nuova contingenza economica, la crisi che si sta affacciando nuovamente alle porte del Vecchio Continente impone un cambio di passo. Lo spread è la conseguenza, prima si deve comprendere la causa della cura. Ieri serta è arrivato infine l'endorsement di Donald Trump. »Ho parlato con Conte», ha scritto, «sta facendo un ottimo lavoro sull'immigrazione e pure la politica economica avrà successo». Un messaggio diretto a Bruxelles più che a Roma.
Claudio Antonelli
I bilanci sbalestrati di Dombrovskis e Moscovici, i due censori dell’Italia
Negli ultimi mesi, nostro malgrado, c'è toccato avere a che fare molto spesso con la premiata ditta formata dal francese Pierre Moscovici, commissario europeo agli Affari economici e monetari, e dal lettone Valdis Dombrovskis, vicepresidente della Commissione europea. Prima che Bruxelles decidesse di aprire un fuoco di fila sul governo Conte a seguito della decisione di strappare sul deficit, le loro apparizioni sulla stampa nostrana erano sporadiche e ben circostanziate. Da qualche tempo a questa parte, invece, non si fa in tempo ad arrivare all'ora di cena senza che uno dei due membri della coppia regali una velenosa chicca nei confronti dell'Italia.
Dopo un'estate nella quale a tenere banco è stata la questione migranti, le polemiche sono entrate nel vivo con l'approssimarsi della scadenza per la presentazione della Nota di aggiornamento al Def. Lo stesso Moscovici è stato il primo euroburocrate a scagliarsi contro la decisione del governo italiano di portare il deficit al 2,4% sul Pil. Un giudizio perfettamente in linea con quello del «compare» lettone, che pochi giorni dopo lamentava l'incompatibilità della bozza di Bilancio italiana con le regole europee. Il sodalizio ha raggiunto il suo vertice, anche dal punto di vista scenico, con la conferenza stampa di martedì pomeriggio durante la quale Moscovici e Dombrovskis hanno formalizzato la decisione della Commissione Ue di bocciare la manovra.
Se diamo un veloce sguardo al passato di questi figuri, che oggi si divertono a fare i bulli in giro per l'Europa, non possiamo certo dire di trovarci di fronte a due politici di successo. Il socialista Pierre Moscovici è stato prima ministro degli Affari europei dal 1997 al 2002 sotto Lionel Jospin, per poi ricoprire l'incarico di ministro delle Finanze dal 2012 al 2014 nel governo guidato da Jean Marc Ayrault. Memorabile l'editoriale pubblicato nel 2013 dal New York Times, nel quale viene dipinto letteralmente alla stregua di un politico incapace. Durante il suo mandato il deficit francese, pur calando di poco più di un punto (dal 5% nel 2012 al 3,9% nel 2014), ha sforato costantemente il rapporto deficit/Pil previsto dai trattati europei. Per contro, nello stesso periodo, il debito pubblico ha fatto segnare un incremento del 4,3%, pari a un valore assoluto di quasi 150 miliardi. Debole la crescita, appena pochi decimali sopra lo zero. Dov'era in quegli anni la tanto amata austerità, che oggi il caro Pierre desidera rifilarci? Richiamato nel 2013 sull'osservanza del parametro del 3%, l'allora ministro sbottava contro la visione «neoliberista» della Commissione, adducendo come scusa il fatto di essere «socialista». «Noi in Francia», aggiungeva, «abbiamo elezioni, abbiamo scelte politiche, stiamo portando avanti la nostra strada». Lo stesso personaggio che oggi ci rimprovera su deficit e debito, solo qualche anno fa difendeva la sovranità francese, mostrandosi insofferente alle regole europee. Difficile, perciò, dargli credito oggi.
Veniamo al lettone Valdis Dombrovskis, premier della piccola repubblica baltica dal 2009 al 2014. Per quel che può valere (giova pur sempre ricordare che stiamo parlando del centoduesimo Paese al mondo per valore assoluto del Pil e del cinquantaduesimo per reddito pro capite), in quegli anni in effetti il deficit tornò sul livelli accettabili, ma il debito aumentò di 5 punti percentuali (dal 35,8% al 40,9%) mentre la crescita, dopo un primo rimbalzo dovuto alla fine della crisi, rimase piuttosto stagnante. Niente male, per un Paese che nel decennio 2007-2016 ha ricevuto dall'Ue quasi 7 miliardi in più di quanti ne abbia versati. Il premier rassegnò le dimissioni a fine 2013 a seguito della morte di 54 persone a causa di un crollo di un tetto di un supermercato a Riga. «Il Paese ha bisogno di un governo in grado di risolvere la situazione che è emersa», dichiarò in quell'occasione. Nel frattempo, la Lettonia è assurta agli onori delle cronache per le vicende legate riciclaggio di denaro, culminate a febbraio con la liquidazione della banca Ablv e con l'arresto del governatore Ilmars Rimsevics, membro del board Bce. Uno scandalo che ha provocato l'imbarazzo di Mario Draghi e dell'Europa intera.
Antonio Grizzuti
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Scambio a distanza con Paolo Savona. Il capo della Bce: «Sono ottimista su un accordo tra Italia e Commissione Ue, ma sui titoli di Stato contano le scelte fiscali». Il ministro: «Non cambieremo la manovra, è suo compito intervenire per tutelare la stabilità».Il commissario transalpino calpestò le regole dell'Unione da ministro. Il vicepresidente lettone era campione nel debito.Lo speciale contiene due articoliStavolta non ha detto «whatever it takes», farò tutto ciò che è necessario. Mario Draghi, governatore della banca centrale europea, ha rivestito la divisa d'ordinanza fornita a Francoforte senza aggiungere nessun accessorio personalizzato. All'allarme lanciato dal ministro Giovanni Tria («Lo spread a 320 a lungo non è sostenibile per via del rischio banche»), il governatore ha risposto con una sigla, Omt. Si tratta dell'arma anti spread, Outright monetary transactions, figlio del compromesso: un'operazione di salvataggio alla quale la Bce attribuisce (per non irritare troppo la Bundesbank?) una funzione tipica di una banca centrale, cioè la salvaguardia del canale di trasmissione della politica monetaria, messo a rischio dal balzo dei tassi di mercato. Di fatto, con l'Omt l'eurozona ha una banca centrale in grado di farsi carico del debito pubblico. Con una sola, enorme clausola, cioè l'intervento dell'Esm, il meccanismo di stabilità, che implica di fatto il commissariamento del Paese. Non a caso l'Omt non è mai stato utilizzato. Il fatto che ieri Draghi l'abbia citato due volte rende bene l'idea della distanza dall'esecutivo italiano. Il numero uno della Bce ha infatti ribadito che anche dopo il termine del quantitative easing continuerà con la politica monetaria espansiva e lo si vedrà dai riacquisti dei titoli a lunga scadenza. Tutto ciò però ha un valore spalmato sull'intera Unione, e non può essere diversificata per singole nazioni. Non solo. Un giornalista del New York Times ieri ha chiesto al governatore che cosa accadrebbe in caso di bocciatura del rating sovrano italiano e impossibilità di acquistare i titoli (sotto la soglia dell'investment grade) la risposta di Draghi è stata «What if? I don't know». In sostanza saremmo di fronte a una terra incognita. Tant'è che, da vero democristiano, il governatore spiega che se lo spread sale va in crisi il capitale delle banche e calano i margini di manovra, e conclude che il suo auspicio sta nel fatto che governo gialloblù e Commissione Ue trovino un accordo sulla via del buon senso. «Non spetta alle banche centrali un ruolo di mediazione. Per raggiungere un'intesa serve comune buon senso», ha detto espressamente il governatore, il quale per il resto ha snocciolato le decisioni prese durante il direttivo.Per quanto riguarda le decisioni di politica monetaria, il Consiglio dei governatori della banca centrale europea ha lasciato i tassi invariati e confermato la exit strategy dal quantitative easing. Le prospettive economiche dell'eurozona, ha aggiunto Draghi, restano in espansione sebbene i dati segnalino un indebolimento della crescita. «E l'Italia è tra i fattori di rischio, insieme alla Brexit, alla guerra commerciale, alla volatilità dei mercati» e al cattivo andamento dell'industria dell'auto tedesca nell'ultimo trimestre, aggiungiamo noi. Agganciandosi a questo ragionamento, vale la pena riportare le dichiarazioni del ministro agli Affari europei, Paolo Savona, rilasciate due ore dopo la conferenza stampa di Francoforte. «Il governo non cambierà la manovra ma la rinvierà tale e quale a Bruxelles», ha detto Savona, ospite a Sky Tg24. «La manovra non sarà corretta su questo non c'è alcun dubbio. Se lo spread ci sfugge, così come abbiamo deciso in Consiglio dei ministri, noi non riesamineremo la manovra, ma il contesto nel quale ci poniamo». La posizione di Savona cozza con la richiesta inviata alla Bce di trovare una soluzione alle turbolenze (anche se ieri si sono messe alla finestra con uno spread sceso a 309 punti base)? Ovviamente l'opposizione definisce il concetto sovranista come una bolla che si deve astrarre da qualunque contesto. Secondo Savona non è così. Significa che la politica detta all'Unione europea le linee guida della flessibilità e del cambiamento. La risposta di Draghi fa riferimento a una situazione cristallizzata al 26 ottobre del 2017, quando la Bce ha cominciato a chiudere i rubinetti della liquidità. L'Italia chiede un rimescolamento delle carte e una politica monetaria correlata in qualche modo alle decisioni di bilancio: in pratica un diverso fiscal compact. Per Draghi alla domanda come si fa a fermare lo spread la risposta è: con una solida politica di bilancio. Per il governo, con una solida politica di investimenti. In sostanza Savona chiede alla Bce di fare prestatore di ultima istanza fino a che l'effetto degli investimenti non raggiunga il Pil. A quel punto, scendendo il rapporto con il debito, scenderà di conseguenza anche lo spread a livello strutturale. Le posizioni sono evidentemente molto lontano e la sportellata di Draghi lascia aperta solo una strada: di nuovo il braccio di ferro con la Commissione. Il gioco è molto pericoloso, perché funziona per chi si ferma per primo. Salvo che poi l'altro cade nel burrone a trascina a sua volta il compagno. Bisogna prendere però atto che il mondo attorno all'Europa è cambiato. L'effetto Obama è finalmente svanito, gli Usa sono tornati a interessarsi del Mediterraneo e hanno avviato una politica di dazi che schiaccia il Vecchio Continente a metà strada tra l'Atlantico e il pacifico. La Germania non è più locomotiva e rimane agganciata alla Cina per necessità. La fine del Qe e le scelte del fiscal compact sono relativamente recenti ma molto distanti dagli eventi alleati. Chi sostiene le scelte della Commissione Ue come l'unica strada possibile per l'Europa dimentica i timori avanzati nel 1989 dall'ex cancelliere Tory, Nigel Lawson. Il consigliere di Margaret Thatcher ebbe a dire alla Chatam house: «Che sorta di area comune finanziaria europea ci dobbiamo aspettare», esordì Lawson ribadendo ciò che più volte aveva sostenuto (nessuno degli obiettivi né monetario né fiscale avrebbe potuto prescindere dal single market): libertà di circolazione di beni, servizi e capitali con più competizione e meno Stato. «Invece», proseguì, «c'è chi cerca di arrivare all'Unione nel 1992 con regole sopranazionali, dove però le barriere non saranno tirate giù, ma saranno innalzati i controlli e le restrizioni. E persino chi credendo il regime liberale inevitabile (ma non invidiabile) cerca di creare un club esclusivo europeo nel quale il single market non è deciso dalla tendenza alle liberalizzazioni ma circoscritto da tutte le norme erette in sua difesa». Ecco la nuova contingenza economica, la crisi che si sta affacciando nuovamente alle porte del Vecchio Continente impone un cambio di passo. Lo spread è la conseguenza, prima si deve comprendere la causa della cura. Ieri serta è arrivato infine l'endorsement di Donald Trump. »Ho parlato con Conte», ha scritto, «sta facendo un ottimo lavoro sull'immigrazione e pure la politica economica avrà successo». Un messaggio diretto a Bruxelles più che a Roma. Claudio Antonelli<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/draghi-ammette-lo-spread-e-guerra-politica-2615181361.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-bilanci-sbalestrati-di-dombrovskis-e-moscovici-i-due-censori-dellitalia" data-post-id="2615181361" data-published-at="1766878593" data-use-pagination="False"> I bilanci sbalestrati di Dombrovskis e Moscovici, i due censori dell’Italia Negli ultimi mesi, nostro malgrado, c'è toccato avere a che fare molto spesso con la premiata ditta formata dal francese Pierre Moscovici, commissario europeo agli Affari economici e monetari, e dal lettone Valdis Dombrovskis, vicepresidente della Commissione europea. Prima che Bruxelles decidesse di aprire un fuoco di fila sul governo Conte a seguito della decisione di strappare sul deficit, le loro apparizioni sulla stampa nostrana erano sporadiche e ben circostanziate. Da qualche tempo a questa parte, invece, non si fa in tempo ad arrivare all'ora di cena senza che uno dei due membri della coppia regali una velenosa chicca nei confronti dell'Italia. Dopo un'estate nella quale a tenere banco è stata la questione migranti, le polemiche sono entrate nel vivo con l'approssimarsi della scadenza per la presentazione della Nota di aggiornamento al Def. Lo stesso Moscovici è stato il primo euroburocrate a scagliarsi contro la decisione del governo italiano di portare il deficit al 2,4% sul Pil. Un giudizio perfettamente in linea con quello del «compare» lettone, che pochi giorni dopo lamentava l'incompatibilità della bozza di Bilancio italiana con le regole europee. Il sodalizio ha raggiunto il suo vertice, anche dal punto di vista scenico, con la conferenza stampa di martedì pomeriggio durante la quale Moscovici e Dombrovskis hanno formalizzato la decisione della Commissione Ue di bocciare la manovra. Se diamo un veloce sguardo al passato di questi figuri, che oggi si divertono a fare i bulli in giro per l'Europa, non possiamo certo dire di trovarci di fronte a due politici di successo. Il socialista Pierre Moscovici è stato prima ministro degli Affari europei dal 1997 al 2002 sotto Lionel Jospin, per poi ricoprire l'incarico di ministro delle Finanze dal 2012 al 2014 nel governo guidato da Jean Marc Ayrault. Memorabile l'editoriale pubblicato nel 2013 dal New York Times, nel quale viene dipinto letteralmente alla stregua di un politico incapace. Durante il suo mandato il deficit francese, pur calando di poco più di un punto (dal 5% nel 2012 al 3,9% nel 2014), ha sforato costantemente il rapporto deficit/Pil previsto dai trattati europei. Per contro, nello stesso periodo, il debito pubblico ha fatto segnare un incremento del 4,3%, pari a un valore assoluto di quasi 150 miliardi. Debole la crescita, appena pochi decimali sopra lo zero. Dov'era in quegli anni la tanto amata austerità, che oggi il caro Pierre desidera rifilarci? Richiamato nel 2013 sull'osservanza del parametro del 3%, l'allora ministro sbottava contro la visione «neoliberista» della Commissione, adducendo come scusa il fatto di essere «socialista». «Noi in Francia», aggiungeva, «abbiamo elezioni, abbiamo scelte politiche, stiamo portando avanti la nostra strada». Lo stesso personaggio che oggi ci rimprovera su deficit e debito, solo qualche anno fa difendeva la sovranità francese, mostrandosi insofferente alle regole europee. Difficile, perciò, dargli credito oggi. Veniamo al lettone Valdis Dombrovskis, premier della piccola repubblica baltica dal 2009 al 2014. Per quel che può valere (giova pur sempre ricordare che stiamo parlando del centoduesimo Paese al mondo per valore assoluto del Pil e del cinquantaduesimo per reddito pro capite), in quegli anni in effetti il deficit tornò sul livelli accettabili, ma il debito aumentò di 5 punti percentuali (dal 35,8% al 40,9%) mentre la crescita, dopo un primo rimbalzo dovuto alla fine della crisi, rimase piuttosto stagnante. Niente male, per un Paese che nel decennio 2007-2016 ha ricevuto dall'Ue quasi 7 miliardi in più di quanti ne abbia versati. Il premier rassegnò le dimissioni a fine 2013 a seguito della morte di 54 persone a causa di un crollo di un tetto di un supermercato a Riga. «Il Paese ha bisogno di un governo in grado di risolvere la situazione che è emersa», dichiarò in quell'occasione. Nel frattempo, la Lettonia è assurta agli onori delle cronache per le vicende legate riciclaggio di denaro, culminate a febbraio con la liquidazione della banca Ablv e con l'arresto del governatore Ilmars Rimsevics, membro del board Bce. Uno scandalo che ha provocato l'imbarazzo di Mario Draghi e dell'Europa intera. Antonio Grizzuti
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Veniamo al profeta, Pellegrino Artusi, il Garibaldi della cucina tricolore. Scrivendo il libro La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891), l’uomo di Forlimpopoli trapiantato a Firenze creò un’identità gastronomica comune nel Paese da poco unificato, raccogliendo le ricette tradizionali delle varie Regioni - e subregioni - italiane valorizzando le tipicità e diffondendone la conoscenza. È così che suscitò uno slancio di orgoglio nazionale per le diverse cucine italiane che, nei secoli, si sono caratterizzate ognuna in maniera diversa, attraverso i vari coinvolgimenti storici, la civiltà contadina, la cucina di corte (anche papale), quella borghese, le benefiche infiltrazioni e contaminazioni di popoli e cucine d’oltralpe e d’oltremare, e, perché no, anche attraverso la fame e la povertà.
Orio Vergani, il custode, giornalista e scrittore milanese (1898-1960), è una figura di grande rilievo nella storia della cucina patria. Fu lui insieme ad altri innamorati a intuire negli anni Cinquanta del secolo scorso il rischio che correvano le buone tavole del Bel Paese minacciate dalla omologazione e dall’appiattimento dei gusti, insidiate da una cucina industriale e standardizzata. Fu lui a distinguere i pericoli nel turismo di massa e nell’alta marea della modernizzazione. Il timore e l’allarme sacrosanto di Vergani erano dettati dalla paura di perdere a tavola l’autenticità, la qualità e il legame col territorio della nostra tradizione gastronomica. Per combattere la minaccia, l’invitato speciale fondò nel 1953 l’Accademia italiana della cucina sottolineando già nel nome la diversità dell’arte culinaria nelle varie parti d’Italia.
L’Accademia, istituzione culturale della Repubblica italiana, continua al giorno d’oggi, con le sue delegazioni in sessanta Paesi del mondo e gli 8.000 soci, a portare avanti il buon nome della cucina italiana. Non è un caso se a sostenere il progetto all’Unesco siano stati tre attori, due dei quali legati al «profeta» romagnolo e al «custode» milanese: la Fondazione Casa Artusi di Forlimpopoli e l’Accademia italiana della cucina nata, appunto, dall’intuizione di Orio Vergani. Terzo attore è la rivista La cucina Italiana, fondata nel 1929. Paolo Petroni, presidente dell’Accademia, commenta: «Il riconoscimento dell’Unesco rappresenta una grandissima medaglia al valore, per noi. La festeggeremo il terzo giovedì di marzo in tutte le delegazioni del mondo e nelle sedi diplomatiche con una cena basata sulla convivialità e sulla socialità. Il menu? Libero. Ogni delegazione lo rapporterà al territorio e alla tradizione.
L’Unesco ha riconosciuto la cucina italiana patrimonio immateriale andando oltre alle ricette e al semplice nutrimento, considerandola un sistema culturale, rafforzando il ruolo dell’Italia come ambasciatrice di un modello culturale nel mondo in quanto la nostra cucina è una pratica sociale viva, che trasmette memoria, identità e legame con il territorio, valorizzando la convivialità, i rituali, la condivisione famigliare, come il pranzo della domenica, la stagionalità e i gesti quotidiani, oltre a promuovere inclusione e sostenibilità attraverso ricette antispreco tramandate da generazione in generazione. Il riconoscimento non celebra piatti specifici come è stato fatto con altri Paesi, ma l’intera arte culinaria e culturale che lega comunità, famiglie e territori attraverso il cibo. Riconosce l’intelligenza delle ricette tradizionali nate dalla povertà contadina, che insegnano a non sprecare nulla, un concetto di sostenibilità ancestrale. Incarna il legame tra la natura, le risorse locali e le tradizioni culturali, riflettendo la diversità dei paesaggi italiani».
Peccato che non tutti la pensino così, vedi l’attacco del critico e scrittore britannico di gastronomia Giles Coren sul Times. Dopo aver bene intinto la penna nell’iperbole, nella satira e nell’insulto, Coren è partito all’attacco alla baionetta contro, parole sue, il riconoscimento assegnato dall’Unesco, riconoscimento prevedibile, servile, ottuso e irritante. Dice l’opinionista prendendosela anche con i suoi connazionali snob: «Da quando scrivo di ristoranti, combatto contro la presunta supremazia del cibo italiano. Perché è un mito, un miraggio, una bugia alimentata da inglesi dell’alta borghesia che, all’inizio degli anni Novanta, trasferirono le loro residenze estive in Toscana».
Risponde Petroni: «Credo che l’articolo di Coren sia una burla, lo scherzo di uno che in fondo, e lo ha dimostrato in altri articoli, apprezza la cucina italiana. Per etichettare il tutto come burla, basta leggere la parte in cui elogia la cucina inglese candidandola al riconoscimento Unesco per il valore culturale del “toast bruciato appena prima che scatti l’allarme antincendio”, gli “spaghetti con il ketchup”, il “Barolo britannico”, i “noodles cinesi incollati alla tovaglia” e altre perle di questo genere. C’è da sottolineare, invece, che la risposta dell’Unesco è stata unanime: i 24 membri del comitato intergovernativo per la salvaguardia del Patrimonio culturale immateriale hanno votato all’unanimità in favore della cucina italiana. Non c’è stato nemmeno un astenuto. La prima richiesta fu bocciata. Nel 2023 l’abbiamo ripresentata. È la parola “immateriale” che ci bloccò. È difficile definire una cucina immateriale senza cadere nel materiale. Per esempio l’Unesco non ha dato il riconoscimento alla pizza in quanto pizza, ma all’arte napoletana della pizza. Il cammino è stato molto difficile ma, alla fine, siamo riusciti a unificare la pratica quotidiana, i gesti, le parole, i rituali di una cucina variegata e il risultato c’è stato. La cucina italiana è la prima premiata dall’Unesco in tutta la sua interezza».
Se Coren ha scherzato, Alberto Grandi, docente all’Università di Parma, autore del libro La cucina italiana non esiste, è andato giù pesante nell’articolo su The Guardian. Basta il titolo per capire quanto: «Il mito della cucina tradizionale italiana ha sedotto il mondo. La verità è ben diversa». «Grandi è arrivato a dire che la pizza l’hanno inventata gli americani e che il vero grana si trova nel Wisconsin. Che la cucina italiana non risalga al tempo dei Romani lo sanno tutti. Prima della scoperta dell’America, la cucina era un’altra cosa. Quella odierna nasce nell’Ottocento da forni e fornelli borghesi. Se si rimane alla civiltà contadina, si rimane alle zuppe o poco più. Le classi povere non avevano carne da mangiare». Petroni conclude levandosi un sassolino dalla scarpa: l’esultanza dei cuochi stellati, i «cappelloni», come li chiama, è comprensibile ma loro non c’entrano: «Sono contento che approvino il riconoscimento, ma sia chiaro che questo va alla cucina italiana famigliare, domestica».
A chi si deve il maggior merito del riconoscimento Unesco? «A Maddalena Fossati, la direttrice de La cucina italiana. È stata lei a rivolgersi all’Accademia e alla Fondazione Casa Artusi. Il documento l’abbiamo preparato con il prezioso aiuto di Massimo Montanari, accademico onorario, docente all’Università di Bologna, e presentato con il sostegno del sottosegretario alla Cultura, Gianmarco Mazzi».
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Gianluigi Cimmino (Imagoeconomica)
Yamamay ha sempre scelto testimonial molto riconoscibili. Oggi il volto del brand è Rose Villain. Perché questa scelta?
«Negli ultimi tre anni ci siamo avvicinati a due canali di comunicazione molto forti e credibili per i giovani: la musica e lo sport. Oggi, dopo il crollo del mondo degli influencer tradizionali, è fondamentale scegliere un volto autentico, coerente e riconoscibile. Gran parte dei nostri investimenti recenti è andata proprio in questa direzione. Rose Villain rappresenta la musica, ma anche una bellezza femminile non scontata: ha un sorriso meraviglioso, un fisico prorompente che rispecchia le nostre consumatrici, donne che si riconoscono nel brand anche per la vestibilità, che riteniamo tra le migliori sul mercato. È una voce importante, un personaggio completo. Inoltre, il mondo musicale oggi vive molto di collaborazioni: lo stesso concetto che abbiamo voluto trasmettere nella campagna, usando il termine «featuring», tipico delle collaborazioni tra artisti. Non a caso, Rose Villain aveva già collaborato con artisti come Geolier, che è stato nostro testimonial l’anno scorso».
I volti famosi fanno vendere di più o il loro valore è soprattutto simbolico e di posizionamento del brand?
«Oggi direi soprattutto posizionamento e coerenza del messaggio. La vendita non dipende più solo dalla pubblicità: per vendere bisogna essere impeccabili sul prodotto, sul prezzo, sull’assortimento. Viviamo un momento di consumi non esaltanti, quindi è necessario lavorare su tutte le leve. Non è che una persona vede lo spot e corre subito in negozio. È un periodo “da elmetto” per il settore retail».
È una situazione comune a molti brand, in questo momento.
«Assolutamente sì. Noi non possiamo lamentarci: anche questo Natale è stato positivo. Però per portare le persone in negozio bisogna investire sempre di più. Il traffico non è più una costante: meno persone nei centri commerciali, meno in strada, meno negli outlet. Per intercettare quel traffico serve investire in offerte, comunicazione, social, utilizzando tutti gli strumenti che permettono soprattutto ai giovani di arrivare in negozio, magari grazie a una promozione mirata».
Guardando al passato, c’è stato un testimonial che ha segnato una svolta per Yamamay?
«Sicuramente Jennifer Lopez: è stato uno dei primi casi in cui una celebrità ha firmato una capsule collection. All’epoca era qualcosa di totalmente nuovo e ci ha dato una visibilità internazionale enorme. Per il mondo maschile, Cristiano Ronaldo ha rappresentato un altro grande salto di qualità. Detto questo, Yamamay è nata fin dall’inizio con una visione molto chiara».
Come è iniziata questa avventura imprenditoriale?
«Con l’incoscienza di un ragazzo di 28 anni che rescinde un importante contratto da manager perché vuole fare l’imprenditore. Ho coinvolto tutta la famiglia in questo sogno: creare un’azienda di intimo, un settore che ho sempre amato. Dico spesso che ero già un grande consumatore, soprattutto perché l’intimo è uno dei regali più fatti. Oggi posso dire di aver realizzato un sogno».
Oggi Yamamay è un marchio internazionale. Quanti negozi avete nel mondo?
«Circa 600 negozi in totale. Di questi, 430 sono in Italia e circa 170 all’estero».
Il vostro è un settore molto competitivo. Qual è oggi il vostro principale elemento di differenziazione?
«Il rapporto qualità-prezzo. Abbiamo scelto di non seguire la strada degli aumenti facili nel post Covid, quando il mercato lo permetteva. Abbiamo continuato invece a investire su prodotto, innovazione, collaborazioni e sostenibilità. Posso dire con orgoglio che Yamamay è uno dei marchi di intimo più sostenibili sul mercato. La sostenibilità per noi non è una moda né uno strumento di marketing: è un valore intrinseco. Anche perché abbiamo in casa una delle massime esperte del settore, mia sorella Barbara, e siamo molto attenti a non fare greenwashing».
Quali sono le direttrici di crescita future?
«Sicuramente l’internazionale, più come presenza reale che come notorietà, e il digitale: l’e-commerce è un canale dove possiamo crescere ancora molto. Inoltre stiamo investendo tantissimo nel menswear. È un mercato in forte evoluzione: l’uomo oggi compra da solo, non delega più alla compagna o alla mamma. È un cambiamento culturale profondo e la crescita sarà a doppia cifra nei prossimi anni. La società è cambiata, è più eterogenea, e noi dobbiamo seguirne le evoluzioni. Penso anche al mondo Lgbtq+, che è storicamente un grande consumatore di intimo e a cui guardiamo con grande attenzione».
Capodanno è un momento simbolico anche per l’intimo. Che consiglio d’acquisto dai ai vostri clienti per iniziare bene l’anno?
«Un consiglio semplicissimo: indossate intimo rosso a Capodanno. Mutande, boxer, slip… non importa. È una tradizione che non va persa, anzi va rafforzata. Il rosso porta amore, ricchezza e salute. E le tradizioni belle vanno rispettate».
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