Il sistema difeso a spada tratta da Roberto Speranza si basa su dati vecchi. E la stretta, ammesso che serva, arriva quando ormai la curva è in fase discendente. Ecco, ente per ente, la media mobile a sette giorni del numero di nuovi positivi ogni 100.000 abitanti di Regioni e Province autonome da novembre. Molto difficile stabilire un nesso tra le regole e l'andamento dei contagi.
Il sistema difeso a spada tratta da Roberto Speranza si basa su dati vecchi. E la stretta, ammesso che serva, arriva quando ormai la curva è in fase discendente. Ecco, ente per ente, la media mobile a sette giorni del numero di nuovi positivi ogni 100.000 abitanti di Regioni e Province autonome da novembre. Molto difficile stabilire un nesso tra le regole e l'andamento dei contagi.Come ogni venerdì, milioni di italiani sono rimasti con il fiato sospeso in attesa dei risultati del monitoraggio dell'Istituto superiore di sanità. Un appuntamento dal quale dipende l'assegnazione delle zone (colori) e, dunque, il livello delle restrizioni per contenere la diffusione del Covid. Sarò in grado di riaprire la mia attività? Lunedì i miei figli potranno a tornare a scuola? Riuscirò a spostarmi dal mio Comune di residenza? Sono solo alcune delle domande che angosciano gli italiani, ormai consci che la loro quotidianità potrebbe finire per essere stravolta da un giorno all'altro. Recentemente, il ministro della Salute Roberto Speranza in un'intervista rilasciata alla Stampa ha dichiarato che reputa la scelta del sistema a colori «la più efficace a rendere le misure proporzionali alla differente situazione epidemiologica dei territori», per poi annunciare che «sì, sarà confermata» anche dopo Pasqua.Noi della Verità ci siamo chiesti se quella delle zone, come sostiene il ministro Speranza, sia effettivamente la strategia migliore. Nel farlo, abbiamo scelto come criterio per valutare la bontà di questa misura, la media mobile a sette giorni dei nuovi positivi su 100.000 abitanti di ogni Regione italiana, incrociandola con il colore assegnato al medesimo territorio per ciascun periodo. Premettiamo, per ragioni di onestà intellettuale, che abbiamo preso in considerazione solo uno dei valori offerti dal dataset della Protezione civile. Si tratta tuttavia del dato «principe», cioè quello - assumendo una relativa omogeneità e capillarità nell'effettuare i tamponi - da cui derivano, a catena, ospedalizzazioni e decessi. Non per niente, uno dei criteri scelti dal governo di Mario Draghi per l'attivazione «semi automatica» della zona rossa si fonda proprio sul numero dei casi (250) ogni 100.000 abitanti. Stesso discorso per la zona bianca, nella quale si può entrare rimanendo sotto la soglia dei 50 casi ogni 100.000 abitanti per tre settimane di seguito. Insomma, per quanto parziale, il dato dell'incidenza rappresenta senz'altro un termometro piuttosto affidabile dell'andamento generale della pandemia. Sono almeno tre le distinte ragioni che ci hanno portato a concludere che, no, il sistema a zone non funziona alla perfezione come sostiene Speranza, tutt'altro. Primo. Il meccanismo nasce viziato da un grave peccato originale, vale a dire la sua introduzione ormai in piena seconda ondata. Nelle settimane precedenti all'esplosione del contagio, l'esecutivo guidato da Giuseppe Conte sfornava ben tre dpcm: il primo il 13 ottobre, con l'obbligo di mascherina al chiuso e all'aperto; il secondo il 18 ottobre, con il quale si autorizzavano i sindaci a chiudere piazze e strade; il terzo, infine, il 24 ottobre, con lo stop a palestre, piscine, teatri, cinema e centri benessere, e la chiusura anticipata dei bar e ristoranti alle 18. Ma visto che i casi non accennavano a calare, il 3 novembre il governo decideva di introdurre un quarto dpcm che imponeva il coprifuoco dalle 22 alle 5 e, per l'appunto, la suddivisione in zone in base alla fascia di rischio. Osservando i grafici, salta all'occhio come al momento dell'assegnazione dei primi colori (11 novembre) le Regioni si trovavano nel bel mezzo di un picco che in termini di incidenza, salvo alcune eccezioni, non avrebbero più raggiunto nel corso del tempo.Secondo. L'assegnazione del colore si basa in parte su dati ormai obsoleti. Nel caso del monitoraggio pubblicato il 19 marzo, ad esempio, il calcolo dell'indice Rt (dal quale dipende la determinazione dello scenario, e dunque della zona) si riferisce al 3 marzo, dunque ben 16 giorni prima. Una distorsione che emerge chiaramente dalle curve: spesso il peggioramento di zona arriva tardi, quando ormai la «frittata» è già fatta. È sufficiente guardare l'aumento - più o meno marcato a seconda dei casi - dell'incidenza in zona gialla in Basilicata, Campania, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Lombardia, Marche, Molise, Piemonte, Puglia, Sicilia, Toscana, Valle d'Aosta e Veneto. Monitorando puntualmente la tendenza all'incremento dei casi si sarebbe senza dubbio potuto intervenire prima. Viceversa, più volte si assiste all'ingresso in zona rossa quando i contagi sono già stazionari o addirittura in discesa, come nei casi di Abruzzo, Campania, Lombardia, Molise, Provincia autonoma di Bolzano (novembre), Piemonte, Sicilia (gennaio), Toscana, Valle d'Aosta e Veneto.Terzo. La zona rossa ha prodotto effetti contrastanti sull'andamento del contagio. Un caso lampante è rappresentato dalla zona rossa/arancione di Natale, durante la quale i casi sono calati solo in Veneto, mentre sono rimasti stabili in sette Regioni e addirittura saliti in ben 13 Regioni e Province autonome (Abruzzo, Calabria, Campania, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Marche, Umbria, Molise, Bolzano e Trento, Puglia, Sardegna e Sicilia).Quanto basta per affermare che manca una correlazione precisa tra assegnazione delle zone e andamento del contagio. Possibile che la vita di un intero Paese rimanga ancora appesa al filo di questo sistema?
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