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2019-01-17
Prima l’obbligo, poi la stangata. Prezzo dei vaccini su del 62%
Quello appena trascorso è stato il primo anno intero da quando è entrato in vigore l'obbligo vaccinale, introdotto nel luglio del 2017 con la trasformazione in legge del decreto Lorenzin. Le cifre contenute nel rapporto Osmed diffuso nel luglio scorso dall'Agenzia italiana del farmaco (Aifa) parlano chiaro: la spesa per vaccini a carico del Servizio sanitario nazionale (e dunque di tutti i cittadini che pagano le tasse) è lievitata del 36%, passando dai 358 milioni del 2016 ai 487,4 del 2017. Un incremento prevedibile, dal momento che la norma ha esteso notevolmente e in un colpo solo la platea dei fruitori di questa tipologia di farmaci.
Ciò che non emerge dalle statistiche ufficiali, tuttavia, è chi tra gli operatori del ristretto mercato del settore (formato da una manciata di grosse case farmaceutiche) abbia beneficiato maggiormente di questo repentino e considerevole aumento dei volumi. Si tratta di un interrogativo lecito, se consideriamo che quei denari provengono dalla collettività.
Grazie a un incessante lavoro di pressing sull'Agenzia italiana del farmaco (Aifa), La Verità è riuscita a ottenere dati preziosi che consentono di farsi un'idea ben precisa della posta in gioco. Come prima cosa, occorre tenere a mente che qualsiasi modifica dell'offerta vaccinale comporta potenzialmente importanti ripercussioni sulla spesa pubblica. Un aspetto del quale, di tanto in tanto, tiene conto anche la politica. Come nel caso dell'interrogazione presentata in Senato il 15 ottobre 2015, primo firmatario Gianpiero Dalla Zuanna, nella quale in previsione della «rilevante espansione dell'offerta vaccinale definita a livello nazionale» allo studio del ministero della Salute, si chiedevano chiarimenti circa i costi e le condizioni negoziate per l'acquisto.
Discorso valido, ovviamente e a maggior ragione, anche per il decreto Lorenzin. Alle dieci vaccinazioni obbligatorie per i minori da 0 a 16 anni introdotte dal provvedimento (antipoliomielitica, antidifterica, antitetanica, antiepatite B, antipertosse, anti Haemophilus infuenzae tipo B, antirosolia, antiparotite e antivaricella), la legge ne affianca altre quattro fortemente raccomandate (antimeningococcica B, antimeningococcica C, antipneumococcica e antirotavirus, tutte gratuite per i nati dal 2017, mentre solo le prime due per i nati dal 2012 al 2016).
Dalle cifre fornite alla Verità dall'Aifa, emerge che a fronte di un aumento considerevole della spesa vaccinale (+130 milioni di euro) corrisponde una diminuzione di ben 4 milioni di unità del numero totali di dosi giornaliere definite (Ddd, cioè l'unità di misura stabilita in modo convenzionale per quantificare e confrontare i consumi di un farmaco). Nel complesso, la spesa media per Ddd è passata dai 14,02 euro del 2016 ai 22,74 euro del 2017, vale a dire il 62% in più. Questo dato racchiude tutte le tipologie vaccinali, ma è prendendo in considerazione le varie categorie che si scoprono le cose più interessanti. Prima di tutto, la crescita maggiore l'hanno registrata i vaccini appartenenti alle categorie collegate all'obbligo, primi fra tutti quelli meningococcici (+84,1 milioni di euro, costo/Ddd +27,2%) e quelli morbillosi (+14,2 milioni di euro, costo/Ddd +33,2%). Colpisce inoltre, a fronte di una diminuzione di quasi 6 milioni di dosi dei vaccini influenzali, un aumento della spesa pari a 6,7 milioni di euro (+87,2%/Ddd). Nota a margine, la spesa è aumentata in valore assoluto per tutte le undici categorie prese in considerazione dall'Aifa. La spesa per dose infine, fatta eccezione per i vaccini pneumococcici (-0,6%), è cresciuta per tutte le tipologie.
Dati che da soli sarebbero sufficienti a far inarcare più di un sopracciglio, ma non è tutto. Dietro specifica richiesta, l'Aifa ha fornito alla Verità anche il dettaglio di spesa per singolo farmaco in commercio. L'intero podio è formato da vaccini antimeningococcici. Primo è il Bexsero (GlaxoSmithKline), per il quale il nostro servizio nazionale ha sganciato ben 60 milioni di euro in più (costo/Ddd +3,5%), seguito dal Menveo (Gsk, +16,2 milioni, costo/Ddd +11%) e dal Nimenrix (Pfizer +11,9 milioni, costo/Ddd +0,31%). Registrano incrementi milionari, tra gli altri, il tetravalente per morbillo, parotite, rosolia e varicella Priorix Tetra (Gsk, +9,37 milioni, costo/Ddd +7,08%), l'altro tetravalente Proquad (Merck, +3,6 milioni, costo/Ddd +9%) e l'esavalente polio, difterite, tetano, pertosse, Haemophilus B, epatite B Infanrix Hexa (Gsk, +3 milioni, costo/Ddd +4,6%). Nel complesso, risultano ben 17 i vaccini per i quali nel 2017 la differenza di spesa rispetto all'anno precedente è stata superiore al milione di euro.
Dallo spaccato per casa farmaceutica, a dividersi la torta sono cinque colossi. Il botto lo fa la britannica GlaxoSmithKline, che nel 2017 ha visto aumentare il volume dei farmaci acquistato dalla sanità pubblica di ben 97,4 milioni di euro. Per contro, Gsk ha aumentato il prezzo medio per dose del 25%. Seguono le americane Pfizer (+19,2 milioni, -0,22% per dose) e Merck (+8,85 milioni, +25,3% per dose), la francese Sanofi Pasteur (+4,8 milioni, +224% per dose) e Seqirus, joint venture tra l'australiana Biocls e la svizzera Novartis (+3,78 milioni, -10,87% per dose).
Visti i numeri, e in virtù del fatto che la legge assegnava all'Aifa il compito di sedersi al tavolo con le case farmaceutiche per negoziare prezzi migliori (con relativo risparmio per lo Stato), viene da chiedersi cosa sia andato storto. Ma questa è un'altra storia, che potrete leggere molto presto sulle nostre pagine.
Un contro manifesto smonta Burioni: «Ha un'idea di scienza del tutto superata».
Roberto Burioni proclama di voler difendere la scienza dalla superstizione, ma il suo fanatismo finisce per far diventare la fiducia stessa nella «sua» scienza una fede, qualcosa che non può essere messo in discussione, sostanzialmente una superstizione essa stessa, etichettando ogni ipotesi alternativa come «eretica», e pericolosa, secondo una consuetudine antica, quella che portava a bruciare sul rogo chiunque dubitasse, tanto per fare un esempio, del fatto che il sole girasse intorno alla terra.
Può essere letto così il «contropatto» che Ivan Cavicchi ha esposto sul blog che cura sul sito del Fatto Quotidiano, proprio in risposta a Burioni. Cavicchi insegna Sociologia delle organizzazioni sanitarie e Filosofia della medicina alla facoltà di Medicina dell'università Tor Vergata di Roma, dopo essere stato docente alla Sapienza. È stato responsabile nazionale della Cgil per la sanità e direttore generale di Farmindustria dal 1996 al 2002. È autore di numerose pubblicazioni.
Cavicchi prende di mira il «patto» di Burioni, quello rivolto ai politici e firmato tra gli altri da Matteo Renzi e Beppe Grillo, che è stato benedetto anche dal direttore di Avvenire, Marco Tarquinio. «Ci si può dividere su tutto», ha scritto Burioni, «ma una base comune deve esserci. La scienza deve fare parte di questa base, perché non ascoltare la scienza significa non solo oscurantismo e superstizione, ma anche dolore, sofferenza e morte di esseri umani». Cavicchi demolisce la granitica fede di Burioni nella «sua» scienza .
«Evidentemente», scrive Cavicchi, «il proponente (Burioni, ndr) ha in testa una propria idea di scienza che per una infinità di ragioni, non è uguale a quella di milioni di persone e a quella di migliaia e migliaia di esperti; un'idea cioè che potrebbe essere persino contestata a causa soprattutto dei suoi anacronistici modi di essere. Attraverso il patto “contro la pseudo medicina", sottoscritto anche da Matteo Renzi e Beppe Grillo, si chiede alla politica l'impegno ad imporre al mondo intero una vecchia e superata idea di scienza solo perché chi la propone è del tutto incapace a cimentarsi nella sua ridefinizione. L'idea che ha Roberto Burioni non corrisponde in nulla a quello che oggi la filosofia della scienza definisce tale», argomenta Cavicchi, «ma è una vecchia forma di scientismo positivistico di stampo ottocentesco. Quindi una sorta di rottame d'altri tempi che nonostante ciò ha la pretesa di proporsi come metafisica, cioè valore assoluto, incontestabile, autoritaria e impositiva; conoscenza oggettiva dell'uomo, quindi del tutto impersonale; riduzione della persona ad organo; malattia ma non malato ma non contesto; proceduralismo».
La superstizione di Burioni è smascherata: quella che il novello «inquisitore» vuole difendere con l'aiuto della politica, per Cavicchi, è «una scienza dispotica, incapace di avere relazioni con gli altri, che pretende, esattamente come un secolo fa, una sottomissione totale alle sue evidenze e ai suoi standard. Questo nonostante le sue evidenze siano, dal punto di vista epistemologico, verità provvisorie e falsificabili e nonostante tutti gli standard siano regolarmente smentiti dai casi singoli, dalle specificità e dalle individualità. Se la scienza», prosegue Cavicchi, «anziché sforzarsi di ridefinirsi nelle complessità del mondo, dialogare con le persone, evolvere, ripensarsi, si limita a chiedere alle forze politiche di proteggere la sua invarianza cioè la sua refrattarietà al cambiamento è davvero un brutto segno. Vuol dire che questa scienza pensa di risolvere i suoi problemi paradigmatici con la forza in un momento in cui peraltro i medici e gli altri operatori hanno una credibilità sempre minore».
«Anche io», scrive Cavicchi, «farei un patto, non sulla scienza ma sul modo di intenderla e soprattutto sul modo di usarla». Questo è il suo contro-patto:
1 Tutte le forze politiche italiane s'impegnano a favorire il dialogo tra scienza e società a sostenere ogni forma di consenso informato, a favorire l'alleanza terapeutica, a fare in modo di corresponsabilizzare il cittadino nelle scelte scientifiche che riguardano la sua salute, a favorire il confronto attraverso relazioni di cura tra evidenze scientifiche e opinioni personali del cittadino con l'obiettivo sempre di co-decidere la scelta più razionale e più ragionevole quindi più conveniente per il cittadino.
2 Nessuna forza politica italiana e nessun cittadino responsabile si presta a sostenere o tollerare in alcun modo forme di scientismo cioè concetti di scienza riduttivi, schematici, semplificanti, spersonalizzanti, disumani, cioè concetti di scienza con i paraocchi. La scienza è una conoscenza al servizio dell'uomo.
3 Tutte le forze politiche italiane s'impegnano a governare e legiferare in modo tale da fermare l'operato degli scientisti, che, con le loro pulsioni autoritarie, stanno minando pericolosamente la fiducia delle persone nella medicina.
4 Tutte le forze politiche italiane s'impegnano a implementare programmi capillari d'informazione sulla scienza non per la popolazione, ma con la popolazione, a partire dalla scuola dell'obbligo, e coinvolgendo media, divulgatori, comunicatori e ogni categoria di professionisti della ricerca e della sanità.
5 Tutte le forze politiche italiane s'impegnano affinché si assicurino alla scienza adeguati finanziamenti pubblici, a partire da un immediato raddoppio dei fondi ministeriali per la ricerca biomedica di base.
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I calcoli dell'Aifa rivelano che la spesa è cresciuta di 130 milioni fra il 2016 e il 2017. La colpa non è dell'aumento del numero di immunizzazioni, ma del prezzo delle dosi, passato da 14,02 a 22,74 euro in media. Un affare per le multinazionali del farmaco.Un contro manifesto smonta Roberto Burioni: «Ha un'idea di scienza del tutto superata». Il docente e filosofo Ivan Cavicchi propone sul «Fatto» un documento alternativo a quello del medico: «Gli esperti dialoghino di più». Lo speciale comprende due articoli.Quello appena trascorso è stato il primo anno intero da quando è entrato in vigore l'obbligo vaccinale, introdotto nel luglio del 2017 con la trasformazione in legge del decreto Lorenzin. Le cifre contenute nel rapporto Osmed diffuso nel luglio scorso dall'Agenzia italiana del farmaco (Aifa) parlano chiaro: la spesa per vaccini a carico del Servizio sanitario nazionale (e dunque di tutti i cittadini che pagano le tasse) è lievitata del 36%, passando dai 358 milioni del 2016 ai 487,4 del 2017. Un incremento prevedibile, dal momento che la norma ha esteso notevolmente e in un colpo solo la platea dei fruitori di questa tipologia di farmaci. Ciò che non emerge dalle statistiche ufficiali, tuttavia, è chi tra gli operatori del ristretto mercato del settore (formato da una manciata di grosse case farmaceutiche) abbia beneficiato maggiormente di questo repentino e considerevole aumento dei volumi. Si tratta di un interrogativo lecito, se consideriamo che quei denari provengono dalla collettività. Grazie a un incessante lavoro di pressing sull'Agenzia italiana del farmaco (Aifa), La Verità è riuscita a ottenere dati preziosi che consentono di farsi un'idea ben precisa della posta in gioco. Come prima cosa, occorre tenere a mente che qualsiasi modifica dell'offerta vaccinale comporta potenzialmente importanti ripercussioni sulla spesa pubblica. Un aspetto del quale, di tanto in tanto, tiene conto anche la politica. Come nel caso dell'interrogazione presentata in Senato il 15 ottobre 2015, primo firmatario Gianpiero Dalla Zuanna, nella quale in previsione della «rilevante espansione dell'offerta vaccinale definita a livello nazionale» allo studio del ministero della Salute, si chiedevano chiarimenti circa i costi e le condizioni negoziate per l'acquisto.Discorso valido, ovviamente e a maggior ragione, anche per il decreto Lorenzin. Alle dieci vaccinazioni obbligatorie per i minori da 0 a 16 anni introdotte dal provvedimento (antipoliomielitica, antidifterica, antitetanica, antiepatite B, antipertosse, anti Haemophilus infuenzae tipo B, antirosolia, antiparotite e antivaricella), la legge ne affianca altre quattro fortemente raccomandate (antimeningococcica B, antimeningococcica C, antipneumococcica e antirotavirus, tutte gratuite per i nati dal 2017, mentre solo le prime due per i nati dal 2012 al 2016).Dalle cifre fornite alla Verità dall'Aifa, emerge che a fronte di un aumento considerevole della spesa vaccinale (+130 milioni di euro) corrisponde una diminuzione di ben 4 milioni di unità del numero totali di dosi giornaliere definite (Ddd, cioè l'unità di misura stabilita in modo convenzionale per quantificare e confrontare i consumi di un farmaco). Nel complesso, la spesa media per Ddd è passata dai 14,02 euro del 2016 ai 22,74 euro del 2017, vale a dire il 62% in più. Questo dato racchiude tutte le tipologie vaccinali, ma è prendendo in considerazione le varie categorie che si scoprono le cose più interessanti. Prima di tutto, la crescita maggiore l'hanno registrata i vaccini appartenenti alle categorie collegate all'obbligo, primi fra tutti quelli meningococcici (+84,1 milioni di euro, costo/Ddd +27,2%) e quelli morbillosi (+14,2 milioni di euro, costo/Ddd +33,2%). Colpisce inoltre, a fronte di una diminuzione di quasi 6 milioni di dosi dei vaccini influenzali, un aumento della spesa pari a 6,7 milioni di euro (+87,2%/Ddd). Nota a margine, la spesa è aumentata in valore assoluto per tutte le undici categorie prese in considerazione dall'Aifa. La spesa per dose infine, fatta eccezione per i vaccini pneumococcici (-0,6%), è cresciuta per tutte le tipologie.Dati che da soli sarebbero sufficienti a far inarcare più di un sopracciglio, ma non è tutto. Dietro specifica richiesta, l'Aifa ha fornito alla Verità anche il dettaglio di spesa per singolo farmaco in commercio. L'intero podio è formato da vaccini antimeningococcici. Primo è il Bexsero (GlaxoSmithKline), per il quale il nostro servizio nazionale ha sganciato ben 60 milioni di euro in più (costo/Ddd +3,5%), seguito dal Menveo (Gsk, +16,2 milioni, costo/Ddd +11%) e dal Nimenrix (Pfizer +11,9 milioni, costo/Ddd +0,31%). Registrano incrementi milionari, tra gli altri, il tetravalente per morbillo, parotite, rosolia e varicella Priorix Tetra (Gsk, +9,37 milioni, costo/Ddd +7,08%), l'altro tetravalente Proquad (Merck, +3,6 milioni, costo/Ddd +9%) e l'esavalente polio, difterite, tetano, pertosse, Haemophilus B, epatite B Infanrix Hexa (Gsk, +3 milioni, costo/Ddd +4,6%). Nel complesso, risultano ben 17 i vaccini per i quali nel 2017 la differenza di spesa rispetto all'anno precedente è stata superiore al milione di euro.Dallo spaccato per casa farmaceutica, a dividersi la torta sono cinque colossi. Il botto lo fa la britannica GlaxoSmithKline, che nel 2017 ha visto aumentare il volume dei farmaci acquistato dalla sanità pubblica di ben 97,4 milioni di euro. Per contro, Gsk ha aumentato il prezzo medio per dose del 25%. Seguono le americane Pfizer (+19,2 milioni, -0,22% per dose) e Merck (+8,85 milioni, +25,3% per dose), la francese Sanofi Pasteur (+4,8 milioni, +224% per dose) e Seqirus, joint venture tra l'australiana Biocls e la svizzera Novartis (+3,78 milioni, -10,87% per dose).Visti i numeri, e in virtù del fatto che la legge assegnava all'Aifa il compito di sedersi al tavolo con le case farmaceutiche per negoziare prezzi migliori (con relativo risparmio per lo Stato), viene da chiedersi cosa sia andato storto. Ma questa è un'altra storia, che potrete leggere molto presto sulle nostre pagine.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/dopo-lobbligo-i-vaccini-costano-il-62-in-piu-2626188778.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="un-contro-manifesto-smonta-burioni-ha-un-idea-di-scienza-del-tutto-superata" data-post-id="2626188778" data-published-at="1765631403" data-use-pagination="False"> Un contro manifesto smonta Burioni: «Ha un'idea di scienza del tutto superata». Roberto Burioni proclama di voler difendere la scienza dalla superstizione, ma il suo fanatismo finisce per far diventare la fiducia stessa nella «sua» scienza una fede, qualcosa che non può essere messo in discussione, sostanzialmente una superstizione essa stessa, etichettando ogni ipotesi alternativa come «eretica», e pericolosa, secondo una consuetudine antica, quella che portava a bruciare sul rogo chiunque dubitasse, tanto per fare un esempio, del fatto che il sole girasse intorno alla terra. Può essere letto così il «contropatto» che Ivan Cavicchi ha esposto sul blog che cura sul sito del Fatto Quotidiano, proprio in risposta a Burioni. Cavicchi insegna Sociologia delle organizzazioni sanitarie e Filosofia della medicina alla facoltà di Medicina dell'università Tor Vergata di Roma, dopo essere stato docente alla Sapienza. È stato responsabile nazionale della Cgil per la sanità e direttore generale di Farmindustria dal 1996 al 2002. È autore di numerose pubblicazioni. Cavicchi prende di mira il «patto» di Burioni, quello rivolto ai politici e firmato tra gli altri da Matteo Renzi e Beppe Grillo, che è stato benedetto anche dal direttore di Avvenire, Marco Tarquinio. «Ci si può dividere su tutto», ha scritto Burioni, «ma una base comune deve esserci. La scienza deve fare parte di questa base, perché non ascoltare la scienza significa non solo oscurantismo e superstizione, ma anche dolore, sofferenza e morte di esseri umani». Cavicchi demolisce la granitica fede di Burioni nella «sua» scienza . «Evidentemente», scrive Cavicchi, «il proponente (Burioni, ndr) ha in testa una propria idea di scienza che per una infinità di ragioni, non è uguale a quella di milioni di persone e a quella di migliaia e migliaia di esperti; un'idea cioè che potrebbe essere persino contestata a causa soprattutto dei suoi anacronistici modi di essere. Attraverso il patto “contro la pseudo medicina", sottoscritto anche da Matteo Renzi e Beppe Grillo, si chiede alla politica l'impegno ad imporre al mondo intero una vecchia e superata idea di scienza solo perché chi la propone è del tutto incapace a cimentarsi nella sua ridefinizione. L'idea che ha Roberto Burioni non corrisponde in nulla a quello che oggi la filosofia della scienza definisce tale», argomenta Cavicchi, «ma è una vecchia forma di scientismo positivistico di stampo ottocentesco. Quindi una sorta di rottame d'altri tempi che nonostante ciò ha la pretesa di proporsi come metafisica, cioè valore assoluto, incontestabile, autoritaria e impositiva; conoscenza oggettiva dell'uomo, quindi del tutto impersonale; riduzione della persona ad organo; malattia ma non malato ma non contesto; proceduralismo». La superstizione di Burioni è smascherata: quella che il novello «inquisitore» vuole difendere con l'aiuto della politica, per Cavicchi, è «una scienza dispotica, incapace di avere relazioni con gli altri, che pretende, esattamente come un secolo fa, una sottomissione totale alle sue evidenze e ai suoi standard. Questo nonostante le sue evidenze siano, dal punto di vista epistemologico, verità provvisorie e falsificabili e nonostante tutti gli standard siano regolarmente smentiti dai casi singoli, dalle specificità e dalle individualità. Se la scienza», prosegue Cavicchi, «anziché sforzarsi di ridefinirsi nelle complessità del mondo, dialogare con le persone, evolvere, ripensarsi, si limita a chiedere alle forze politiche di proteggere la sua invarianza cioè la sua refrattarietà al cambiamento è davvero un brutto segno. Vuol dire che questa scienza pensa di risolvere i suoi problemi paradigmatici con la forza in un momento in cui peraltro i medici e gli altri operatori hanno una credibilità sempre minore». «Anche io», scrive Cavicchi, «farei un patto, non sulla scienza ma sul modo di intenderla e soprattutto sul modo di usarla». Questo è il suo contro-patto: 1 Tutte le forze politiche italiane s'impegnano a favorire il dialogo tra scienza e società a sostenere ogni forma di consenso informato, a favorire l'alleanza terapeutica, a fare in modo di corresponsabilizzare il cittadino nelle scelte scientifiche che riguardano la sua salute, a favorire il confronto attraverso relazioni di cura tra evidenze scientifiche e opinioni personali del cittadino con l'obiettivo sempre di co-decidere la scelta più razionale e più ragionevole quindi più conveniente per il cittadino. 2 Nessuna forza politica italiana e nessun cittadino responsabile si presta a sostenere o tollerare in alcun modo forme di scientismo cioè concetti di scienza riduttivi, schematici, semplificanti, spersonalizzanti, disumani, cioè concetti di scienza con i paraocchi. La scienza è una conoscenza al servizio dell'uomo. 3 Tutte le forze politiche italiane s'impegnano a governare e legiferare in modo tale da fermare l'operato degli scientisti, che, con le loro pulsioni autoritarie, stanno minando pericolosamente la fiducia delle persone nella medicina. 4 Tutte le forze politiche italiane s'impegnano a implementare programmi capillari d'informazione sulla scienza non per la popolazione, ma con la popolazione, a partire dalla scuola dell'obbligo, e coinvolgendo media, divulgatori, comunicatori e ogni categoria di professionisti della ricerca e della sanità. 5 Tutte le forze politiche italiane s'impegnano affinché si assicurino alla scienza adeguati finanziamenti pubblici, a partire da un immediato raddoppio dei fondi ministeriali per la ricerca biomedica di base.
Carlo Messina all'inaugurazione dell'Anno Accademico della Luiss (Ansa)
La domanda è retorica, provocatoria e risuona in aula magna come un monito ad alzare lo sguardo, a non limitarsi a contare i droni e limare i mirini, perché la risposta è un’altra. «In Europa abbiamo più poveri e disuguaglianza di quelli che sono i rischi potenziali che derivano da una minaccia reale, e non percepita o teorica, di una guerra». Un discorso ecumenico, realistico, che evoca l’immagine dell’esercito più dolente e sfinito, quello di chi lotta per uscire dalla povertà. «Perché è vero che riguardo a welfare e democrazia non c’è al mondo luogo comparabile all’Europa, ma siamo deboli se investiamo sulla difesa e non contro la povertà e le disuguaglianze».
Le parole non scivolano via ma si fermano a suggerire riflessioni. Perché è importante che un finanziere - anzi colui che per il 2024 è stato premiato come banchiere europeo dell’anno - abbia un approccio sociale più solido e lungimirante delle istituzioni sovranazionali deputate. E lo dimostri proprio nelle settimane in cui sentiamo avvicinarsi i tamburi di Bruxelles con uscite guerrafondaie come «resisteremo più di Putin», «per la guerra non abbiamo fatto abbastanza» (Kaja Kallas, Alto rappresentante per la politica estera) o «se vogliamo evitare la guerra dobbiamo preparaci alla guerra», «dobbiamo produrre più armi, come abbiamo fatto con i vaccini» (Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea).
Una divergenza formidabile. La conferma plastica che l’Europa dei diritti, nella quale ogni minoranza possibile viene tutelata, si sta dimenticando di salvaguardare quelli dei cittadini comuni che alzandosi al mattino non hanno come priorità la misura dell’elmetto rispetto alla circonferenza cranica, ma il lavoro, la famiglia, il destino dei figli e la difesa dei valori primari. Il ceo di Banca Intesa ricorda che il suo gruppo ha destinato 1,5 miliardi per combattere la povertà, sottolinea che la grande forza del nostro Paese sta «nel formidabile mondo delle imprese e nel risparmio delle famiglie, senza eguali in Europa». E sprona le altre grandi aziende: «In Italia non possiamo aspettarci che faccia tutto il governo, se ci sono aziende che fanno utili potrebbero destinarne una parte per intervenire sulle disuguaglianze. Ogni azienda dovrebbe anche lavorare perché i salari vengano aumentati. Sono uno dei punti di debolezza del nostro Paese e aumentarli è una priorità strategica».
Con l’Europa Carlo Messina non ha finito. Parlando di imprenditoria e di catene di comando, coglie l’occasione per toccare in altro nervo scoperto, perfino più strutturale dell’innamoramento bellicista. «Se un’azienda fosse condotta con meccanismi di governance come quelli dell’Unione Europea fallirebbe». Un autentico missile Tomahawk diretto alla burocrazia continentale, a quei «nani di Zurigo» (copyright Woodrow Wilson) trasferitisi a Bruxelles. La spiegazione è evidente. «Per competere in un contesto globale serve un cambio di passo. Quella europea è una governance che non si vede in nessun Paese del mondo e in nessuna azienda. Perché è incapace di prendere decisioni rapide e quando le prende c’è lentezza nella realizzazione. Oppure non incidono realmente sulle cose che servono all’Europa».
Il banchiere è favorevole a un ministero dell’Economia unico e ritiene che il vincolo dell’unanimità debba essere tolto. «Abbiamo creato una banca centrale che gestisce la moneta di Paesi che devono decidere all’unanimità. Questo è uno degli aspetti drammatici». Ma per uno Stato sovrano che aderisce al club dei 27 è anche l’unica garanzia di non dover sottostare all’arroganza (già ampiamente sperimentata) di Francia e Germania, che trarrebbero vantaggi ancora più consistenti senza quel freno procedurale.
Il richiamo a efficienza e rapidità riguarda anche l’inadeguatezza del burosauro e riecheggia la famosa battuta di Franz Joseph Strauss: «I 10 comandamenti contengono 279 parole, la dichiarazione americana d’indipendenza 300, la disposizione Ue sull’importazione di caramelle esattamente 25.911». Un esempio di questa settimana. A causa della superfetazione di tavoli e di passaggi, l’accordo del Consiglio Affari interni Ue sui rimpatri dei migranti irregolari e sulla liceità degli hub in Paesi terzi (recepito anche dal Consiglio d’Europa) entrerà in vigore non fra 60 giorni o 6 mesi, ma se va bene fra un anno e mezzo. Campa cavallo.
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Luca Casarini. Nel riquadro, il manifesto abusivo comparso a Milano (Ansa)
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
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