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2020-07-08
L’Italia affonda, Conte gongola
Giuseppe Conte (Antonio Masiello/Getty Images)
Nell'Aula della Camera il testo del decreto Rilancio è arrivato, dopo lunga e penosa malattia, solo alle 18.30 di ieri sera. Prima, è stato necessario un ennesimo ritorno in commissione Bilancio per correggere i pasticci combinati da governo e maggioranza e puntualmente evidenziati dalla Ragioneria generale dello Stato, che non è un organo esterno, ma è parte integrante del Mef. Va dato atto a Claudio Borghi, leghista e presidente della commissione, di aver tenuto un comportamento ineccepibile dal punto di vista istituzionale, rimanendo sempre capace di separare il suo punto di vista politico (ferocemente contrario al provvedimento) dalla gestione dei lavori, che è stata impeccabile da parte sua. Tutt'altro che impeccabile, anzi, disastroso, il comportamento del governo. E non solo per i 256 articoli di un provvedimento omnibus (nato come decreto Aprile, e siamo all'8 luglio), ma per il tentativo di infilarci di tutto, dai soldi alla fondazione di Bill Gates fino ai voli in business class per l'expo di Dubai.
Morale, la trattazione è diventata una via di mezzo tra un pandemonio e un suk: 8.000 emendamenti, poi ridotti a 1.200, e la commissione che - miracolosamente - è riuscita lo stesso a chiudere i lavori. Ma con un gigantesco «ma»: con un cortocircuito paradossale, proprio su emendamenti del governo o della maggioranza, e su cui i rappresentanti del governo avevano espresso parere favorevole, è arrivata la mannaia della Ragioneria generale dello Stato, che ha steso una devastante nota tecnica di 22 pagine per stroncarli e chiederne la correzione, che poi è avvenuta nella giornata di ieri. Ora, se un rappresentante del governo dà parere favorevole in commissione prima della votazione di un emendamento (ed è il segnale che l'esecutivo autorizza la sua maggioranza a votare sì), si presuppone che si sia già consultato con la Rgs. E invece più di qualcosa non ha funzionato. In un altro articolo, spieghiamo tutto ciò che non va nella macchina del Mef, dalle carenze della «testa» politica alle stanchezze del «corpaccione» tecnico.
Ma una fonte anonima del ministero, solitamente attendibilissima, pur ammettendo i problemi di carattere generale, ha aggiunto una causa più specifica dell'incidente. L'innesco sarebbe stato determinato dal tentativo della maggioranza Pd-M5s (con il governo o corresponsabile o incapace di gestire la situazione) di infilare nottetempo un'ultima ondata di emendamenti non concordati né coperti. Per dirla con le parole di Giuseppe Conte: qualcuno ha provato ad agire «con il favore delle tenebre». E in questa infornata, secondo questa interpretazione, il Pd avrebbe provato a spingere anche temi e punti sollecitati da qualche esponente di Fi, in un tentativo del Pd di captatio benevolentiae verso un pezzo dell'opposizione. Ovviamente, da parte del Pd, si nega questa ricostruzione.
Resta però il pasticcio. E, nel gran caos, c'è chi è stato clamorosamente dimenticato. È il caso delle aree colpite dal terremoto del 2009: il sindaco dell'Aquila Pierluigi Biondi, in una nota congiunta con altri sindaci dello stesso territorio, non solo ha denunciato l'assenza di misure significative, ma ha anche acceso i riflettori sulla bocciatura dell'emendamento a firma di Stefania Pezzopane (Pd) «con cui si concedeva la proroga al 31 luglio per la presentazione da parte delle imprese della certificazione per ottenere l'abbattimento di tributi e imposte». «Così come è accaduto per tutte le altre proposte emendative annunciate in spettacolari e partecipatissime conferenze stampa», ha sarcasticamente aggiunto il sindaco.
In ogni caso, alle 17.15 di ieri, dopo un'altra giornata caotica, Borghi si è correttamente presentato in Aula chiedendo un'ora e un quarto (fino alle 18.30) per assemblare materialmente i testi modificati che nel frattempo erano stati approvati. Nella pausa, il leghista si è tolto lo sfizio di scrivere su Twitter che «la gloriosa commissione Bilancio ha sistemato le “lievi imprecisioni"». Un modo da un lato per rivendicare la correttezza del suo operato istituzionale e dall'altro per sottolineare la debacle tecnica e politica del governo.
Finalmente, alle 18.30, la seduta è ripresa, e, com'era scontato, si è presentato in Aula il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Federico D'Incà, per porre la fiducia, con ciò blindando il resto del percorso, facendo decadere ogni emendamento in Aula, e precostituendo l'approvazione del testo uscito dalla commissione (nell'ultima versione). Testo che a questo punto, mancando poco alla scadenza dei 60 giorni, il Senato potrà a sua volta solo guardare e approvare, senza nemmeno cambiare una virgola. Non ci sarebbe infatti spazio per una terza lettura, con tanti saluti alla mitica «centralità del Parlamento», ridotta a scioglilingua vanamente ripetuto da Pd e M5s.
Da segnalare, in Aula, il duro intervento di Simone Baldelli (Fi) che ha evidenziato come il Conte bis sia giunto alla sua ventiduesima fiducia.
La Ragioneria demolisce il Tesoro e mortifica i vice Castelli e Misiani
Cedimento strutturale del Mef: l'edificio non regge più. Ovviamente, non stiamo parlando dell'esigenza di ristrutturare fisicamente i locali di via XX Settembre, ma di una malattia più profonda e non necessariamente curabile, in questa legislatura.
Se la Ragioneria generale dello Stato, su un provvedimento cruciale, atteso da mesi e preparato per lunghe settimane come il decreto Rilancio, che mette in campo ben 55 miliardi di risorse, arriva in extremis a vergare 22 pagine di fuoco contro gli emendamenti dello stesso governo e della medesima maggioranza, siamo in presenza - per l'esecutivo - di una debacle tecnica e insieme di un gigantesco caso politico.
La nota della Ragioneria è impietosa, in primo luogo nei confronti dei sottosegretari Laura Castelli (M5s) e Antonio Misiani (Pd) che hanno direttamente seguito il provvedimento, ma indirettamente anche verso il ministro Roberto Gualtieri, palesemente non al comando della situazione alla sua prima vera prova di governo. I rilievi della Rgs configurano una Waterloo per i titolari politici del Mef: emendamenti da modificare per escludere effetti finanziari negativi, emendamenti da stralciare perché privi di copertura, emendamenti da cassare perché comportano oneri non quantificati, emendamenti con relazione tecnica insussistente o comunque non esaustiva, e perfino emendamenti a rischio di infrazione europea. Un bagno di sangue: l'equivalente di gravi e ripetuti errori di grammatica e di sintassi in un tema di italiano.
Come spiegare questo evento - a memoria di chi scrive - quasi senza precedenti in questa dimensione, con questa tempistica, e su un provvedimento così importante per un governo?
La prima spiegazione classica che si sarebbe indotti a esplorare è quella di un trappolone politico teso dalla Ragioneria. Ma francamente chi scrive tende a non preferire questa ipotesi: anzi, è noto che l'attuale Ragioniere, Biagio Mazzotta, debba la sua nomina e il suo successo in volata per accaparrarsela sulla competitor Alessandra Dal Verme, proprio al ruolo politico giocato dalla grillina Castelli. Dunque, appare improbabile e immotivata una vendetta politica: non ce ne sono i motivi, anzi semmai vale l'argomento contrario.
E allora occorre ripiegare sulla seconda spiegazione, solo apparentemente meno grave, ma in realtà ancora più preoccupante. La guida politica del ministero non c'è, e nessuno ha una bussola. Il ministro è uno storico, un teorico, non avvezzo alla guida di una macchina così complessa; i sottosegretari non si sono palesemente rivelati all'altezza della prova; il direttore generale Alessandro Rivera gioca una sua partita (si pensi al suo ruolo nei negoziati europei); i dipartimenti vanno ognuno per conto proprio. E chi dovrebbe svolgere per definizione un ruolo di collante, il capo di gabinetto Luigi Carbone, sembra avere ricorrenti priorità musicali. Morale: la testa politica latita, la saldatura tecnica delle varie anime e componenti non c'è o è insufficiente, e a quel punto gli incidenti sono dietro l'angolo.
C'è anche una terza spiegazione, perfettamente compatibile e per molti versi sovrapponibile rispetto alla seconda. Anche senza dolo, anche senza una specifica volontà di «colpire», i corpi dello Stato sono lestissimi a sorreggere i governi e i ministri in ascesa, ma altrettanto lesti a mollarli quando li percepiscono in difficoltà.
Certo, qui la vicenda è clamorosa. Si potrebbe dire: se un governo presenta un decreto monstre di 256 articoli, è naturale che poi la «bestia» si riveli non domabile, e che dietro ogni angolo possa nascondersi un pasticcio o un imprevisto. Vero. Ma è pur vero che quei 256 articoli erano già conosciuti dalla Rgs. E, quanto agli emendamenti, non si trattava di un maxiemendamento freneticamente scritto in una notte (quando può capitare una sbavatura), ma di un lavoro politico durato settimane. E dunque svolto malissimo: su questo, lo zelo - a volte ferocemente ottuso - della Rgs (non dispiaccia ai suoi adoratori che abbondano nei palazzi romani) si scatena, usando la matita blu come un randello.
Da ultimo, ha giocato anche una propensione del Mef ad acchiappare tutto e a commissariare gli altri ministeri economici. Pur non avendo il «fisico», politicamente parlando, per un'operazione così muscolare, Gualtieri ha finito per appropriarsi di materie proprie del ministero dello Sviluppo e del ministero del Lavoro: dalla politica industriale al fondo Sure, dagli ammortizzatori sociali all'Inps, passando per Cdp. In questo gigantismo, gli errori sono dietro l'angolo. E soprattutto nel crepuscolo (politico) le ombre (tecniche) tendono ad allungarsi.
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Riduci
La commissione Bilancio salva in extremis il testo bocciato dalla Ragioneria. Il caos dopo il blitz della maggioranza per aggiungere provvedimenti (e accontentare Fi)I tecnici statali rimbrottano i numeri due del dicastero per le mancate coperture nel decreto. La disfatta però è anche di Roberto Gualtieri: vuole accentrare competenze di altri ministeri e non sa gestire neppure i suoi dirigenti.Lo speciale contiene due articoliNell'Aula della Camera il testo del decreto Rilancio è arrivato, dopo lunga e penosa malattia, solo alle 18.30 di ieri sera. Prima, è stato necessario un ennesimo ritorno in commissione Bilancio per correggere i pasticci combinati da governo e maggioranza e puntualmente evidenziati dalla Ragioneria generale dello Stato, che non è un organo esterno, ma è parte integrante del Mef. Va dato atto a Claudio Borghi, leghista e presidente della commissione, di aver tenuto un comportamento ineccepibile dal punto di vista istituzionale, rimanendo sempre capace di separare il suo punto di vista politico (ferocemente contrario al provvedimento) dalla gestione dei lavori, che è stata impeccabile da parte sua. Tutt'altro che impeccabile, anzi, disastroso, il comportamento del governo. E non solo per i 256 articoli di un provvedimento omnibus (nato come decreto Aprile, e siamo all'8 luglio), ma per il tentativo di infilarci di tutto, dai soldi alla fondazione di Bill Gates fino ai voli in business class per l'expo di Dubai. Morale, la trattazione è diventata una via di mezzo tra un pandemonio e un suk: 8.000 emendamenti, poi ridotti a 1.200, e la commissione che - miracolosamente - è riuscita lo stesso a chiudere i lavori. Ma con un gigantesco «ma»: con un cortocircuito paradossale, proprio su emendamenti del governo o della maggioranza, e su cui i rappresentanti del governo avevano espresso parere favorevole, è arrivata la mannaia della Ragioneria generale dello Stato, che ha steso una devastante nota tecnica di 22 pagine per stroncarli e chiederne la correzione, che poi è avvenuta nella giornata di ieri. Ora, se un rappresentante del governo dà parere favorevole in commissione prima della votazione di un emendamento (ed è il segnale che l'esecutivo autorizza la sua maggioranza a votare sì), si presuppone che si sia già consultato con la Rgs. E invece più di qualcosa non ha funzionato. In un altro articolo, spieghiamo tutto ciò che non va nella macchina del Mef, dalle carenze della «testa» politica alle stanchezze del «corpaccione» tecnico. Ma una fonte anonima del ministero, solitamente attendibilissima, pur ammettendo i problemi di carattere generale, ha aggiunto una causa più specifica dell'incidente. L'innesco sarebbe stato determinato dal tentativo della maggioranza Pd-M5s (con il governo o corresponsabile o incapace di gestire la situazione) di infilare nottetempo un'ultima ondata di emendamenti non concordati né coperti. Per dirla con le parole di Giuseppe Conte: qualcuno ha provato ad agire «con il favore delle tenebre». E in questa infornata, secondo questa interpretazione, il Pd avrebbe provato a spingere anche temi e punti sollecitati da qualche esponente di Fi, in un tentativo del Pd di captatio benevolentiae verso un pezzo dell'opposizione. Ovviamente, da parte del Pd, si nega questa ricostruzione. Resta però il pasticcio. E, nel gran caos, c'è chi è stato clamorosamente dimenticato. È il caso delle aree colpite dal terremoto del 2009: il sindaco dell'Aquila Pierluigi Biondi, in una nota congiunta con altri sindaci dello stesso territorio, non solo ha denunciato l'assenza di misure significative, ma ha anche acceso i riflettori sulla bocciatura dell'emendamento a firma di Stefania Pezzopane (Pd) «con cui si concedeva la proroga al 31 luglio per la presentazione da parte delle imprese della certificazione per ottenere l'abbattimento di tributi e imposte». «Così come è accaduto per tutte le altre proposte emendative annunciate in spettacolari e partecipatissime conferenze stampa», ha sarcasticamente aggiunto il sindaco.In ogni caso, alle 17.15 di ieri, dopo un'altra giornata caotica, Borghi si è correttamente presentato in Aula chiedendo un'ora e un quarto (fino alle 18.30) per assemblare materialmente i testi modificati che nel frattempo erano stati approvati. Nella pausa, il leghista si è tolto lo sfizio di scrivere su Twitter che «la gloriosa commissione Bilancio ha sistemato le “lievi imprecisioni"». Un modo da un lato per rivendicare la correttezza del suo operato istituzionale e dall'altro per sottolineare la debacle tecnica e politica del governo. Finalmente, alle 18.30, la seduta è ripresa, e, com'era scontato, si è presentato in Aula il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Federico D'Incà, per porre la fiducia, con ciò blindando il resto del percorso, facendo decadere ogni emendamento in Aula, e precostituendo l'approvazione del testo uscito dalla commissione (nell'ultima versione). Testo che a questo punto, mancando poco alla scadenza dei 60 giorni, il Senato potrà a sua volta solo guardare e approvare, senza nemmeno cambiare una virgola. Non ci sarebbe infatti spazio per una terza lettura, con tanti saluti alla mitica «centralità del Parlamento», ridotta a scioglilingua vanamente ripetuto da Pd e M5s. Da segnalare, in Aula, il duro intervento di Simone Baldelli (Fi) che ha evidenziato come il Conte bis sia giunto alla sua ventiduesima fiducia. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/dopo-il-pasticcio-la-fiducia-il-dl-rilancio-alla-camera-con-strage-di-emendamenti-2646360923.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-ragioneria-demolisce-il-tesoro-e-mortifica-i-vice-castelli-e-misiani" data-post-id="2646360923" data-published-at="1594160822" data-use-pagination="False"> La Ragioneria demolisce il Tesoro e mortifica i vice Castelli e Misiani Cedimento strutturale del Mef: l'edificio non regge più. Ovviamente, non stiamo parlando dell'esigenza di ristrutturare fisicamente i locali di via XX Settembre, ma di una malattia più profonda e non necessariamente curabile, in questa legislatura. Se la Ragioneria generale dello Stato, su un provvedimento cruciale, atteso da mesi e preparato per lunghe settimane come il decreto Rilancio, che mette in campo ben 55 miliardi di risorse, arriva in extremis a vergare 22 pagine di fuoco contro gli emendamenti dello stesso governo e della medesima maggioranza, siamo in presenza - per l'esecutivo - di una debacle tecnica e insieme di un gigantesco caso politico. La nota della Ragioneria è impietosa, in primo luogo nei confronti dei sottosegretari Laura Castelli (M5s) e Antonio Misiani (Pd) che hanno direttamente seguito il provvedimento, ma indirettamente anche verso il ministro Roberto Gualtieri, palesemente non al comando della situazione alla sua prima vera prova di governo. I rilievi della Rgs configurano una Waterloo per i titolari politici del Mef: emendamenti da modificare per escludere effetti finanziari negativi, emendamenti da stralciare perché privi di copertura, emendamenti da cassare perché comportano oneri non quantificati, emendamenti con relazione tecnica insussistente o comunque non esaustiva, e perfino emendamenti a rischio di infrazione europea. Un bagno di sangue: l'equivalente di gravi e ripetuti errori di grammatica e di sintassi in un tema di italiano. Come spiegare questo evento - a memoria di chi scrive - quasi senza precedenti in questa dimensione, con questa tempistica, e su un provvedimento così importante per un governo? La prima spiegazione classica che si sarebbe indotti a esplorare è quella di un trappolone politico teso dalla Ragioneria. Ma francamente chi scrive tende a non preferire questa ipotesi: anzi, è noto che l'attuale Ragioniere, Biagio Mazzotta, debba la sua nomina e il suo successo in volata per accaparrarsela sulla competitor Alessandra Dal Verme, proprio al ruolo politico giocato dalla grillina Castelli. Dunque, appare improbabile e immotivata una vendetta politica: non ce ne sono i motivi, anzi semmai vale l'argomento contrario. E allora occorre ripiegare sulla seconda spiegazione, solo apparentemente meno grave, ma in realtà ancora più preoccupante. La guida politica del ministero non c'è, e nessuno ha una bussola. Il ministro è uno storico, un teorico, non avvezzo alla guida di una macchina così complessa; i sottosegretari non si sono palesemente rivelati all'altezza della prova; il direttore generale Alessandro Rivera gioca una sua partita (si pensi al suo ruolo nei negoziati europei); i dipartimenti vanno ognuno per conto proprio. E chi dovrebbe svolgere per definizione un ruolo di collante, il capo di gabinetto Luigi Carbone, sembra avere ricorrenti priorità musicali. Morale: la testa politica latita, la saldatura tecnica delle varie anime e componenti non c'è o è insufficiente, e a quel punto gli incidenti sono dietro l'angolo. C'è anche una terza spiegazione, perfettamente compatibile e per molti versi sovrapponibile rispetto alla seconda. Anche senza dolo, anche senza una specifica volontà di «colpire», i corpi dello Stato sono lestissimi a sorreggere i governi e i ministri in ascesa, ma altrettanto lesti a mollarli quando li percepiscono in difficoltà. Certo, qui la vicenda è clamorosa. Si potrebbe dire: se un governo presenta un decreto monstre di 256 articoli, è naturale che poi la «bestia» si riveli non domabile, e che dietro ogni angolo possa nascondersi un pasticcio o un imprevisto. Vero. Ma è pur vero che quei 256 articoli erano già conosciuti dalla Rgs. E, quanto agli emendamenti, non si trattava di un maxiemendamento freneticamente scritto in una notte (quando può capitare una sbavatura), ma di un lavoro politico durato settimane. E dunque svolto malissimo: su questo, lo zelo - a volte ferocemente ottuso - della Rgs (non dispiaccia ai suoi adoratori che abbondano nei palazzi romani) si scatena, usando la matita blu come un randello. Da ultimo, ha giocato anche una propensione del Mef ad acchiappare tutto e a commissariare gli altri ministeri economici. Pur non avendo il «fisico», politicamente parlando, per un'operazione così muscolare, Gualtieri ha finito per appropriarsi di materie proprie del ministero dello Sviluppo e del ministero del Lavoro: dalla politica industriale al fondo Sure, dagli ammortizzatori sociali all'Inps, passando per Cdp. In questo gigantismo, gli errori sono dietro l'angolo. E soprattutto nel crepuscolo (politico) le ombre (tecniche) tendono ad allungarsi.
Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Un concetto già smentito da Fdi che in un dossier sulle fake news relative proprio all’oro di Bankitalia, ha precisato l’infondatezza dell’allarmismo basato sulla errata idea di volersi impossessare delle riserve auree per ridurre il debito. E nello stesso documento si ricordava invece come questa idea non dispiacesse al governo di sinistra di Romano Prodi del 2007. Peraltro nel dossier si precisa che la finalità dell’emendamento è di «non far correre il rischio all’Italia che soggetti privati rivendichino diritti sulle riserve auree degli italiani».
Per due volte la Banca centrale europea ha puntato i piedi, probabilmente spinta dal retropensiero che il governo voglia mettere le mani sull’oro detenuto e gestito da Bankitalia, per venderlo. Ma anche su questo punto da Fdi hanno tranquillizzato. Nel documento esplicativo precisano che «al contrario, vogliamo affermare che la proprietà dell’oro detenuto dalla Banca d’Italia è dello Stato proprio per proteggere le riserve auree da speculazioni». Il capitale dell’istituto centrale è diviso in 300.000 quote e nessun azionista può detenere più del 5%. I principali soci di Via Nazionale sono grandi banche e casse di previdenza. Dai dati pubblicati sul sito Bankitalia, primo azionista risulta Unicredit (15.000 quote pari al 5%), seguono con il 4,93% ciascuna Inarcassa (la Cassa di previdenza di ingegneri e architetti), Fondazione Enpam (Ente di previdenza dei medici e degli odontoiatri) e la Cassa forense. Del 4,91% la partecipazione detenuta da Intesa Sanpaolo. Al sesto posto tra gli azionisti, troviamo la Cassa di previdenza dei commercialisti con il 3,66%. Seguono Bper Banca con il 3,25%, Iccrea Banca col 3,12%, Generali col 3,02%. Pari al decimo posto, con il 3% ciascuna, Inps, Inail, Cassa di sovvenzioni e risparmio fra il personale della Banca d'Italia, Cassa di Risparmio di Asti. Primo azionista a controllo straniero è la Bmnl (Gruppo Bnp Paribas) col 2,83% seguita da Credit Agricole Italia (2,81%). Bff Bank (partecipata da fondi italiani e internazionali) detiene l’1,67% mentre Banco Bpm (i cui principali azionisti sono Credit Agricole con circa il 20% e Blackrock con circa il 5%) ha l’1,51%.
Un motivo fondato quindi per esplicitare che le riserve auree sono di proprietà di tutti gli italiani. Il che, a differenza di quanto sostenuto da politici e analisti di sinistra, «non mette in discussione l’indipendenza della Banca d’Italia, né viola i trattati europei. Non si comprende quindi la levata di scudi di queste ore nei confronti della proposta di Fdi. A meno che, ed è lecito domandarselo, chi oggi si agita non abbia altri motivi per farlo».
C’è poi il fatto che «alcuni Stati, anche membri dell’Ue, hanno già chiarito che la proprietà delle riserve appartiene al popolo, nella propria legislazione, mettendolo nero su bianco, a dimostrazione del fatto che ciò è perfettamente compatibile con i Trattati europei». Pertanto si tratta di un emendamento «di buon senso».
La riformulazione della proposta potrebbe essere presentata oggi, come annunciato dal capogruppo di Fdi in Senato, Lucio Malan. «Si tratta di dare», ha specificato, «una formulazione che dia maggiore chiarezza». Nella risposta alle richieste della presidente della Bce, Christine Lagarde, il ministro Giorgetti, avrebbe precisato che la disponibilità e gestione delle riserve auree del popolo italiano sono in capo alla Banca d’Italia in conformità alle regole dei Trattati e che la riformulazione della norma trasmessa è il frutto di apposite interlocuzioni con quest’ultima per addivenire a una formulazione pienamente coerente con le regole europee.
Risolto questo fronte, altri agitano l’iter della manovra. L’obiettivo è portare la discussione in Aula per il weekend. Il lavoro è tutto sulle coperture. Ci sono i malumori delle forze dell’ordine per la mancanza di nuovi fondi, rinviati a quando il Paese uscirà dalla procedura di infrazione, e ieri quelli dei sindacati dei medici, Anaao Assomed e Cimo-Fesmed, che hanno minacciato lo stato di agitazione se saranno confermate le voci «del tentativo del ministero dell’Economia di bloccare l’emendamento, peraltro segnalato, a firma Francesco Zaffini, presidente della commissione Sanità del Senato con il sostegno del ministro della Salute», che prevede un aumento delle indennità di specificità dei medici, dirigenti sanitari e infermieri. In ballo, affermano le due sigle, ci sono circa 500 milioni già preventivati. E reclamano che il Mef «licenzi al più presto la pre-intesa del Ccnl 2022-2024 per consentire la firma e quindi il pagamento di arretrati e aumenti».
Intanto in una riformulazione del governo l’aliquota della Tobin Tax è stata raddoppiata dallo 0,2% allo 0,4%.
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Riduci
John Elkann (Ansa)
Fatta la doverosa e sincera premessa, non riusciamo a comprendere perché da ieri le opposizioni italiane stiano inondando i media di comunicati stampa che chiamano in causa il governo Meloni, al quale si chiede di riferire in aula in relazione a quella che è una trattativa tra privati. O meglio: è sacrosanta la richiesta di attenzione per la tutela dei livelli occupazionali, come succede in tutti i casi in cui un grande gruppo imprenditoriale passa di mano: ciò che si comprende meno, anzi non si comprende proprio, sono gli appelli al governo a intervenire per salvaguardare la linea editoriale delle testate in vendita.
L’agitazione in casa dem tocca livelli di puro umorismo: «Di fronte a quanto sta avvenendo nelle redazioni di Repubblica e Stampa», dichiara il capogruppo dem al Senato, Francesco Boccia, «il governo italiano non può restare silente e fermo. Chigi deve assumere un’iniziativa immediata di fronte a quella che appare come una vera e propria dismissione di un patrimonio della democrazia italiana. Per la tutela di beni e capitali strategici di interesse nazionale viene spesso evocato il Golden power. Utilizzato da questo governo per molto meno». Secondo Boccia, il governo dovrebbe bloccare l’operazione oppure intervenire direttamente ponendo condizioni. Siamo, com’è ben chiaro, di fronte al delirio politico in purezza, senza contare il fatto che quando il governo ha utilizzato il Golden power nel caso Unicredit-Bpm, il Pd ha urlato allo scandalo per l’«interventismo» dell’esecutivo. Come abbiamo detto, sono sacrosante le preoccupazioni sul mantenimento dei livelli occupazionali, molto meno comprensibili invece quelle su qualità e pluralismo dell’informazione, soprattutto se collegate alla richiesta al governo di riferire in aula firmata da Pd, Avs, M5s e +Europa.
Cosa dovrebbe fare nel concreto Giorgia Meloni? Convocare gli Elkann e Kyriakou e farsi garantire che le testate del gruppo Gedi continueranno a pubblicare gli stessi articoli anche dopo l’eventuale vendita? E a che titolo un governo potrebbe mai intestarsi un’iniziativa di questo tipo, senza essere accusato di invadere un territorio che non è di propria competenza? Con quale coraggio la sinistra che ha costantemente accusato il centrodestra di invadere il sacro terreno della libertà di stampa, ora si lamenta dell’esatto contrario? Non si sa: quello che si sa è che quando il gruppo Stellantis, di proprietà degli Elkann, ha prosciugato uno dopo l’altro gli stabilimenti di produzione di auto in Italia tutto questo allarme da parte de partiti di sinistra non lo abbiamo registrato.
Ma le curiosità (eufemismo) non finiscono qui. Riportiamo una significativa dichiarazione del co-leader di Avs, Angelo Bonelli: «La vendita de La Repubblica, La Stampa, Huffington, delle radio e dei siti connessi all’armatore greco Kyriakou», argomenta Bonelli, «è un fatto che desta profonda preoccupazione anche per la qualità della nostra democrazia. L’operazione riguarda una trattativa tra l’erede del gruppo Gedi, John Elkann, e la società ellenica Antenna Group, controllata da Theodore Kyriakou, azionista principale e presidente del gruppo. Kyriakou può contare inoltre su un solido partner in affari: il principe saudita Mohammed Bin Salman Al Saud, che tre anni fa ha investito 225 milioni di euro per acquistare il 30% di Antenna Group». E quindi? «Il premier», deduce con una buona dose di sprezzo del ridicolo Sherlock Holmes Bonelli, «all’inizio di quest’anno, ha guidato una visita di Stato in Arabia Saudita, conclusa con una dichiarazione che auspicava una nuova fase di cooperazione e sviluppo dei rapporti tra Italia e il regno del principe ereditario. Se la vendita dovesse avere questo esito, si aprirebbe un problema serio che riguarda i livelli occupazionali e, allo stesso tempo, la qualità della nostra democrazia. La concentrazione dell’informazione radiotelevisiva, della stampa e del Web sarebbe infatti praticamente schierata sulle posizioni del governo e della sua presidente». Avete letto bene: secondo il teorema Bonelli, Bin Salman è socio di Kyriakou, Bin Salman ha ricevuto Meloni in visita (come altre centinaia di leader di tutto il mondo), quindi Meloni sta mettendo le mani su Repubblica, Stampa e tutto il resto.
Quello che sfugge a Bonelli è che Bin Salman è, come è arcinoto, in eccellenti rapporti con Matteo Renzi, e guarda caso La Verità è in grado di rivelare che il leader di Italia viva starebbe giocando, lui sì, un ruolo di mediazione in questa operazione. Renzi avrebbe pure già in mente il nuovo direttore di Repubblica: il prescelto sarebbe Emiliano Fittipaldi, attuale direttore del quotidiano Domani, giornale di durissima opposizione al governo. In ogni caso, per rasserenare gli animi, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’informazione, Alberto Barachini, ha convocato i vertici di Gedi e i Cdr di Stampa e Repubblica, «in relazione», si legge in una nota, «alla vicenda della ventilata cessione delle due testate del gruppo».
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Riduci
Il premier, intervenendo alla prima edizione dei Margaret Thatcher Awards, evento organizzato all’Acquario Romano dalla fondazione New Direction, il think tank dei Conservatori europei: «Non si può rispettare gli altri se non si cerca di capirli, ma non si può chiedere rispetto se non si difende ciò che si è e non si cerca di dimostrarlo. Questo è il lavoro che ogni conservatore fa, ed è per questo che voglio ringraziarvi per combattere in un campo in cui sappiamo che non è facile combattere. Sappiamo di essere dalla parte giusta della storia».
«Grazie per questo premio» – ha detto ancora la premier – «che mi ha riportato alla mente le parole di un grande pensatore caro a tutti i conservatori, Sir Roger Scruton, il quale disse: “Il conservatorismo è l’istinto di aggrapparsi a ciò che amiamo per proteggerlo dal degrado e dalla violenza, e costruire la nostra vita attorno ad esso”. Essere conservatori significa difendere ciò che si ama».
Pier Silvio Berlusconi (Getty Images)
Forza Italia, poi, è un altro argomento centrale ed è anche l’occasione per ribadire un concetto che negli ultimi mesi aveva già espresso: «Il mio pensiero non cambia, c’è la necessità di un rinnovamento nella classe dirigente del partito». Esprime gratitudine per il lavoro svolto dal segretario nazionale, Antonio Tajani, e da tutta la squadra di Forza Italia che «ha tenuto in piedi il partito dopo la scomparsa di mio padre, cosa tutt’altro che facile». Ma confessa che per il futuro del partito «servirebbero facce nuove, idee nuove e un programma rinnovato, che non metta in discussione i valori fondanti di Forza Italia, che sono i valori fondanti del pensiero e dell'agire politico di Silvio Berlusconi, ma valori che devono essere portati a ciò che è oggi la realtà». E fa una premessa insolita: «Non mi occupo di politica, ma chi fa l’imprenditore non può essere distante dalla politica. Che io e Marina ci si appassioni al destino di Forza Italia, siamo onesti, è naturale. Tra i lasciti di mio padre tra i più grandi, se non il più grande, c’è Forza Italia». Tajani è d’accordo e legge nelle parole di Berlusconi «sollecitazioni positive, in perfetta sintonia sulla necessità del rinnovamento e di guardare al futuro, che poi è quello che stiamo già facendo».
In qualità di esperto di comunicazione, l’ad di Mediaset, traccia anche il punto della situazione sullo stato di salute dell’editoria italiana, toccando i tasti dolenti delle paventate vendite di Stampa e Repubblica, appartenenti al gruppo Gedi. La trattativa tra Gedi e il gruppo greco AntennaUno, guidato dall’armatore Theodore Kyriakou, scatena l’agitazione dei giornalisti. «Il libero mercato è sovrano, ma è un dispiacere vedere un prodotto italiano andare in mano straniera». Pier Silvio Berlusconi elogia, invece, Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport: «Cairo è un editore puro, ormai l’unico in Italia, e ha fatto un lavoro eccellente: Corriere e Gazzetta hanno un’anima coerente con la loro storia».
Una stoccata sulla patrimoniale: «Non la ritengo sbagliata, ma la parola patrimoniale, secondo me, non va bene. Così com’era sbagliatissima l’espressione “extra profitti”, cosa vuol dire extra? Non vuol dire niente e mi sembra onestamente fuori posto che in certi momenti storici dell’economia di particolare fragilità, ci possano essere delle imposte una tantum che vengono legate a livello di profitto delle aziende».
Un tema di stretta attualità, specialmente dopo le dichiarazioni di Donald Trump, è il ruolo dell’Europa nel mondo. «Di sicuro ciò che è stato fatto fino a oggi non è sufficiente, ma l’Europa deve riuscire a esistere, ad agire e a difendersi. Di questo sono certo. Prima di tutto da cittadino italiano ed europeo e ancor di più da imprenditore italiano ed europeo».
Quanto al controllo del gruppo televisivo tedesco ProSieben, Pier Silvio Berlusconi assicura che «in Germania faremo il possibile per mantenere l’occupazione del gruppo così com’è, al momento non c’è nessun piano di licenziamento». Ora Mfe guarda alla Francia? «Lì ci sono realtà consolidate private come Tf1 e M6: entrare in Francia sarebbe un sogno, ma al momento non vedo spiragli».
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