2023-09-08
Dopo le balle di Amato arrivano quelle sul Mig
Giuliano Amato (Getty Images)
Esauriti i ricordi confusi dell’ex premier, «Repubblica» si butta sul caccia caduto sulla Sila 20 giorni dopo la strage dell’Itavia. E usa un maresciallo in pensione che collega i due fatti e rilancia la tesi della messa in scena. Ma l’uomo ai giudici disse il contrario.Che su Ustica Giuliano Amato parli a vanvera ormai mi pare pacifico. Non soltanto perché dopo aver concesso un’intervista a Repubblica dal titolo roboante («Ecco la verità su Ustica, Macron chieda scusa») parlando con il nostro giornale ha fatto retromarcia, ma perché in conferenza stampa ha candidamente ammesso di non avere alcuna notizia di prima mano e di avere pure fatto confusione con le date. Tuttavia, affezionati com’erano alla tesi del maxi complotto, i cronisti del quotidiano di casa Agnelli non si sono arresi e non avendo sottomano rivelazioni a proposito del presunto missile che avrebbe colpito il Dc9 dell’Itavia, provocando 81 vittime, hanno virato sul mistero del Mig caduto sulla Sila 20 giorni più tardi. A sostegno della tesi di una battaglia aerea nei cieli italiani, con coinvolgimento di velivoli Nato e aerei libici, da anni si ricollegano i due fatti: la strage di Ustica e il caccia di Tripoli, cercando di far coincidere l’una e l’altro. Retrodatando la caduta del Mig, infatti, si prova a sostenere la ricostruzione di un’azione di guerra intorno al volo dell’Itavia, ma per spostare indietro le lancette di tre settimane occorre sostenere che non soltanto il Mig sia stato abbattuto, ma anche che il pilota a bordo non morì il 18 luglio del 1980, ma la sera del 27 giugno, quando appunto cadde l’aereo di linea italiano.Così, a sostegno della tesi capace di spiegare tutto e di giustificare anche le frasi di Amato, Repubblica intervista un ex maresciallo dell’Aeronautica, il quale sarebbe stato «testimone oculare» della messa in scena che da quasi mezzo secolo porta a dire che l’aereo libico precipitò il 18 luglio e non il 27 giugno. «Ho visto tutto con i miei occhi», ha spiegato l’ormai ottantasettenne Giulio Linguanti, «l’aereo sembrava essere stato scaricato da un mezzo pesante. Preso chissà da dove e portato lì. Ma soprattutto il cadavere. Io ne ho visti tanti nella mia vita. E quello puzzava da stare male, un carabiniere che era lì con noi quasi sveniva per l’odore. Era in avanzato stato di putrefazione. Stava lì da almeno due mesi. E poi nella fusoliera dell’aereo c’erano fori di proiettili di circa tre centimetri. Chiari, evidenti». Insomma, l’ex maresciallo non ha dubbi: il pilota era morto da un pezzo e il Mig non era precipitato lì, ma forse ci era stato portato.Tralascio le molte incongruenze della ricostruzione, forse frutto dell’età, però, non essendo un esperto di misteri d’Italia, sono andato a rileggermi l’interrogatorio reso da Giulio Linguanti il 22 maggio del 2002, quando fu ascoltato come teste nel processo che si svolse a Roma dinanzi alla terza sezione della Corte d’assise. Si tratta di quasi 150 pagine, che ovviamente non ho intenzione di infliggervi. Mi limito alle cose importanti. Alle domande degli avvocati difensori dei militari sotto processo per un presunto depistaggio (furono poi assolti), spiegò che il suo ruolo nell’Aeronautica era quello di autista e mai, nei dieci anni trascorsi al Sios di Bari, svolse attività operative né indagini. Non solo, l’ex maresciallo spiegò ai giudici che arrivò nel luogo in cui era caduto l’aereo la sera del 18 luglio a tarda sera, ma vista l’ora non si recò dove giacevano i resti del velivolo, ma andò a dormire. La mattina dopo, dall’aerostello in cui aveva trascorso la notte accompagnò un collega sul versante della montagna in cui il Mig era precipitato. A precisa domanda, Linguanti spiegò di non aver mai visto il cadavere del pilota, né di aver partecipato all’ispezione necroscopica, ma di aver sentito dire da un carabiniere, che poi non fu in grado di identificare, che i resti emanavano un forte odore, come di decomposizione. Non solo. Ammise che in quei giorni non si era mai avvicinato al velivolo, ma di averlo sempre visto a centinaia di metri di distanza. «Non lo potevo vedere, perché come ripeto era attaccato nella gola della montagna, a centinaia di metri di altezza. Quindi o lo vedevo da sopra o lo vedevo da sotto, sempre a centinaia di metri». L’unica cosa che Linguanti ha potuto dire di aver visto con i propri occhi furono due o tre buchi, che scorse sulla carlinga del Mig quando settimane dopo il relitto fu trasportato a valle, e che lui ritenne fossero stati provocati da colpi di cannoncino o mitraglia, specificando però poi di non aver mai visto i fori provocati da un cannoncino. «La mia fu un’intuizione. Ho usato la pistola e la so usare, ma non sono un esperto», si giustificò.Tutto ciò però non ha impedito a Repubblica di scrivere che sulla Sila Linguanti arrivò per primo (mentre, come lui stesso ammise, arrivò il giorno dopo) e che il Mig fu abbattuto la notte del Dc9. Nell’intervista, l’ex maresciallo dice di aver parlato tardi, a nove anni dai fatti. «Se avessero saputo subito che ero un testimone importante, mi avrebbero fatto fuori. Come è successo a molti altri che sapevano cose su quegli aerei». E però, al processo, quando gli avvocati gli chiesero se avesse mai avuto dubbi sulla data dell’aereo libico e la morte del pilota prima di leggere qualche articolo sui giornali, Linguanti rispose deciso con un no. Salvo poi aggiungere che, mentre «si interrogava tutta gente che non c’entrava niente», quando toccò a lui, che era «uno dei pochi che era stato sul posto», si disse: ecco! E si scaricò la coscienza. Per 13 anni tacque, senza pensare «a quegli 81 poveretti che stavano sull’aereo e che quando fosse andato in cielo gli avrebbero sputato in faccia». Poi ebbe un soprassalto. Come Amato.
Il primo ministro del Pakistan Shehbaz Sharif e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (Getty Images)
Riyadh e Islamabad hanno firmato un patto di difesa reciproca, che include anche la deterrenza nucleare pakistana. L’intesa rafforza la cooperazione militare e ridefinisce gli equilibri regionali dopo l’attacco israeliano a Doha.
Emanuele Orsini e Dario Scannapieco