2023-04-06
Dopo averli rovinati, commiserano i ragazzi
La stampa progressista in allarme per l’epidemia di abbandoni scolastici. Massimo Gramellini accusa la meritocrazia, i presidi chiedono aiuto alle famiglie. Nessuno si fa un esame di coscienza per aver sostenuto mesi di lockdown e Dad, che hanno piegato i giovani.I ragazzi non stanno bene. Da qualche settimana si è sviluppato un suggestivo dibattito pubblico attorno alla condizione degli adolescenti. Pare che tutto sia scaturito dalla notizia che al celebre liceo Berchet di Milano ben 56 studenti hanno deciso di cambiare scuola: troppo stressante frequentare il liceo classico, troppa ansia che si accumula in classe e si trascina fino a casa causando situazioni di grave disagio. Quadro analogo nel Lazio, come ha riportato martedì Il Messaggero: a Roma, «al liceo scientifico Isacco Newton sono stati 25 gli studenti che hanno chiesto il trasferimento, a cui si aggiungono altre 40 domande di inserimento, cioè fatte arrivare da ragazzi che hanno richiesto di essere ammessi ad anno in corso. Gli stessi numeri registrati al liceo scientifico Amedeo Avogadro con 25 giovani che hanno scelto di cambiare classe in corsa e altri 40 che hanno invece registrato la domanda in entrata». Stando al quotidiano romano ci sono regioni in cui va anche peggio: in Liguria si sono registrate addirittura 2.400 richieste di trasferimento, con picchi di 100 ragazzi che se ne vanno ogni anno dal liceo scientifico Cassini di Genova. Questi dati - in effetti inquietanti - da una decina di giorni hanno messo in apprensione l’area progressista. Non più tardi di una settimana fa, Repubblica ha dedicato un allarmato servizio alla scuola italiana in cui «metà degli studenti sono stressati e ansiosi: troppa pressione da parte degli insegnanti». Ieri sull’argomento è tornato, dalla prima pagina del Corriere della Sera, Massimo Gramellini, ultimo di una serie di commentatori che si sono cimentati con la «tirannia del merito» e le angosce degli adolescenti. Partendo dalla vicenda di Alessandra, studentessa dell’Università di Ferrara che all’inaugurazione dell’anno accademico ha confessato di aver pensato al suicidio dopo un fallimento scolastico, Gramellini ha preso il via per contestare «il mito della meritocrazia, il culto della performatività, l’idea che per valere qualcosa nella vita tu debba riuscire a importi meglio e in meno tempo degli altri. Un modello retorico che viene spacciato come l’unico possibile e come tale è subìto dai genitori, non contrastato dalla politica e alimentato dai media con l’esaltazione dei “super-studenti” e la diffusione di talent show dove si è giudicati di continuo e conta solo arrivare primi». Secondo l’editorialista del Corriere, un tempo non era così: «C’era la convinzione che i talenti non si riducessero a quelli che propiziano il successo in una determinata professione». Viene da chiedersi in che epoca sia andato a scuola il bravo Massimo, e soprattutto se gli sia mai capitato di confrontare un suo vecchio testo di studio con uno tra i tanti manuali in uso oggi negli istituti: basta una rapida occhiata per rendersi conto di quanto sia sceso il livello. Poco importa: lungi da noi sottovalutare il disagio giovanile o suggerire che gli studenti siano piagnoni. Semmai, ci preme notare quanto sia curiosa tutta questa recente preoccupazione per le sorti dei giovani, soprattutto da parte di chi ne ha in larga parte causato i problemi. Per prima cosa, infatti, si dovrebbe affrontare seriamente il tema degli effetti di alcuni decenni di educazione progressista. Si possono citare sul tema i saggi del sociologo canadese Frank Furedi o gli scritti polemici sulla «generazione offesa» di Caroline Fourest. La scuola (teoricamente) permissiva, l’abbattimento delle gerarchie e lo sgretolamento di ogni forma di autorità hanno partorito intere classi di ragazzi spaesati, ipersensibili, spesso annoiati e talvolta depressi, i famigerati «fiocchi di neve» su cui tanti cronisti di costume si sono cimentati. Già questo basterebbe probabilmente a spiegare l’epidemia di cedimenti che pare aver colpito le scuole. Ma c’è un ulteriore elemento da considerare, e non secondario, a cui ha fatto cenno Mario Rusconi, presidente di Assopresidi del Lazio. «Secondo i dati che stiamo raccogliendo la media nella Capitale è di dieci ragazzi in entrata o in uscita a istituto con picchi tra i 25 e i 35», ha detto al Messaggero. «Abbiamo notato una prima impennata già dopo il primo trimestre. Molto dipende dal post pandemia, alla difficoltà di riadattarsi in un contesto sociale con delle regole stabilite e definite. Eppure quello che a più riprese abbiamo chiesto, e stiamo chiedendo, alle famiglie è di essere più collaborativi con le scuole. Ai ragazzi dobbiamo dare gli strumenti per superare gli ostacoli, difficoltà e problemi». Ma pensa. Le famiglie devono essere collaborative, bisogna dare gli strumenti ai ragazzi: tutto sacrosanto. Intanto però il dato è che mese dopo mese continuano a emergere con prepotenza gli effetti dei lockdown, della didattica a distanza, della psicosi sanitaria. Per mesi e mesi e mesi i ragazzi si sono disabituati alla socialità, alle regole, alla convivenza civile. Come abbiamo documentato, persino le università hanno avuto problemi con i test da remoto con possibilità di copiare in libertà. E ora, guarda un po’, ci accorgiamo che non riescono a sopportare la pressione, si fanno piegare dall’ansia, si deprimono. Chi lo avrebbe mai detto? E gli illuminati commentatori che fanno? Danno la colpa alla competizione, al mito del successo, e a tante altre belle formule alcune delle quali non si udivano dai tempi dell’edonismo reaganiano. Tutto pur di chiamare le cose con il proprio nome, tutto pur di evitare l’esamino di coscienza. Così, un giorno alla volta, le colpe dei padri e delle madri e dei Grandi Fratelli sanitari ricadono sui figli del grande delirio sanitario.
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