2019-05-05
Dopo 41 anni ancora dubbi sul killer di Moro
Furono davvero Mario Moretti e Germano Maccari a ucciderlo? O quella delle Br è solo una versione di comodo? Testimonianze e perizie dei Ris fanno riemergere l'ipotesi che a sparare sia stato Giuseppe De Vuono, uomo della mala visto in via Fani il giorno della strage.Ogni anno, per le ricorrenze di Natale, l'antico borgo di Diano, una frazione del Comune di Scigliano a 45 chilometri da Cosenza, diventa un presepio vivente e i suoi attori sono gli abitanti del luogo, che prestano le loro dimore in pietra a una partecipata liturgia. Fra queste abitazioni ve n'è una, in abbandono, diversa dalle altre, perché in essa abitò, con la famiglia, una figura pressoché dimenticata, ma come argomentate supposizioni fanno ritenere, legata all'evento più clamoroso della storia della Prima Repubblica, il rapimento e l'assassinio di Aldo Moro. Il suo nome è Giustino De Vuono, che in questo anfratto della Calabria nacque l'8 maggio 1940, da Giuseppe De Vuono, barbiere, e Luigina Gentile, casalinga. De Vuono potrebbe essere stato - vari indizi e ricostruzioni conducono in questa direzione - il principale esecutore materiale dell'assassinio del presidente della Democrazia cristiana, avvenuto, come comprovato da autopsia e perizie, circa alle 4.15 del 9 maggio 1978. A Scigliano, circa 1.500 abitanti - nel 1951 erano 3.500 - tutti hanno sentito parlare di lui. Il sindaco, Raffaele Pane, classe 1970, dice che nella comunità sciglianese «la sua immagine è avvolta in un alone coreografico, quasi fiabesco». Ma questa non è una favola, bensì una storia di sangue, nella quale il destino di un bullo che fin da ragazzino manifestò segnali di ribellione e devianza giunse a incrociarsi con uno dei casi di omicidio politico più clamorosi ed enigmatici della storia italiana e internazionale.In paese si rammentano le sue esibizioni adolescenziali. «Una di queste», evoca il primo cittadino di Scigliano, lontano parente di De Vuono, «era quella di lanciare in aria un rasoio da barbiere e afferrarlo al volo con i denti». Un gioco pericoloso, al quale ne fecero seguito altri, più temibili. A 18 anni, probabilmente per sfuggire da grattacapi penali, si arruolò nella Legione straniera, che come noto accetta l'iscrizione di mercenari spesso stranieri coperti da anonimato. Fu di stanza, dal 1958 al 1963, in Algeria e in Corsica, ed espulso dal corpo speciale fondato nel 1831 «per ferocia nei confronti di inferiori e pari grado», con vari problemi con la giustizia francese e allontanato dal Paese nel 1970. Altre, frammentarie notizie, lo danno, nel 1971, condannato dal tribunale di Catanzaro a 6 anni per rapina e violenza privata, con successiva detenzione e poi fuga dal carcere di Lamezia Terme, nel 1974 al soldo dell'Anonima sequestri, nel 1975 rapitore a scopo estorsivo, in corso Venezia a Milano, di Carlo Saronio, 26 anni, ingegnere, figlio dell'ex-presidente della Carlo Erba, simpatizzante dell'eversione rossa, morto per eccessiva dose di cloroformio somministrata dai sequestratori con cadavere segretamente occultato e riscatto di 450 milioni di lire, comunque versato alla banda dalla famiglia che ne ignorava il decesso. De Vuono sarebbe stato reclutato da Carlo Fioroni, attivista di un gruppo della sinistra extraparlamentare, amico di Giangiacomo Feltrinelli, e condannato a 28 anni, ma in latitanza. Da qui risalgono probabilmente i contatti dell'ex legionario, soprannominato «lo scotennato» per via della calvizie e del riporto, con elementi del terrorismo politico e personaggi afferenti a un vario e ambiguo sottobosco in cui figurano il clan Vallanzasca (Vito Pesce, numero due della banda, lo definì «un uomo terribile») e altri esponenti della mala, tra ligèra milanese e 'ndrangheta calabrese. In questo periodo fu autore del tentato omicidio di due pregiudicati in un bar di via Neera a Milano, ridotti in fin di vita con un'arma da guerra, e condannato a 17 anni. In seguito lo arrestarono a Milano in piazzale Loreto mentre era in compagnia di una donna, Gioele Bongiovanni. Rinchiuso a San Vittore, fu poi tradotto nel carcere di Mantova, da cui evase il 27 gennaio 1977 con altri due detenuti. Il 16 marzo 1978, data dell'agguato di via Fani in cui fu sequestrato Moro, un'informativa riservata della direzione generale di pubblica sicurezza, indicava che il pregiudicato Giustino De Vuono, statura 1,72, viso curvilineo, corporatura esile, con segno particolare una cicatrice sotto-ascellare destra da colpo d'arma da fuoco, «elemento pericolosissimo, ottimo tiratore», «sospettato di appartenere all'organizzazione terroristica Brigate rosse», è «da arrestare». «Lo scotennato», fu segnalato da un testimone, Rodolfo Valentino, con deposizione agli atti della questura di Roma, che disse di averlo riconosciuto, in via Fani, alle 10, il giorno del rapimento di Moro. Su richiesta della commissione d'inchiesta Moro/2 presieduta da Giuseppe Fioroni, il 28 novembre 2016, il reparto investigazioni scientifiche dei carabinieri di Roma ha analizzato una foto recuperata negli archivi del quotidiano Il Messaggero, dove s'intravede una figura, nella scena della strage, che potrebbe essere quella di De Vuono. Tuttavia il rapporto conclude che gli elementi non sono sufficienti per una valutazione.Ma De Vuono, già con consolidata fama di killer spietato, assunse molta notorietà nel maggio 1978, quando i giornali, riferendo dei rapporti di Polizia, indicavano nel calabrese il presunto assassino di Moro. Ciò in base a una prova, i 4 fazzoletti trovati, anche in fase di autopsia, tra camicia e gilet del cadavere del presidente della Dc all'altezza del cuore per tamponare le ferite della prima sequenza di spari, attribuiti a una mitraglietta Skorpion di fabbricazione cecoslovacca e a una pistola Walter Ppk/S. Uno di essi conteneva un'impronta digitale attribuita a De Vuono. Di quei fazzoletti si persero poi le tracce. Un altro elemento importante si delinea nella dichiarazione di don Paolo Fabbri, allievo di don Cesare Curioni, amico personale di Paolo VI e presidente dei cappellani delle carceri italiane, il quale riferì che lo stesso don Curioni, quando vide le fotografie dell'autopsia, disse di aver riconosciuto in Giustino De Vuono il killer di Moro. «So chi è, l'ho conosciuto all'istituto Beccaria di Milano. Si vantava in certi ambienti di uccidere proprio in quel modo, con una rosa di colpi attorno al cuore che risparmiano il muscolo cardiaco». Lo stesso modo con il quale lo statista fu giustiziato, probabilmente in successive fasi, e con un colpo che gli traforò il pollice della mano sinistra, in un istintivo tentativo di ripararsi dalla raffica, che fu improvvisa, dato che nel corpo di Moro gli esami autoptici non rinvennero tracce di adrenalina di morte e ciò testimonierebbe che non gli fosse stata comunicata la sua imminente eliminazione - e fanno pensare anche quelle monete da 50 e 100 lire, 1.950 lire in tutto, trovate in una busta accanto al corpo di Moro. Servivano forse per telefonare, dopo quella che poteva essere un'ipotizzata liberazione del prigioniero? Il giornalista Mino Pecorelli, ucciso il 20 marzo 1979 forse per i segreti che conosceva sul caso Moro, su Op del 16 gennaio 1979 scrisse, con il consueto, sibillino sarcasmo: «Le trattative con le Br ci sarebbero state (…). Qualcuno però non ha mantenuto i patti (…) e le Br avrebbero ucciso il presidente della Dc in macchina. Ma di questo non parleremo, perché è una teoria cervellotica (…). Non diremo che il legionario si chiama «De» (…)». Il «De» starebbe per De Vuono». L'ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, in un'intervista rilasciata nel 2008 a Roberto Arditti dichiarò: «Io ho conosciuto tutti quelli che hanno rapito e custodito Moro. Non conosco quello che lo ha ucciso, che è morto poco tempo fa». Gero Grassi, membro dell'ultima commissione Moro, nel libro Aldo Moro, verità negata (Pegasus, 2018) e in vari interventi su Youtube sospetta fortemente di De Vuono. E Paolo Cucchiarelli, nel volume L'ultima notte di Aldo Moro (Ponte alle Grazie, 2018), anche sulla base di recenti perizie dei Ris, lo indica, seduto accanto a Tony Chichiarelli, il falsario della banda della Magliana indicato come l'autista della Renault 4 amaranto diretta verso il centro di Roma all'alba del 9 maggio 1978, come il principale sparatore su Moro, fatto salire nel sedile posteriore e poi sistemato nel baule.Questa versione, se avvalorata da maggiori prove o indizi - ad esempio andrebbe meglio verificato il fatto che De Vuono, oltre la mitologia che ne è stata fatta, fosse davvero specializzato nel colpire le vittime con una rosa di colpi attorno al cuore - farebbe crollare la verità ufficiale finora data dallo Stato circa l'uccisione di Moro, indicando solo un commando di brigatisti presente in via Fani e come esecutori materiali i Br Mario Moretti e Germano Maccari nel garage di via Montalcini 8. Resta il mistero di Giustino De Vuono, rinnegato dalle Br per questioni di comodo o di impurità ideologica, eterno borderline, finito in un intrigo molto più grande di lui, catturato da polizia cantonale e Interpol italiana il 10 giugno 1981 in Svizzera, a Lucerna e proveniente da San Paolo, Brasile, con un documento intestato al cittadino paraguayano Amincio Dominincio Martinez. Il mese prima, il 5 maggio, alle 11.30, aveva chiesto di parlare al telefono con un redattore del Giorno, dicendo: «Con il sequestro Moro non c'entro un bel niente, non faccio parte di nessun gruppo, ma sto mettendo insieme un gruppo di legionari, ho bombe che fanno un macello». Finì ancora in carcere, a Carinola (Caserta) il 16 marzo 1991. Gli fu concesso un permesso per vedere, ammanettato, la madre morente, a Scigliano. Morì tra le sbarre il 13 novembre 1994, per i postumi di un intervento per aneurisma, e il sindaco di Scigliano conferma che «lo scotennato» è sepolto nella tomba di famiglia del cimitero del paese.