2020-02-02
Dombrovskis usa il deficit dei gialloblù per lodare Pd e M5s (che lo fanno alzare)
Il falco Ue plaude alla riduzione 2019, frutto però della manovra sulla quale sparò a zero. E ignora l’impennata 2020 prevista al 2,4La due giorni romana del vice presidente esecutivo della Commissione Ue, l’ex premier lettone Valdis Dombrovskis, ci ha offerto numerosi spunti degni di attenzione. Già nell’audizione parlamentare di giovedì, come raccontato su queste colonne da Antonio Grizzuti, era stato possibile cogliere la volontà di glissare sui temi più scottanti o, peggio, anche una certa dose impreparazione. Perché pare questa l’ipotesi più benevola nei confronti di chi afferma che l’Italia è stato «percettore netto» di contributi dall’Unione, quando invece siamo storicamente contributori netti.Ma il meglio il commissario ce l’ha riservato nell’intervista a Federico Fubini apparsa sul Corriere della Sera di ieri. Rispondendo alla domanda sulle previsioni di crescita e deficit per il 2020, il lettone sostiene che «il governo si muove entro gli obiettivi di deficit annunciati» (2,2%), ignorando che il Fondo monetario internazionale, e nono solo, prevede il 2,4%. Ma quel livello oggi non appare essere più un problema. Al punto che, glissando la domanda e ignorando il 2020, ritorna sul deficit 2019 che potrebbe attestarsi sotto al 2,2% (forse al 2,1%). Ma, sottolineando il relativo contenimento del deficit 2019, non fa che smascherare la lotta politica che la Commissione stessa condusse in quegli ultimi mesi del 2018, tenendo le Camere bloccate per settimane, e che terminò soltanto il 19 dicembre, con modifiche che portarono la nuova previsione di deficit al 2%. Il ministro Giovanni Tria non riuscì a convincerli che quelle previsioni di bilancio erano prudenziali, soprattutto quelle per misure nuove come il reddito di cittadinanza e quota 100, e che quindi quel 2,4% era un livello che probabilmente non sarebbe nemmeno stato sfiorato. Già a metà 2019, con la legge di assestamento, il governo certificò che soprattutto le maggiori entrate - per la gran parte derivanti da colossali accertamenti fiscali contro grandi gruppi internazionali e dagli interessi sui Btp detenuti da Bankitalia in attuazione del Qe e conseguente versamento di un mega dividendo al Tesoro - avevano messo in sicurezza i conti 2019. Esattamente ciò che Tria aveva spiegato, non creduto, a dicembre 2018. È impressionante la disonestà intellettuale con cui Dombrovskis trascura il deficit del 2020, quello degli amici, proiettato al 2,4%, e sottolinea il contenimento del deficit 2019, quello dei nemici che, invece all’inizio fu a torto definito come il colpo di maglio alla solvibilità del Paese. Se avesse detto allora ciò che ammette ambiguamente oggi, avremmo evitato inutili e costose tensioni sui tassi dei nostri Btp. Se c’era da fare una critica a quel bilancio era al limite la prudenza rispetto a uno scenario internazionale in rapido peggioramento, che avrebbe quindi richiesto l’utilizzo di deficit in funzione anticiclica, com’è stato lasciato fare indisturbatamente alla Francia, sia pure con misure una tantum.Sull’abbrivio, Dombrovskis ha pure l’ardire di ripetere l’ormai vetusta «formula che mondi possa aprirti» (per citare Eugenio Montale) delle «riforme strutturali per spingere la produttività». Ancora riforme dal lato dell’offerta, che ci stanno solo spingendo in una dolorosa spirale di deflazione e sotto occupazione. Nonostante siano ormai passati anni da quando l’economista belga Paul De Grauwe ha spiegato che siamo in una crisi di domanda, e che oggi la scarsa crescita non dipende da rigidità strutturali ma che bisogna rilanciare gli investimenti pubblici, superando gli assurdi limiti del Patto di stabilità e crescita e del Fiscal compact.E proprio sul tema degli investimenti da scorporare dai suddetti limiti, il lettone rinvia alle calende greche della «consultazione pubblica», affermando l’esistenza di due fronti contrapposti e certificando di fatto l’impossibilità di schiodarsi dall’attuale, insostenibile, status quo, malgrado le tenui aperture sbandierate qua e là dal collega Paolo Gentiloni.Sulla riforma del Mes, poi, l’intervista è il trionfo del «sopire, troncare» di manzoniana memoria: il lettone parla di compromesso da raggiungere, nel malcelato tentativo di tenere in piedi un simulacro di posizione negoziale dell’Italia. Peccato che la lettera del presidente dell’Eurogruppo Mario Centeno del 30 gennaio riporti, senza tanti giri di parole, che a marzo ci sarà un’intesa politica definitiva, conforme all’accordo in linea di massima già raggiunto a dicembre. Si discuterà solo di dettagli, la sostanza è già definita. Ma soprattutto Dombrovskis nasconde altri due aspetti, rivelati dallo stesso Centeno:1 Il «pacchetto», tanto decantato dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, contenente Mes, nuovo strumento di bilancio e completamento dell’Unione bancaria, non c’è più, ove mai ci fosse stato. Il Mes è pronto, gli altri due sono in alto mare, tanto che vengono posposti alla conclusione del ciclo istituzionale (2024).2 Centeno fa riferimento a un documento del gruppo di lavoro dell’Eurogruppo che prevede penalizzazioni per le banche con eccessiva concentrazione di titoli di Stato (non casualmente: le nostre ne sono piene), in aperto contrasto con la risoluzione approvata dal Parlamento lo scorso 11 dicembre. Il nostro ministro l’ha fatto notare nella riunione del 20 gennaio?Cambia il tema, ma il metodo sembra essere sempre quello: a Roma si promette una cosa, a Bruxelles se ne fa un’altra e il Parlamento è ridotto a puro ornamento.
Giorgia Meloni ad Ancona per la campagna di Acquaroli (Ansa)
«Nessuno in Italia è oggetto di un discorso di odio come la sottoscritta e difficilmente mi posso odiare da sola. L'ultimo è un consigliere comunale di Genova, credo del Pd, che ha detto alla capogruppo di Fdi «Vi abbiamo appeso a testa in giù già una volta». «Calmiamoci, riportiamo il dibattito dove deve stare». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nel comizio di chiusura della campagna elettorale di Francesco Acquaroli ad Ancona. «C'é un business dell'odio» ha affermato Giorgia Meloni. «Riportiamo il dibattito dove deve stare. Per alcuni è difficile, perché non sanno che dire». «Alcuni lo fanno per strategia politica perché sono senza argomenti, altri per tornaconto personale perché c'e' un business dell'odio. Le lezioni di morale da questi qua non me le faccio fare».
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