Da venerdì 17 giugno è in onda su Amazon The Pogmentary, la docuserie sul calciatore francese pronto a fare ritorno alla Juventus dopo cinque stagioni vissute in Inghilterra nel Manchester United.
Da venerdì 17 giugno è in onda su Amazon The Pogmentary, la docuserie sul calciatore francese pronto a fare ritorno alla Juventus dopo cinque stagioni vissute in Inghilterra nel Manchester United.«Alcune persone sono difficili da amare, altre è facile amarle. È facile amare Paul. Mi chiamo Paul Pogba e gioco al Manchester United, uno dei migliori club al mondo». Parole pronunciate in inglese si mescolano ai suoni rotondi del francese. È buio, e di Pogba non si vede il viso, come se non fosse importante, come se il fulcro dell’intera presentazione non fosse l’immagine fisica del calciatore, la sua prestanza sormontata da treccine cangianti, ma il senso stesso del suo parlare. «Devo prendere delle decisioni importanti, non ho il diritto di sbagliare». La voce è chiara, intransigente. Ma la «Juventus» è assente dal monologo del ventinovenne. Pogba, quel club che lo ha visto diventare uomo, («Ero un ragazzo», ricorda, «Ho segnato il primo gol da professionista contro il Napoli»), non lo nomina. Non direttamente. Non con riferimento esplicito al suo futuro di calciatore. Bianco e nero, nelle cinque puntate di The Pogmentary, su Amazon Prime Video da venerdì 17 giugno, non è un progetto, ma una memoria. Un insegnamento. La consapevolezza di «Non essere una star solo perché lo dici. Diventi una star perché le persone fanno di te una star. Questo è quello che ho capito nel mio periodo alla Juve», racconta il francese nel corso del documentario, una biografia atipica, in cui il futuro è pretesto per raccontare il presente e, attraverso questo, ritornare al passato. The Pogmentary, dove le interviste sono cadenzate da ricostruzioni animate e i ricordi d’infanzia si mescolano alle riflessioni odierne, rappresenta il tentativo di fare del calcio una storia. Non una storia fra tante, ad uso e consumo dei soli appassionati. Una storia come ce ne sono poche, in grado di essere fonte di ispirazione e curiosità anche per chi il calcio, e il Manchester City, Mino Raiola, la Juventus e le congetture future, non le mastica, non le conosce né ha intenzione di farlo. The Pogmentary è una sorta di romanzo a puntate, brevi, come una soglia d’attenzione in costante declino comanda. Racconta la genesi di un campione, strappato alle banlieue da un sogno troppo grande per poter essere ignorato. «Ho lasciato casa a sedici anni, famiglia e amici, ho lasciato la Francia, per andare a Manchester. Avevo una famiglia affidataria, brave persone: mi hanno accolto e fatto sentire benvenuto. Non avevo amici all'inizio, era tutto nuovo. Mi ha fatto crescere: non avevo mamma e papà, ho fatto tutto da solo. L'unico pensiero era giocare bene e diventare un professionista. Dovevo mettermi alla prova e guadagnarmi il rispetto dello spogliatoio», dice Pogba, più «grande» nei suoi ventinove anni di quel che tanti arrivano ad essere una volta passati gli «-anta». La voce, di nuovo, è ferma. Non c’è retorica, quella volontà a tratti nauseante di voler enfatizzare i propri sforzi così da candidarsi al martirio. Nelle parole di Pogba, nelle sue telefonate con Raiola, scomparso a fine aprile, nei dialoghi con l’avvocato Rafaela Pimenta («Una seconda mamma, la mia mamma del business»), risuona unicamente l’eco della determinazione. Ed è questa, di nuovo, a permeare ogni frase pronunciata quando il calcio scompare e il volto del professionista muta per farsi uomo. «Ho scelto la vita, i figli e una famiglia grande. Un giorno, cesserò di essere calciatore, ma sarò per sempre un padre», dice ancora, parlando di sé, dei figli – due, Labile Shakur e Keyaan Zaahid –, del legame con l’uomo che lo ha messo al mondo e ancora ci vive, in quel mondo. «Nel 2016 era molto malato. L'ho tirato fuori da un ospedale in Francia così poteva venire a Manchester. Era importante per me vederlo fino alla fine, quella vera. Mio padre mi disse che per me era importante che venissi sempre prima io, Pogba prima, sempre. Quando abbiamo vinto la Coppa del Mondo, ho guardato alla sua anima perché non era lì di persona. Quando eravamo piccoli avevamo la cassetta della vittoria del 1998, la guardavamo sempre con papà. Mi ha reso orgoglioso vincerla, pensando a lui dissi: “Ho raggiunto il mio sogno, non sei qui, ma ci sei, nel cuore”. L'ho fatto per lui», ricorda il campione, mentre il documentario scorre e con questo la sensazione di essere di fronte ad un esperimento riuscito solo in parte. The Pogmentary non manca di ricostruire un quadro vivido di quel che è stato ed è Pogba, del professionista che sarà. C’è determinazione, ambizione, uno spirito di sacrificio che pare urlare che sì, la volontà possa tutto, o quasi. Ma c’è, anche e soprattutto, un senso di straniamento. Chi il calcio non lo segua, lo spettatore che The Pogmentary avrebbe dovuto includere fra il proprio pubblico, ne rimane escluso, perso fra retroscena – Juventus o Manchester Unitend? – sibillini per chi non sia un appassionato.
Emanuele Orsini (Ansa)
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