True
2024-05-07
Disney+ rilancia il docufilm sui Beatles
True
Let it be, uscito al cinema nel 1970 e divenuto irreperibile poco tempo dopo, sarà disponibile in streaming e in versione restaurata a partire da mercoledì 8 maggio.
Let it be è stato girato nel 1969. Poi, è sparito. Nessuno lo ha visto, nemmeno i Beatles, che, in gruppo, hanno rifiutato di presenziare alla prima cinematografica di quel documentario. Michael Lindsay-Hogg, nel tempo, è arrivato a considerare la propria opera alla stregua di un fallimento, la pietra tombale apposta - suo malgrado - sulla carriera dei Fab Four. «Let it be è noto come una cronaca visiva della rottura. Ma in realtà, l’argomento è completamente diverso», ha provato a spiegare Peter Jackson, raccontando come la propria esperienza di fan e regista cinematografico sia cresciuta al punto da avergli consentito di ravvedersi.
Da averlo spronato a riabilitare il nome disgraziato di Lindsay-Hogg, riprendendone in mano il documentario e portandolo laddove tutti possono vederlo, su Disney+. Let it be, uscito al cinema nel 1970 e divenuto irreperibile poco tempo dopo, sarà disponibile sulla piattaforma del Topolino da mercoledì 8 maggio, in versione restaurata. «Ho sempre pensato che Let It Be fosse necessario per completare la storia di Get Back», ha spiegato Jackson attraverso un comunicato, legando l’iniziativa di restauro e riscatto alla docuserie sui Beatles che ha creato post-Covid, scandagliando l’archivio storico della band. «In quelle tre parti (quelle di Get Back, ndr), abbiamo fatto vedere Michael e i Beatles alle prese con un documentario rivoluzionario, e Let It Be è quel documentario. Ora penso a tutto questo come a un’unica storia epica, finalmente completata dopo cinque decenni. I due progetti si sostengono e si migliorano a vicenda: Let It Be è il climax di Get Back, mentre Get Back fornisce un contesto vitale che mancava a Let It Be. Michael Lindsay-Hogg è stato disponibile e gentile mentre realizzavo Get Back, ed è giusto che il suo film originale abbia l’ultima parola… Sembra e suona molto meglio di quanto non facesse nel 1970», ha chiuso il regista de Il Signore degli Anelli, primo responsabile di una riproposizione che pare più una rinascita. Let it be, negli anni, è stato descritto come la cronaca della fine. Seguiva i ragazzi di Liverpool, inquieti e tristi. Ne documentava le litigate, gli ardori, la rabbia inquieta di quei giorni. Ne presagiva l’addio, senza riuscire, però, a coglierne le cause. E così, ingombrante e inutile, usciva in sala. Usciva a maggio del 1970, quando l’annuncio della separazione era ormai cosa reale. Quando nessuno, nemmeno i Beatles in persona, pareva in grado di spiegare perché si fosse arrivati a tanto. Let it be, incapace come chiunque altri di indagare le ragioni della fine, è stato visto solo come un prodotto scalognato, da avversare ed evitare.
Nessuno si è premurato di andare oltre l’apparenza e il pregiudizio. Nessuno, ma Peter Jackson.Il regista, cui nel 2020 è stato chiesto di realizzare la docuserie Get Back, nel tentativo di ricostruire e spiegare al meglio la band e la sua parabola, ha visto nel documentario di Lindsay-Hogg ben altro: lo spirito della realtà, il cameratismo di quattro ragazzi che non hanno condiviso solo litigate e dissapori, ma risate e spensieratezza. Let it be, nella visione di Jackson, è la gioia dell’esistenza, di una bellezza che si manifesta anche nell’alternarsi spesso convulso degli alti e dei bassi. Ed è così che Disney ha deciso di riproporlo, non pensando a quello che il docu avrebbe dovuto fare (luce sulla fine), ma esaltando quello che ha fatto: ammettere che nemmeno uno fra i Beatles ha saputo presagire e combattere quello che poi sarebbe successo.
Continua a leggereRiduci
Let it be, uscito al cinema nel 1970 e divenuto irreperibile poco tempo dopo, sarà disponibile in streaming e in versione restaurata a partire da mercoledì 8 maggio.Let it be è stato girato nel 1969. Poi, è sparito. Nessuno lo ha visto, nemmeno i Beatles, che, in gruppo, hanno rifiutato di presenziare alla prima cinematografica di quel documentario. Michael Lindsay-Hogg, nel tempo, è arrivato a considerare la propria opera alla stregua di un fallimento, la pietra tombale apposta - suo malgrado - sulla carriera dei Fab Four. «Let it be è noto come una cronaca visiva della rottura. Ma in realtà, l’argomento è completamente diverso», ha provato a spiegare Peter Jackson, raccontando come la propria esperienza di fan e regista cinematografico sia cresciuta al punto da avergli consentito di ravvedersi. Da averlo spronato a riabilitare il nome disgraziato di Lindsay-Hogg, riprendendone in mano il documentario e portandolo laddove tutti possono vederlo, su Disney+. Let it be, uscito al cinema nel 1970 e divenuto irreperibile poco tempo dopo, sarà disponibile sulla piattaforma del Topolino da mercoledì 8 maggio, in versione restaurata. «Ho sempre pensato che Let It Be fosse necessario per completare la storia di Get Back», ha spiegato Jackson attraverso un comunicato, legando l’iniziativa di restauro e riscatto alla docuserie sui Beatles che ha creato post-Covid, scandagliando l’archivio storico della band. «In quelle tre parti (quelle di Get Back, ndr), abbiamo fatto vedere Michael e i Beatles alle prese con un documentario rivoluzionario, e Let It Be è quel documentario. Ora penso a tutto questo come a un’unica storia epica, finalmente completata dopo cinque decenni. I due progetti si sostengono e si migliorano a vicenda: Let It Be è il climax di Get Back, mentre Get Back fornisce un contesto vitale che mancava a Let It Be. Michael Lindsay-Hogg è stato disponibile e gentile mentre realizzavo Get Back, ed è giusto che il suo film originale abbia l’ultima parola… Sembra e suona molto meglio di quanto non facesse nel 1970», ha chiuso il regista de Il Signore degli Anelli, primo responsabile di una riproposizione che pare più una rinascita. Let it be, negli anni, è stato descritto come la cronaca della fine. Seguiva i ragazzi di Liverpool, inquieti e tristi. Ne documentava le litigate, gli ardori, la rabbia inquieta di quei giorni. Ne presagiva l’addio, senza riuscire, però, a coglierne le cause. E così, ingombrante e inutile, usciva in sala. Usciva a maggio del 1970, quando l’annuncio della separazione era ormai cosa reale. Quando nessuno, nemmeno i Beatles in persona, pareva in grado di spiegare perché si fosse arrivati a tanto. Let it be, incapace come chiunque altri di indagare le ragioni della fine, è stato visto solo come un prodotto scalognato, da avversare ed evitare.Nessuno si è premurato di andare oltre l’apparenza e il pregiudizio. Nessuno, ma Peter Jackson.Il regista, cui nel 2020 è stato chiesto di realizzare la docuserie Get Back, nel tentativo di ricostruire e spiegare al meglio la band e la sua parabola, ha visto nel documentario di Lindsay-Hogg ben altro: lo spirito della realtà, il cameratismo di quattro ragazzi che non hanno condiviso solo litigate e dissapori, ma risate e spensieratezza. Let it be, nella visione di Jackson, è la gioia dell’esistenza, di una bellezza che si manifesta anche nell’alternarsi spesso convulso degli alti e dei bassi. Ed è così che Disney ha deciso di riproporlo, non pensando a quello che il docu avrebbe dovuto fare (luce sulla fine), ma esaltando quello che ha fatto: ammettere che nemmeno uno fra i Beatles ha saputo presagire e combattere quello che poi sarebbe successo.
Da sx in alto: americani della 92ª Divisione, alpini della Divisione «Monterosa», paracadutisti tedeschi e la frazione di Sommocolonia oggi. Garfagnana, 26 dicembre 1944
La battaglia della Garfagnana, nota come Operazione «Wintergewitter» (tempesta invernale) fu l’ultima controffensiva delle forze dell’Asse sul fronte italiano. Iniziò la notte tra Natale e Santo Stefano del 1944 per terminare tre giorni più tardi. L’obiettivo, pur presentando scarse se non nulle possibilità di raggiungerlo, era quello di arrestare l’avanzata alleata lungo il fronte della linea Gotica allora in stallo per l’inverno rallentando l’avanzata degli angloamericani che puntavano verso Bologna e la Pianura Padana. Il teatro delle operazioni fu la valle del Serchio nella Garfagnana, in provincia di Lucca, dove gli americani del 92° Infantry Regiment, i famosi «Buffalo Soldiers» a maggioranza afroamericana, si erano acquartierati nei giorni precedenti al Natale, ritenendo le ostilità in pausa. L’effetto sorpresa era proprio il punto cardine dell’operazione pianificata dal comando tedesco guidato dal generale Otto Fretter-Pico. Le forze dell’Asse consistevano sostanzialmente di reparti da montagna, i «Gebirgsjaeger» tedeschi e gli alpini italiani della Divisione «Monterosa», uno dei primi reparti addestrati in Germania dopo la nascita della Repubblica Sociale. L’attacco fu fissato per la mezzanotte, tra il 25 e il 26 dicembre e procedette speditamente. I reparti speciali tedeschi e gli alpini iniziarono una manovra di accerchiamento da Montebono per Bobbio, Tiglio e Pian di Coreglia, mentre un reparto leggero prendeva in poche ore Sommocolonia. Contemporaneamente tutti i reparti si muovono, compreso un nucleo del Battaglione «San Marco», che in poco tempo occupava Molazzana. Entro la sera di Santo Stefano la linea dei Buffalo Soldiers era sfondata, mentre i reparti americani arretravano in massa. I prigionieri erano circa 250, mentre numerose armi e munizioni venivano requisite. Anche vettovaglie e generi di conforto cadevano nelle mani degli attaccanti.
Gli americani praticamente non reagirono, ma si spostarono in massa verso la linea difensiva di Bagni di Lucca. Per un breve tempo sembrò (soprattutto agli italiani, mentre i tedeschi sembravano paghi della riuscita sorpresa) che il fronte potesse cedere fino in Versilia e verso Livorno. L’ordine di Fretter-Pico di arrestare l’avanzata fu una doccia fredda. Le ragioni dell'arresto risiedevano principalmente nella difficoltà di mantenere le posizioni, la scarsità ormai cronica di uomini e munizioni (c’era solo l’artiglieria, nessun carro armato e soprattutto nessun supporto dall’Aviazione, praticamente sparita dai cieli del Nord Italia). Gli americani invece avevano il dominio assoluto del cielo, con i cacciabombardieri che potevano decollare dai vicini aeroporti della Toscana occupata, come quelli di Grosseto e Rosignano. Tra il 27 e il 30 dicembre 1944 i P-47 Thunderbolt dell’Usaf bombardarono a tappeto, mietendo vittime soprattutto tra la popolazione civile. La linea difensiva dell’Asse ritornò nei giorni successivi alle posizioni di partenza, mentre il fronte si assestava fino all’inizio del febbraio 1945 quando gli alleati lanciarono l’operazione «Fourth Term», che portò in pochi giorni alla conquista della Garfagnana. Durante l’operazione «Wintergewitter» lo scontro più violento si verificò nell’abitato di Sommocolonia dove la guarnigione americana perse quasi tutti gli uomini, compreso il proprio comandante tenente John R. Fox che, vistosi ormai circondato dai tedeschi, chiese all’artiglieria della 92ª di sparare sull’abitato nel tentativo disperato di rallentare l’attacco a sorpresa. Morì sotto le macerie della sua postazione e solamente nel 1997 fu insignito della medaglia d’onore.
Continua a leggereRiduci
Lee Raybon avrebbe ambizioni da detective. Non da investigatore tout court. Piuttosto, vorrebbe essere un reporter, di quelli capaci - forti solo delle proprie risorse - di portare a termine indagini e inchieste, di dar forma alle notizie prima ancora che queste vengano diffuse dalle autorità competenti.
L'ambizione, tuttavia, è rimasta tale, nel corso di un'esistenza che ha costretto Raybon a ripiegare su altro per il mero sostentamento. Si è reinventato libraio, Lee Raybon, gestendo di giorno un negozio di libri rari. La notte, però, ha continuato a seguire il cuore, dando spazio alle sue indagini scalcagnate. Qualcuna è riuscito a trasformarla in articolo di giornale, venendola alle pagine di cronaca locale di Tulsa, città che ospita il racconto. E sono i pezzi ritagliati, insieme ai libri ormai giallognoli, ad affollare l'apportamento di Raybon, che la moglie ha mollato su due piedi, quando ben ha realizzato che non ci sarebbe stato spazio per altro nella vita di quell'uomo. Raybon, dunque, è rimasto solo. Non solo come il crime, per lo più, ha raccontato i suoi detective. Non è, cioè, una solitudine disperata, quella di Raybon. Non c'è tristezza né emarginazione. C'è passione, invece: quella per un mestiere cui anche la figlia dell'uomo sembra guardare con grande interesse.
Francis, benché quattordicenne, ha sviluppato per il secondo mestiere del padre una curiosità quasi morbosa, in nome della quale ha cominciato a seguirlo in ogni dove, partecipando lei pure alle indagini. Cosa, questa, che si ostina a fare anche quando la situazione diventa insolitamente complicata. Lee Raybon ha messo nel mirino i Washberg, una tra le famiglie più potenti di Tulsa. Ma uno di loro, Dale, si è tolto la vita, quando l'articolo di Raybon sulle faccende losche della dinastia è stato pubblicato su carta. Perché, però? Quali segreti nascondo i Washberg? Le domande muovono la nuova indagine di Raybon, la sostanziano. E, attorno alla ricerca di risposte, si dipana The Lowdon, riuscendo a bilanciare l'irrequietezza del suo protagonista, il suo cinismo, con il racconto di una dinamica familiare di solito estranea al genere crime.
Continua a leggereRiduci
Secondo i calcoli di Facile.it, il 2025 si chiuderà con un calo di circa 50 euro per la rata mensile di un mutuo variabile standard, scesa da 666 euro di inizio anno a circa 617 euro. Un movimento coerente con il progressivo rientro delle componenti di costo indicizzate (Euribor) e con l’aspettativa di stabilizzazione di breve periodo.
Sul versante dei mutui a tasso fisso, il 2025 è stato invece caratterizzato da un lieve aumento dei costi per i nuovi mutuatari, in larga parte legato alla risalita dell’indice IRS (il riferimento tipico per i fissi). A gennaio 2025 l’IRS a 25 anni è stato in media pari a 2,4%; nell’ultimo mese è arrivato al 3,1%. L’effetto, almeno parziale, si è trasferito sulle nuove offerte: per un finanziamento standard la rata risulta oggi più alta di circa 40 euro rispetto a inizio anno.
«Il 2025 è stato un anno positivo sul fronte dei tassi dei mutui: i variabili sono scesi a seguito dei tagli della Bce, mentre i fissi, seppur in lieve aumento, offrono comunque buone condizioni per chi vuole tutelarsi da possibili futuri aumenti di rata. Oggi, quindi, l’aspirante mutuatario può godere di un’ampia offerta di soluzioni: scegliere il tasso variabile significa partire con una rata più contenuta, ma il vantaggio economico iniziale può essere ritenuto da molti ancora non sufficiente per giustificare il rischio connesso a questo tipo di finanziamento. Per chi non è disposto a rischiare, invece, i fissi garantiscono comunque condizioni favorevoli, oltre alla certezza che la rata resti uguale per tutte la durata del mutuo. Non esiste in assoluto una soluzione giusta o sbagliata, la scelta va presa da ciascun richiedente secondo le proprie caratteristiche; un consulente esperto può essere d’aiuto per valutare pregi e difetti di ciascuna proposta e identificare quella più adatta», spiegano gli esperti di Facile.it
Guardando in avanti, un’indicazione operativa sui variabili arriva dai Futures sugli Euribor (aggiornati al 10 dicembre 2025): per il 2026 non vengono prezzate grandi variazioni. L’Euribor a 3 mesi, oggi sotto il 2,1%, è atteso su livelli simili anche nel prossimo anno.
«In questo momento il mercato non prevede ulteriori tagli da parte della BCE nel 2026 e al netto di qualche piccola oscillazione al rialzo verso fine anno, nei prossimi 12 mesi le rate dovrebbero rimanere tendenzialmente stabili», continuano gli esperti di Facile.it
Lo snodo resta l’inflazione: se dovesse tornare ad accelerare, non si potrebbero escludere nuove mosse restrittive della Bce, con un impatto immediato sugli indici e quindi sulle rate dei variabili. Più difficile, invece, «leggere» i fissi: finché i rendimenti dei titoli europei resteranno in salita, è complicato immaginare una traiettoria diversa per gli Irs e, a cascata, per i mutui collegati.
Per chi deve scegliere adesso, lo scenario è nettamente diverso rispetto a inizio anno. Nel 2025, il tasso variabile è tornato mediamente più conveniente. Secondo l’analisi** di Facile.it sulle migliori offerte online, per un mutuo da 126.000 euro in 25 anni (LTV 70%) i variabili partono da un TAN del 2,54%, con rata di 554,5 euro. A parità di profilo, i fissi partono da un TAN del 3,10%, con rata di 604 euro: circa 50 euro in più al mese.
«Scegliere oggi un tasso variabile significa partire con una rata più contenuta, ma il vantaggio economico iniziale può essere ritenuto da molti ancora non sufficiente per giustificare il rischio connesso a questo tipo di finanziamento. Per chi non è disposto a rischiare, invece, i fissi garantiscono comunque condizioni favorevoli, oltre alla certezza che la rata resti uguale per tutte la durata del mutuo. Non esiste in assoluto una soluzione giusta o sbagliata, la scelta va presa da ciascun richiedente secondo le proprie caratteristiche; un consulente esperto può essere d’aiuto per valutare pregi e difetti di ciascuna proposta e identificare quella più adatta», concludono gli esperti di Facile.it.
Continua a leggereRiduci
Brahim Diaz esulta dopo aver segnato un gol durante la partita inaugurale della 35ª Coppa d'Africa tra Marocco e Comore allo stadio Prince Moulay Abdellah di Rabat (Getty Images)
Serve a spostare l’immaginario: non più periferia, non più frontiera, ma piattaforma. Il governo marocchino non lo nasconde. «La Coppa d’Africa è una prova generale per il Mondiale 2030 e un simbolo della nostra capacità di organizzare eventi globali con standard elevati», ha dichiarato recentemente un portavoce del governo di Rabat, sottolineando l’utilizzo dello sport come leva di soft power e di consolidamento di immagine internazionale. Il re Mohammed VI ha insistito pubblicamente sul ruolo dello sport come strumento di dialogo e cooperazione regionale, definendo iniziative come Afcon e il Mondiale 2030 parte integrante della «strategia marocchina di apertura e modernizzazione». Questa visione è stata ripresa anche dai media di Stato come elemento di legittimazione politica e di promozione dell’identità nazionale. I numeri aiutano a capire la traiettoria. Il Marocco conta oggi circa 37 milioni di abitanti e una crescita demografica relativamente contenuta dell’1 per cento annuo circa, molto più bassa rispetto a molte economie subsahariane.
Questo rallentamento demografico consente una pianificazione a medio-lungo termine più sostenibile. Sul piano economico, il pil ha superato i 140 miliardi di dollari nel 2023, con un pil pro capite attorno ai 3.700 dollari, superiore a molti Paesi dell’Africa subsahariana e stabile negli ultimi anni. Il calcio entra qui. La Coppa d’Africa diventa una vetrina perché cade in un momento preciso. Il Paese è nel pieno di un ciclo di investimenti pubblici legati a grandi eventi. Strade, aeroporti, linee ferroviarie ad alta velocità, stadi. Secondo stime ufficiali, tra infrastrutture sportive e opere collegate il Marocco ha messo sul piatto investimenti nell’ordine di oltre 21 miliardi di dirham — quasi 2 miliardi di euro — per modernizzare stadi e città in vista di Afcon 2025 e del Mondiale 2030. Questa spinta è percepita anche a livello diplomatico.
Nel corso degli ultimi anni Rabat ha promosso nuove alleanze economiche in Africa occidentale, con piani di investimento in energia, telecomunicazioni e infrastrutture. La Coppa d’Africa è intesa come un elemento di “soft power” che attraversa i confini: non solo uno spettacolo sportivo, ma un’occasione per creare reti di relazioni, far visita a delegazioni internazionali e mostrare un’immagine di stabilità e apertura. Il messaggio è rivolto prima di tutto al continente africano. Il Marocco si propone come modello alternativo: africano per storia e geografia, ma sempre più occidentale per governance, modelli economici e partner strategici. “Lo sport è parte integrante della nostra politica estera e interna”, ha detto un consigliere politico marocchino parlando della Coppa d’Africa come di un evento che rafforza l’influenza regionale di Rabat. La Coppa d’Africa serve anche a rafforzare una narrativa interna. Il Paese viene da anni di riforme graduali, non sempre popolari, tra cui la promozione di miglioramenti nei servizi pubblici. Il consenso passa anche dalla capacità di offrire orgoglio nazionale e visibilità internazionale.
Dopo il quarto posto al Mondiale 2022, la nazionale è diventata un moltiplicatore emotivo, un simbolo di successo collettivo. Ma non mancano le critiche. In un anno segnato da proteste giovanili e richieste di maggiori investimenti in sanità ed educazione, alcuni osservatori ricordano che infrastrutture sportive e servizi sociali competono per risorse limitate. «Vogliamo ospedali, non stadi» è stato lo slogan di manifestazioni che hanno investito diverse città marocchine nei mesi scorsi, sottolineando il rischio di disallineamento tra spesa per eventi e bisogni sociali. Nel contesto internazionale il torneo assume un ulteriore significato. La Coppa d’Africa 2025 arriva pochi anni prima del Mondiale 2030, che il Marocco ospiterà insieme a Spagna e Portogallo. Non come semplice partecipante, ma come Paese co-organizzatore, una delle prime volte che un Paese africano riveste questo ruolo congiunto nel calcio globale. Il Marocco conta di vincere la Coppa D'Africa. Il risultato sportivo conterà. Ma conterà meno del messaggio lasciato. Rabat vuole usare il calcio per ribadire che il centro può spostarsi, che l’Africa non è solo luogo di risorse e problemi, ma anche piattaforma, regia e snodo geopolitico. E nel 2030, quando il mondo guarderà lo stesso pallone rimbalzare tra Europa e Africa, quella storia sarà già stata scritta.
Continua a leggereRiduci