
Let it be, uscito al cinema nel 1970 e divenuto irreperibile poco tempo dopo, sarà disponibile in streaming e in versione restaurata a partire da mercoledì 8 maggio.Let it be è stato girato nel 1969. Poi, è sparito. Nessuno lo ha visto, nemmeno i Beatles, che, in gruppo, hanno rifiutato di presenziare alla prima cinematografica di quel documentario. Michael Lindsay-Hogg, nel tempo, è arrivato a considerare la propria opera alla stregua di un fallimento, la pietra tombale apposta - suo malgrado - sulla carriera dei Fab Four. «Let it be è noto come una cronaca visiva della rottura. Ma in realtà, l’argomento è completamente diverso», ha provato a spiegare Peter Jackson, raccontando come la propria esperienza di fan e regista cinematografico sia cresciuta al punto da avergli consentito di ravvedersi. Da averlo spronato a riabilitare il nome disgraziato di Lindsay-Hogg, riprendendone in mano il documentario e portandolo laddove tutti possono vederlo, su Disney+. Let it be, uscito al cinema nel 1970 e divenuto irreperibile poco tempo dopo, sarà disponibile sulla piattaforma del Topolino da mercoledì 8 maggio, in versione restaurata. «Ho sempre pensato che Let It Be fosse necessario per completare la storia di Get Back», ha spiegato Jackson attraverso un comunicato, legando l’iniziativa di restauro e riscatto alla docuserie sui Beatles che ha creato post-Covid, scandagliando l’archivio storico della band. «In quelle tre parti (quelle di Get Back, ndr), abbiamo fatto vedere Michael e i Beatles alle prese con un documentario rivoluzionario, e Let It Be è quel documentario. Ora penso a tutto questo come a un’unica storia epica, finalmente completata dopo cinque decenni. I due progetti si sostengono e si migliorano a vicenda: Let It Be è il climax di Get Back, mentre Get Back fornisce un contesto vitale che mancava a Let It Be. Michael Lindsay-Hogg è stato disponibile e gentile mentre realizzavo Get Back, ed è giusto che il suo film originale abbia l’ultima parola… Sembra e suona molto meglio di quanto non facesse nel 1970», ha chiuso il regista de Il Signore degli Anelli, primo responsabile di una riproposizione che pare più una rinascita. Let it be, negli anni, è stato descritto come la cronaca della fine. Seguiva i ragazzi di Liverpool, inquieti e tristi. Ne documentava le litigate, gli ardori, la rabbia inquieta di quei giorni. Ne presagiva l’addio, senza riuscire, però, a coglierne le cause. E così, ingombrante e inutile, usciva in sala. Usciva a maggio del 1970, quando l’annuncio della separazione era ormai cosa reale. Quando nessuno, nemmeno i Beatles in persona, pareva in grado di spiegare perché si fosse arrivati a tanto. Let it be, incapace come chiunque altri di indagare le ragioni della fine, è stato visto solo come un prodotto scalognato, da avversare ed evitare.Nessuno si è premurato di andare oltre l’apparenza e il pregiudizio. Nessuno, ma Peter Jackson.Il regista, cui nel 2020 è stato chiesto di realizzare la docuserie Get Back, nel tentativo di ricostruire e spiegare al meglio la band e la sua parabola, ha visto nel documentario di Lindsay-Hogg ben altro: lo spirito della realtà, il cameratismo di quattro ragazzi che non hanno condiviso solo litigate e dissapori, ma risate e spensieratezza. Let it be, nella visione di Jackson, è la gioia dell’esistenza, di una bellezza che si manifesta anche nell’alternarsi spesso convulso degli alti e dei bassi. Ed è così che Disney ha deciso di riproporlo, non pensando a quello che il docu avrebbe dovuto fare (luce sulla fine), ma esaltando quello che ha fatto: ammettere che nemmeno uno fra i Beatles ha saputo presagire e combattere quello che poi sarebbe successo.
Nadia e Aimo Moroni
Prima puntata sulla vita di un gigante della cucina italiana, morto un mese fa a 91 anni. È da mamma Nunzia che apprende l’arte di riconoscere a occhio una gallina di qualità. Poi il lavoro a Milano, all’inizio come ambulante e successivamente come lavapiatti.
È mancato serenamente a 91 anni il mese scorso. Aimo Moroni si era ritirato oramai da un po’ di tempo dalla prima linea dei fornelli del locale da lui fondato nel 1962 con la sua Nadia, ovvero «Il luogo di Aimo e Nadia», ora affidato nelle salde mani della figlia Stefania e dei due bravi eredi Fabio Pisani e Alessandro Negrini, ma l’eredità che ha lasciato e la storia, per certi versi unica, del suo impegno e della passione dedicata a valorizzare la cucina italiana, i suoi prodotti e quel mondo di artigiani che, silenziosi, hanno sempre operato dietro le quinte, merita adeguato onore.
Franz Botrè (nel riquadro) e Francesco Florio
Il direttore di «Arbiter» Franz Botrè: «Il trofeo “Su misura” celebra la maestria artigiana e la bellezza del “fatto bene”. Il tema di quest’anno, Winter elegance, grazie alla partnership di Loro Piana porterà lo stile alle Olimpiadi».
C’è un’Italia che continua a credere nella bellezza del tempo speso bene, nel valore dei gesti sapienti e nella perfezione di un punto cucito a mano. È l’Italia della sartoria, un’eccellenza che Arbiter celebra da sempre come forma d’arte, cultura e stile di vita. In questo spirito nasce il «Su misura - Trofeo Arbiter», il premio ideato da Franz Botrè, direttore della storica rivista, giunto alla quinta edizione, vinta quest’anno da Francesco Florio della Sartoria Florio di Parigi mentre Hanna Bond, dell’atelier Norton & Sons di Londra, si è aggiudicata lo Spillo d’Oro, assegnato dagli studenti del Master in fashion & luxury management dell’università Bocconi. Un appuntamento, quello del trofeo, che riunisce i migliori maestri sarti italiani e internazionali, protagonisti di una competizione che è prima di tutto un omaggio al mestiere, alla passione e alla capacità di trasformare il tessuto in emozione. Il tema scelto per questa edizione, «Winter elegance», richiama l’eleganza invernale e rende tributo ai prossimi Giochi olimpici di Milano-Cortina 2026, unendo sport, stile e territorio in un’unica narrazione di eccellenza. A firmare la partnership, un nome che è sinonimo di qualità assoluta: Loro Piana, simbolo di lusso discreto e artigianalità senza tempo. Con Franz Botrè abbiamo parlato delle origini del premio, del significato profondo della sartoria su misura e di come, in un mondo dominato dalla velocità, l’abito del sarto resti l’emblema di un’eleganza autentica e duratura.
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A rischiare di cadere nella trappola dei «nuovi» vizi anche i bambini di dieci anni.
Dopo quattro anni dalla precedente edizione, che si era tenuta in forma ridotta a causa della pandemia Covid, si è svolta a Roma la VII Conferenza nazionale sulle dipendenze, che ha visto la numerosa partecipazione dei soggetti, pubblici e privati del terzo settore, che operano nel campo non solo delle tossicodipendenze da stupefacenti, ma anche nel campo di quelle che potremmo definire le «nuove dipendenze»: da condotte e comportamenti, legate all’abuso di internet, con giochi online (gaming), gioco d’azzardo patologico (gambling), che richiedono un’attenzione speciale per i comportamenti a rischio dei giovani e giovanissimi (10/13 anni!). In ordine alla tossicodipendenza, il messaggio unanime degli operatori sul campo è stato molto chiaro e forte: non esistono droghe leggere!
Messi in campo dell’esecutivo 165 milioni nella lotta agli stupefacenti. Meloni: «È una sfida prioritaria e un lavoro di squadra». Tra le misure varate, pure la possibilità di destinare l’8 per mille alle attività di prevenzione e recupero dei tossicodipendenti.
Il governo raddoppia sforzi e risorse nella lotta contro le dipendenze. «Dal 2024 al 2025 l’investimento economico è raddoppiato, toccando quota 165 milioni di euro» ha spiegato il premier Giorgia Meloni in occasione dell’apertura dei lavori del VII Conferenza nazionale sulle dipendenze organizzata dal Dipartimento delle politiche contro la droga e le altre dipendenze. Alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a cui Meloni ha rivolto i suoi sentiti ringraziamenti, il premier ha spiegato che quella contro le dipendenze è una sfida che lo Stato italiano considera prioritaria». Lo dimostra il fatto che «in questi tre anni non ci siamo limitati a stanziare più risorse, ci siamo preoccupati di costruire un nuovo metodo di lavoro fondato sul confronto e sulla condivisione delle responsabilità. Lo abbiamo fatto perché siamo consapevoli che il lavoro riesce solo se è di squadra».





