2022-04-29
Dipingono di nero anche il Mussolini «verde»
Benito Mussolini (Getty Images)
Un saggio racconta le politiche ecologiche del fascismo, non senza faziosità: il Regime costruì parchi e salvò gli orsi? «Un caso». Ma l’accusa principale è filosofica: aver proposto un ambientalismo che valorizzasse, anziché colpevolizzare, l’operato umano.La storiografia più ideologizzata sul fascismo è, da sempre, una efficace cartina di tornasole delle mode intellettuali del momento, in cui il Regime è solo il «negativo» del pensiero di volta in volta dominante. Così, quando imperversava il marxismo, non c’era testo che mancasse di sottolineare come Benito Mussolini fosse stato uno strumento del grande capitale. Negli ultimi anni, con l’avvento della sinistra intersezionalista, il capo d’accusa è cambiato: il fascismo, ora, è tacciato soprattutto di essere stato patriarcale e razzista. Vista l’aria «green» che tira, era solo questione di tempo prima che qualcuno accusasse il Duce di essere un inquinatore e uno sfruttatore del pianeta. Con la pubblicazione di La natura del duce. Una storia ambientale del fascismo, di Marco Armiero, Roberta Biasillo e Wilko Graf von Hardenberg (Einaudi), ci siamo arrivati. Il saggio è un perfetto esempio della nuova storiografia: gergo sociologico tra Foucault e la posta del cuore di Internazionale e livore ideologico invadente (il saggio è dedicato «agli antifascisti e alle antifasciste di ieri, di oggi e di domani»). Ciononostante, tra le pieghe della faziosità, ne La natura del duce si trovano dati di un certo interesse. Solo che, quando i successi del Regime sono troppo plateali per essere negati, gli autori del libro se la cavano dicendo che furono casuali. Dei cinque parchi nazionali storici istituiti prima della legge quadro del 1991, per esempio, quattro (Gran Paradiso, Abruzzo, Circeo e Stelvio) vennero istituiti dal fascismo e uno (Calabria) fu lo sviluppo di un’idea del gerarca Michele Bianchi. Ma, spiegano gli autori del saggio, «fu sostanzialmente un caso che a farli nascere sia stata la firma di Mussolini». La caccia invernale all’orso fu vietata dalla legge venatoria del 1923 e il numero di orsi uccisi negli anni successivi venne dimezzato? «È difficile valutare se questo fosse dovuto a un successo delle politiche fasciste piuttosto che a una crescente scarsità di orsi da cacciare». In altri casi, alcune mosse palesemente azzeccate del fascismo vengono liquidate come inspiegabili parentesi. Nel 1939, ad esempio, su impulso di Giuseppe Bottai, venne varata la nuova legge sulla tutela dei paesaggi e della natura che gli stessi autori del libro non possono negare di apprezzare, definendola però «una tarda eccezione». Stessa cosa per il divieto totale di caccia e il monitoraggio della quaglia tra il 1934 e il 1936, definito nel saggio «raro esperimento di autentica tutela basato su solidi presupposti tecnico-scientifici». Quanto, poi, alle politiche di riciclo e ricerca di fonti alternative che, come ha mostrato Marino Ruzzenenti in L’autarchia verde (Jaca book), spesso anticiparono le soluzioni della green economy, Armiero, Biasillo e Graf von Hardenberg sono costretti ad ammettere a denti stretti: «Non vogliamo negare che alcuni discorsi dell’autarchia, specie quelli sul risparmio e la lotta agli sprechi, possano risuonare familiari alle orecchie ecologiste di oggi». Ma «quello che conta non è quanto verdi siano stati i fascisti ma quale tipo di relazioni socioecologiche mirassero a instaurare. Non sprecare non porta necessariamente a una società più giusta o ecologicamente sostenibile». Insomma, poiché i fascisti furono fascisti, avevano torto anche quando avevano ragione. Sarebbe come dire che, siccome l’Urss era una società da incubo, l’impresa di Yuri Gagarin non fu un’incredibile conquista scientifica. Ma è in sede filosofica che il libro si dimostra maggiormente interessante. «Come storici», scrivono gli autori all’inizio del volume, «ci sembra molto problematico pensare all’ambientalismo come una categoria metastorica, sempre uguale nel tempo, come se esistesse da qualche parte un decalogo del bravo ecologista, immutabile, in base al quale misurare quanto verde sia stato un dato regime o personaggio storico». In realtà, è esattamente quello che faranno in tutto il saggio: mostrare come le politiche fasciste sulla natura non rientrino sotto l’ombrello del «vero ambientalismo». Dove quest’ultimo è ovviamente il fanatismo reazionario, moralistico, anti umano in auge in questi anni, ovvero l’idea che il compito dell’uomo sia «toccare» il meno possibile e rispettare una «natura» ingenuamente pensata come ambiente non antropizzato. Il fascismo, ovviamente, si poneva agli antipodi di una simile visione. Nel discorso del 30 ottobre 1926 a Reggio Emilia, definito dagli studiosi «la sintesi del manifesto fascista sulla natura», Mussolini disse: «Bisogna che noi creiamo; noi di questa epoca e di questa generazione, perché a noi spetta il rendere, vi dico, in dieci anni irriconoscibile fisicamente e spiritualmente il volto della Patria. Fra dieci anni, o camerati, l’Italia sarà irriconoscibile! Noi l’avremo trasformata, ne avremo fatta un’altra, dalle montagne che avremo ricoperte della loro necessaria chioma verde, ai campi, che avremo completamente bonificato, alle ferrovie che avremo aumentate, ai porti che avremo attrezzati, perché l’Italia deve ritrovare la sua anima marinara». Quella di Mussolini erano chiaramente una ecologia interventista, cosa che per gli autori del saggio sembra essere il peggiore dei mali: «Sembra chiaro», scrivono, «che quella di Mussolini non era certo una celebrazione della natura in quanto tale, magari in qualche forma vera o immaginaria di wilderness. La natura che piace al duce e ai fascisti è piuttosto una natura fascista nel senso storico della parola, ovvero una natura creata dal regime e asservita al suo disegno. Sono foreste e campi fascisti quelli che immagina Mussolini quando descrive il volto nuovo della patria; non a caso in quel discorso insieme a foreste e campi sottratti alle paludi, Mussolini cita anche ferrovie e porti: il volto nuovo della patria fascista è fatto di natura e tecnologia». Ferrovie al posto di paludi, che orrore. I tre studiosi non riescono a nascondere il loro disprezzo per un modello ambientale che mostrava di «preferire la bonifica alla protezione, gli agroecosistemi sapientemente costruiti da generazioni di contadini al paesaggio lasciato a se stesso. Il corollario di questa impostazione era che alla celebrazione della “natura” dovesse accompagnarsi la celebrazione degli umani che quella natura producevano con il loro lavoro e modo di vita». In questa indignazione verso chi preferisce i contadini che modificano il paesaggio di generazione in generazione alle zanzare che «naturalmente» infestano un acquitrino sta tutta la follia dell’ecologia contemporanea (e antifà).
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 12 settembre con Flaminia Camilletti