2018-04-10
Addio al limite del doppio mandato: il M5s dà la pistola carica a Di Maio
Al raduno di Ivrea cade il tabù più qualificante: via libera alla ricandidatura degli eletti. Un modo per evitare gli «acquisti» di deputati e dare potere contrattuale al capo politico. Che ieri ha litigato ancora con Matteo Salvini. Il problema è trovare la legge che (almeno questa volta) faccia governare chi vince. Per superare il Rosatellum, o maggioritario puro o un Porcellum con premio al vincitore. Restano il nodo coalizioni e il rebus Colle. Le amministrative entrano nella partita sul nuovo esecutivo. Alle urne in tre Regioni e 20 capoluoghi. Leghisti e grillini puntano a rimarcare la propria crescita conquistando Friuli e Molise. Lo speciale contiene tre articoli. Rompere un tabù per blindare le truppe in Parlamento, cercando però di evitare il boomerang di essere additati come poltronisti dalla propria base. Decidere una deroga per il divieto al terzo mandato è ormai divenuto un imperativo categorico per il Movimento 5 stelle, perché in caso di scioglimento anticipato delle Camere entro un anno ci sarebbero decine di deputati «decapitati» da questa regola che solo M5s si è dato, ma che fa parte del suo Dna più autentico di forza politica che non ammette la politica come professione. Se n'è parlato a Ivrea fra i vertici del Movimento, a margine del convegno in ricordo di Gianroberto Casaleggio. Nessun passo formale è stato ancora compiuto, perché è una faccenda che va spiegata bene all'esterno e ai tanti amministratori locali, ma la direzione ormai è quella di una deroga perché in questa fase la priorità, nella testa di Beppe Grillo e Davide Casaleggio, è quella di rafforzare il più possibile la posizione di Luigi Di Maio. Che ieri ha dato vita all'ennesimo battibecco con Matteo Salvini, azzerando una volta di più le possibilità che M5s vada al governo con un centrodestra ancora aggrappato a Silvio Berlusconi. C'è che la lezione dei rimborsi dei parlamentari brucia ancora in casa 5 stelle. Alcune irregolarità e una serie di furbizie da parte di alcuni deputati che non hanno versato quanto promesso al Fondo per il microcredito sono venute fuori nelle ultime settimane prima del voto e hanno rischiato di compromettere il grande risultato di domenica 4 marzo. Per il Movimento si è trattato di una beffa, perché sull'argomento «sono arrivate le lezioncine di avversari che non restituiscono neppure un centesimo alla collettività». Ma che neppure fanno la morale «anti-casta», va detto. Sul divieto di terzo mandato, allo stesso modo, si rischia un gigantesco flop. «Fa parte del nostro Dna, è una cosa molto sentita, ci distingue dagli altri perché sottolinea che siamo tutti al servizio di una causa e non della nostra poltrona», spiega un deputato al secondo mandato. E ha perfettamente ragione, perché un rapido giro tra i suoi colleghi conferma che sono in molti a ritenere non solo qualificante, ma anche vincente in termini elettorali, questo principio della piena sostituibilità di tutti. Allo stesso tempo, però, chi ha più esperienza aveva già segnalato tanto a Grillo quanto a Casaleggio junior il rischio di esporre i deputati più «deboli» alle sirene di altri partiti. Se uno sa di non essere ricandidabile, infatti, potrebbe anche farsi sedurre da un altro gruppo parlamentare con la promessa di un seggio sicuro al prossimo giro. Anche se i 5 stelle sembrano geneticamente diversi, nulla si può escludere quando serve un pugno di voti in più per sostenere un governo che di suo non ha i numeri. E allora, anche a Ivrea, nel week-end, sottovoce si è parlato di nuovo di come uscire dall'impasse di questo vincolo che rischia di diventare un cappio. Perché la prima vittima di un eccesso di rigore finirebbe per essere Di Maio, che sta facendo una lunga battaglia di nervi con gli altri leader di partito, ma deve essere sicuro di guidare una truppa che nessuno può neppure lontanamente avvicinare. Abbastanza casualmente, proprio mentre queste indiscrezioni cominciavano a circolare e il Movimento naturalmente si chiudeva a riccio, ecco che Rocco Casalino invece confermava che il tema è quantomeno «sul tappeto», per dirla con il politichese della Prima Repubblica. Il responsabile della comunicazione dei 5 stelle ha infatti dichiarato al New York Times che quella dell'abolizione del vincolo del doppio mandato «è una possibilità». Ovviamente «questa possibilità non è mai stata discussa», si è affrettato ad aggiungere Casalino, che poi ha anche sottolineato come la «possibilità» sia naturalmente legata a uno scioglimento anticipato della legislatura. E qui, sul tema dei tempi della deroga, il discorso si fa particolarmente interessante. Chi, tra i 5 stelle, nega che il vincolo dei due mandati possa saltare, fa osservare che tanto è difficile che si rivoti prima di un anno e «una deroga su una legislatura di un anno è un po' troppo». Invece, i molti fautori dell'eccezione non fanno distinzioni sotto i 12 mesi e sono meno ottimisti sulla durata di questo Parlamento: sia che si rivoti in autunno, sia che si voti a inizio 2019, sarà una legislatura non solo monca, ma anche depotenziata. In ogni caso, quando la decisione verrà presa, andrà comunicata molto bene. In modo da evitare che «un qualcosa in più che avevamo dato, si ritorca come fosse un mezzo furto», riassume bene un esponente del Movimento. E alla domanda se il vincolo del doppio mandato potrebbe essere tolto anche agli espulsi di oggi, la risposta che si raccoglie è un diplomaticissimo aggettivo: «Prematuro». Intanto Di Maio continua a reggere con freddezza il ping-pong quotidiano con Matteo Salvini. Alleati in privato, rissosi in pubblico, sospettano nel Pd e in Forza Italia. Anche se pare si telefonino spesso, i due leader se ne mandano a dire di ogni tipo. Si presume per erigere una cortina fumogena su accordi che vanno ancora limati. Ieri Salvini ha detto: «A Di Maio chiederò un incontro. Al di là dei veti (su Silvio Berlusconi, ndr) o delle simpatie, facciamo qualcosa o no?». Immediata la replica via Twitter del leader di M5s: «C'è lo 0% di possibilità che il Movimento 5 stelle vada al governo con Berlusconi e con l'ammucchiata di centrodestra». La fase politica, del resto, è un po' questa. I propri accordi sono «alleanze nell'interesse del Paese», mentre quelli degli altri sono tutte «ammucchiate». Francesco Bonazzi <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/dimaio-casaleggio-doppio-mandato-grillo-2558373121.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-problema-e-trovare-la-legge-che-almeno-questo-volta-faccia-governare-chi-vince" data-post-id="2558373121" data-published-at="1757934623" data-use-pagination="False"> Il problema è trovare la legge che (almeno questo volta) faccia governare chi vince Non è un caso se Sergio Mattarella ha fatto trapelare il suo «no» ad elezioni anticipate proprio domenica, giorno in cui sono iniziate le schermaglie più forti tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio (proseguite a distanza tutto ieri). Il Quirinale ha diffuso la preoccupazione per il prossimo vertice europeo (28-29 giugno) per il quale serve un governo operativo. Sottotesto: o vi date una mossa o vi tenete Paolo Gentiloni. Per quanto l'appuntamento sia in effetti molto importante (si discuterà di riforma dell'Eurozona, revisione del trattato di Dublino e nuovo budget comunitario del primo settennato post Brexit, tutti temi cruciali per noi e per i partner), c'è molta tattica nell'allerta del Colle. Almeno quanta ce n'è nel bisticcio continuo tra Lega e grillini sul coinvolgimento al governo di Silvio Berlusconi. Il cui vero problema non è ovviamente il profilo personale, quanto il fatto che la sua presenza al governo consente alla Lega di giocare da azionista di maggioranza, permettendo al Carroccio di non essere più «piccolo» del M5s. Il braccio di ferro passa ora dalla minaccia di voto anticipato, il cui canovaccio è stato abbondantemente illustrato dalla Verità nelle settimane successive al 4 marzo. Il ritorno alle urne non è una pistola scarica per il semplice fatto grillini e Lega, se uniti e compatti, posso opporsi assieme in modo efficace a qualunque ipotesi di governo che li veda esclusi. Da ciò discende il fatto che è obiettivamente molto complesso «congelare» la situazione oltre un certo limite istituzionale, al netto della moral suasion del Colle. Quanto può andare avanti un esecutivo incaricato degli affari ordinari, la cui sintesi politica è uscita punita dalle urne, e senza un Parlamento che di fatto possa approvargli atti legislativi in sintonia? Piuttosto, il vero collo di bottiglia si chiama legge elettorale. Per quanto i sondaggi diano in crescita sia la Lega sia il Movimento 5 stelle, è piuttosto evidente che a distanza di pochi mesi difficilmente il risultato con queste regole del gioco potrebbe fornire un esito completamente diverso da quello del 4 marzo, e cioè consentire poi la formazione di un esecutivo più lineare. La forza di Di Maio e Salvini a questo punto è quella di poter imporre in Aula una legge elettorale anche senza il consenso di altri, Forza Italia compresa. Ma la Lega, come si è visto in questi giorni, non ha interesse a rompere con l'alleato. D'altro canto, Di Maio ha bisogno di un sistema elettorale che garantisca il più possibile la realizzabilità della promessa di ricandidare tutti gli eletti, che altrimenti avrebbero un motivo per voltargli le spalle, e cercare altre soluzioni per rimanere in Parlamento. Dunque? Un maggioritario puro, che venga plasmato su un nuovo «bipolarismo populista», sarebbe contemporaneamente un rischio e una soluzione: un modo per entrambi i partiti di andare all'ok corral sapendo di rischiare il tutto per tutto. Ma chi vince, porterebbe a casa il massimo della posta, e comunque i rivali sarebbero, a meno di grossi cambiamenti nell'urna, ridotti davvero ai minimi termini. Un'altra soluzione sarebbe rappresentata da un proporzionale con un forte premio ai vincitori. In sostanza, un Porcellum riveduto e corretto. Qui però si aprirebbe il primo problema: il bonus andrebbe al partito o alla coalizione? Perché nel primo caso difficilmente la Lega, che ha preso 14 punti meno dei 5 stelle, potrebbe avere interesse a votare una legge simile. Viceversa, il premio alla coalizione non interessa ai grillini, che corrono quasi per definizione da soli, mentre potrebbe rappresentare un efficace modo per Salvini di tirare dentro Forza Italia e prolungare il senso della coalizione che ha pur sempre vinto le elezioni un mese fa. Da ultimo, resta Mattarella, che potrebbe sempre non firmare il testo di un'eventuale riforma approvata in Aula. Insomma, la partita è molto complessa e comunque subordinata come minimo al secondo giro di consultazioni, se non a un terzo che dilaterebbe ulteriormente i tempi. Che però la questione si giochi a questo livello lo dimostra anche l'intenzione, ormai esplicitata, di attendere i risultati della prossima tornata di amministrative che vedranno al voto città e regioni. Forniranno elementi tanto ai partiti quanto al Colle, sia in termini di eventuali conferme degli esiti del 4 marzo, sia per quanto riguarda la disponibilità di tornare al voto politico, e con quali equilibri. Un rafforzarsi del trend di crescita per grillini e leghisti a scapito del Pd potrebbe far rompere gli indugi nel chiedere elezioni anticipate, per alzare la posta e poi poter farla conquistare al vincitore. Stavolta senza scomodi, ma inevitabili, alleati. Ignazio Mangrano <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/dimaio-casaleggio-doppio-mandato-grillo-2558373121.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="consultazioni-infinite-le-amministrative-entrano-nella-partita-sul-nuovo-esecutivo" data-post-id="2558373121" data-published-at="1757934623" data-use-pagination="False"> Consultazioni infinite: le amministrative entrano nella partita sul nuovo esecutivo Mentre il risultato delle elezioni politiche dello scorso 4 marzo non ha ancora prodotto, e chissà se lo produrrà, un nuovo governo, quasi 8 milioni di italiani torneranno a breve alle urne per eleggere due presidenti di Regione con i relativi consigli regionali (in Molise il 22 aprile e in Friuli Venezia Giulia il 29 aprile); un consiglio regionale che poi eleggerà il nuovo presidente (in Valle d'Aosta il 20 maggio); 799 sindaci e consigli comunali. Un test che riguarda quindi quasi il 10% dei Comuni italiani, oltre alle tre regioni, i cui risultati potrebbero incidere non poco sulle valutazioni dei partiti in merito al nuovo governo nazionale e alla maggioranza che dovrà sostenerlo. In quest'ottica, riflettori puntati in particolare sulle regionali in Molise e Friuli Venezia Giulia, due «test» che hanno importanti punti in comune. I presidenti uscenti sono entrambi del Pd, ma le previsioni e i sondaggi fanno prevedere due ribaltoni con M5s e Lega, i due partiti usciti vincitori dalle urne lo scorso 4 marzo, accreditati di ottime possibilità di aggiudicarsi il successo. In Molise, dove si vota il 22 aprile, il presidente uscente, Paolo Di Laura Frattura, non si ricandida e lascia il posto di leader del centrosinistra a Carlo Veneziale. Gli altri candidati a presidente sono Donato Toma per il centrodestra, Agostino Di Giacomo per Casa Pound e il favorito, Andrea Greco del M5s. Il Molise potrebbe diventare quindi la prima regione italiana governata dai pentastellati: Greco, 33 anni, ex attore teatrale, laureato in giurisprudenza, ha vinto le primarie online con 212 preferenze ed è in pole position per diventare governatore. Il Pd sembra destinato a una sonora sconfitta, mentre Donato Toma, del centrodestra, conta su una coalizione al completo e spera di poter sovvertire i pronostici della vigilia. Il giovane candidato governatore del M5s negli ultimi giorni è finito nella bufera, poiché è venuta fuori la storia criminale di un suo zio acquisito, il marito della sorella del padre, Giuseppina Greco. Giuseppina sposò Sergio Bianchi, detto «'o pazzo», esponente di spicco della Nuova Camorra Organizzata, l'associazione criminale fondata da Raffaele Cutolo. La storia risale a 38 anni fa: Bianchi morì in un conflitto a fuoco con le forze dell'ordine, durante il quale rimase ferito a un braccio il papà del candidato presidente del Molise. «Una mia zia», ha scritto Greco sul blog del M5s, «ha sposato un personaggio appartenente alla criminalità organizzata, diversi anni prima che io nascessi. Una vicenda che ha provocato dolore alla mia famiglia e di cui, ancora oggi, portiamo le ferite, anche fisiche». Passiamo al Friuli Venezia Giulia: qui si vota il 29 aprile, per eleggere il successore del presidente uscente, Debora Serracchiani, del Pd. La Serracchiani, fiutata l'aria di sconfitta, è scappata dal Friuli scegliendo di non ricandidarsi alla guida della Regione, e ha centrato per il rotto della cuffia l'elezione alla Camera. Sconfitta nella sfida nel collegio uninominale di Trieste dal forzista Renzo Tondo, ha ottenuto il seggio a Montecitorio grazie ai resti, essendo candidata anche al proporzionale. Lo stesso Tondo, candidato in pectore per il centrodestra alla presidenza della Regione, ha ceduto il suo posto al leghista Massimiliano Fedriga, durante le febbrili trattative che portarono all'elezione di Elisabetta Alberti Casellati alla presidenza del Senato. Fedriga, fedelissimo di Matteo Salvini, ha tre avversari: Sergio Bolzonello per il centrosinistra, Alessandro Fraleoni Morgera del M5s e l'autonomista Sergio Cecotti. Più fluida la situazione in Valle d'Aosta: si vota il 20 maggio, ma il presidente della Regione verrà eletto dal consiglio regionale, e non direttamente dai cittadini. Passiamo alle comunali: sono 799 i nuovi sindaci che verranno eletti nella prossima tornata amministrativa, con i relativi consigli comunali. I Comuni al voto con più di 15.000 abitanti, quindi con elezioni a doppio turno, sono 115; quelli con meno di 15.000 abitanti dove si vota a turno unico, sono 684. In totale andranno alle urne 6.850.941 elettori. Tra le città chiamate alle urne (primo turno 10 giugno, ballottaggio 24 giugno) ci sono 20 capoluoghi di provincia: Ancona, Avellino, Barletta, Brescia, Brindisi, Catania, Imperia, Massa, Messina, Pisa, Ragusa, Siena, Siracusa, Sondrio, Teramo, Terni, Trapani, Treviso, Vicenza e Viterbo. A Udine il primo turno è previsto il 29 aprile, il ballottaggio il 13 maggio. Non mancano le sfide dense di significato politico. A Brescia il sindaco uscente, Emilio Del Bono (Pd) dovrà respingere l'assalto di Paola Vilardi, di Forza Italia, candidata del centrodestra, di Guido Ghidini del M5s e di Leonardo Peli della lista «Pro Brixia». A Udine sono sette i candidati a sindaco: quelli che hanno le maggiori chance di vittoria sono Pietro Fontanini, sostenuto dal centrodestra; Vincenzo Martines (Pd e civiche) e Maria Rosaria Capozzi (M5s). A Catania il sindaco uscente, Enzo Bianco del Pd, tenta di conquistare la riconferma. Se la vedrà col candidato di Forza Italia, Salvo Pogliese, e quello grillino, Giovanni Grasso. Carlo Tarallo
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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Intervistato da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non usa giri di parole: «Io non sono contro l’elettrico, sono convinto che il motore elettrico abbia un futuro enorme. Ma una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica. Questo ha fatto l’Unione Europea con la scadenza del 2035». Secondo Pichetto Fratin, il vincolo fissato a Bruxelles non nasce da ragioni scientifiche: «È come se io oggi decidessi quale sarà la tecnologia del 2040. È un metodo sovietico, come le tavole di Leontief: la politica stabilisce dall’alto cosa succederà, ignorando il mercato e i progressi scientifici. Nessuno mi toglie dalla testa che Timmermans abbia imposto alle case automobilistiche europee – che all’epoca erano d’accordo – il vincolo del 2035. Ma oggi quelle stesse industrie si accorgono che non è più sostenibile».
Il motore elettrico: futuro sì, imposizioni no. Il ministro tiene a ribadire di non avere pregiudizi sulla tecnologia: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Pensi al motore del frigorifero: quello di mia madre ha funzionato cinquant’anni senza mai guastarsi. È una tecnologia solida. Ma da questo a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre». Colonnine e paradosso dell’uovo e della gallina. Belpietro chiede conto del tema infrastrutturale: perché le gare per le colonnine sono andate deserte? Pichetto Fratin replica: «Perché non c’è il mercato. Non ci sono abbastanza auto elettriche in circolazione, quindi nessuno vuole investire. È il classico paradosso: prima l’uovo o la gallina?». Il ministro racconta di aver tentato in tutti i modi: «Ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Rfi di partecipare. Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione Europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
Prezzi eccessivi e mercato bloccato. Un altro nodo è il costo delle auto elettriche: «In Germania servono due o tre annualità di stipendio di un operaio per comprarne una. In Italia ce ne vogliono cinque. Non è un caso che fino a poco tempo fa fossero auto da direttori di giornale o grandi manager. Questo non è un mercato libero, è un’imposizione politica». L’errore: imporre il motore, non le emissioni. Per Pichetto Fratin, l’errore dell’Ue è stato vincolare la tecnologia, non il risultato: «Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico. È qui l’errore: hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei».
Bruxelles e la vicepresidente Ribera. Belpietro ricorda le dichiarazioni della vicepresidente Teresa Ribera. Il ministro risponde: «La Ribera è una che ascolta, devo riconoscerlo. Ma resta molto ideologica. E la Commissione Europea è un rassemblement, non un vero governo: dentro c’è di tutto. In Spagna, per esempio, la Ribera è stata protagonista delle scelte che hanno portato al blackout, puntando solo sulle rinnovabili senza un mix energetico». La critica alla Germania. Il ministro non risparmia critiche alla Germania: «Prima chiudono le centrali nucleari, poi riaprono quelle a carbone, la fonte più inquinante. È pura ipocrisia. Noi in Italia abbiamo smesso col carbone, ma a Berlino per compiacere i Verdi hanno abbandonato il nucleare e sono tornati indietro di decenni».
Obiettivi 2040: «Irrealistici per l’Italia». Si arriva quindi alla trattativa sul nuovo target europeo: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Pichetto Fratin è netto: «È un obiettivo irraggiungibile per l’Italia. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento. Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo». Il ruolo del gas e le prospettive future. Il ministro difende il gas come energia di transizione: «È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione. Nel frattempo il gas resta la garanzia di stabilità energetica». Conclusione: pragmatismo contro ideologia. Nelle battute finali dell’intervista con Belpietro, Pichetto Fratin riassume la sua posizione: «Ridurre le emissioni è un obiettivo giusto. Ma un conto è farlo con scienza e tecnologia, un altro è imporre scadenze irrealistiche che distruggono l’economia reale. Qui non si tratta di ambiente: si tratta di ideologia. E i costi ricadono sempre sugli europei.»
Il ministro aggiunge: «Oggi produciamo in Italia circa 260 TWh. Il resto lo importiamo, soprattutto dalla Francia, poi da Montenegro e altri paesi. Se vogliamo davvero dare una risposta a questo fabbisogno crescente, non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Non quello di ieri, ma un nuovo nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. È lì che dobbiamo guardare». Pichetto Fratin chiarisce: «Il nucleare non è un’alternativa alle altre fonti: non sostituisce l’eolico, non sostituisce il fotovoltaico, né il geotermico. Ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri». Gas liquido e rapporti con gli Stati Uniti. Il discorso scivola poi sul gas: «Abbiamo firmato un accordo standard con gli Stati Uniti per l’importazione di Gnl, ma oggi non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti per rispettarlo. Oggi la nostra capacità di importazione è di circa 28 miliardi di metri cubi l’anno, mentre l’impegno arriverebbe a 60. Negli Usa i liquefattori sono in costruzione: servirà almeno un anno o due. E, comunque, non è lo Stato a comprare: sono gli operatori, come Eni, che decidono in base al prezzo. Non è un obbligo politico, è mercato». Bollette e prezzi dell’energia. Sul tema bollette, il ministro precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali. Ma la verità è che per avere bollette davvero più basse bisogna avere energia a un costo molto più basso. E i francesi, grazie al nucleare, ce l’hanno a prezzi molto inferiori ai nostri».
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Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Giorgetti ha poi escluso la possibilità di una manovra correttiva: «Non c'è bisogno di correggere una rotta che già gli arbitri ci dicono essere quella rotta giusta» e sottolinea l'obiettivo di tutelare e andare incontro alle famiglie e ai lavoratori con uno sguardo alle famiglie numerose». Per quanto riguarda l'ipotesi di un intervento in manovra sulle banche ha detto: «Io penso che chiunque faccia l'amministratore pubblico debba valutare con attenzione ogni euro speso dalla pubblica amministrazione. Però queste sono valutazioni politiche, ribadisco che saranno fatte solo quando il quadro di priorità sarà definito e basta aspettare due settimane».
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