
La Commissione europea si è appena autocelebrata per aver «rivisto» la sua follia del tutto elettrico al 2035, decretando che non ci sarà il bando totale dei motori a combustione e che l’obiettivo scende al 90%. In altre parole, si fa un passo indietro dopo lo schianto e poi si finge di aver aperto una porta. Una «svolta» dettata dalla crisi industriale e dal pressing delle case automobilistiche, con gli stabilimenti al rallentatore.
Quel 90% è una foglia di fico burocratica che consente agli ambientalisti di raccontare ai propri fedeli che il termico sopravviverà. Per completare l’opera, si spalma tutto con «compensazioni delle emissioni» per dare una patina di virtù contabile, incluso l’ineffabile «acciaio verde» che non esiste su scala industriale ed economicamente sostenibile, come ho mostrato nel mio libro «L’utopia dell’idrogeno». La Commissione persevera nel negare la libertà (neutralità) tecnologica, imponendo persino sotto-obiettivi: 7% di compensazione via acciaio a basse emissioni prodotto in Europa e 3% via biocarburanti.
I media italiani deludono: titoli trionfalistici su «vittoria», «retromarcia», «salta lo stop ai motori termici»… Anche Adolfo Urso sembra berci su, parlando di «una breccia nel muro dell’ideologia».
Anzi, è peggio di prima. Per mesi tutti si aspettavano una vera revisione, tanto la traiettoria era impraticabile. Invece Bruxelles concede quel 10%, ma zavorrato da condizioni che rendono il messaggio ancora più incomprensibile. Risultato: i costruttori non danno più credito alla parola pubblica e il segnale per gli investimenti diventa un guazzabuglio normativo. La «neutralità tecnologica» chiesta da un fronte guidato da Germania e Italia non è tornata: si continuano a imporre traiettorie anziché traguardi, con arbitrati politici all’ultimo minuto.
Questa è un’operazione d’immagine, non una politica industriale: ci viene servita la solita narrazione dell’«UE in avanguardia» e una roadmap «da rivedere al più presto», bella ammissione di impreparazione, camuffata da pragmatismo alla vigilia del pacchetto auto di dicembre 2025. Nel 2022 scrivevo: «Il compianto Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat‑Chrysler, dichiarò senza mezzi termini al Salone di Detroit 2014: “Non comprate le mie auto elettriche, perché perdo 10.000 euro a vettura”».
Eppure, i vertici dell’automotive hanno ceduto alle sirene della decarbonizzazione e, temendo di non apparire «verdi», hanno messo da parte la razionalità per applaudire le ingiunzioni delle Ong ambientaliste, di cui Ursula von der Leyen e Frans Timmermans sono diventati il megafono. Vale la pena ricordarlo: l’obiettivo degli ambientalisti non è mai stato favorire l’auto elettrica, bensì mettere in scacco l’automobile, il nemico da abbattere.
Il mercato non marcia al ritmo imposto. I pochi veicoli elettrici che vediamo sono trainati dall’obbligo per imprese e liberi professionisti di passare all’elettrico per accedere a sconti fiscali; per gli altri, piovono bonus, sussidi e detrazioni. Una costruzione altamente discriminatoria verso la maggioranza dei cittadini che non può permettersi vetture così costose.
L’Ue si scopre vulnerabile lungo l’intera catena del valore, stretta nella tenaglia tra i campioni cinesi e Tesla, mentre i costi lievitano e le dipendenze si consolidano.
Non facciamoci illusioni: se la Commissione ha peccato d’ideologia, molti top manager dell’auto hanno applaudito a vincoli ingestibili finché l’orchestra suonava. Oggi la fiducia dei cittadini è evaporata, non quella di certi leader politici che fanno finta di credere a un cambio di rotta della Commissione.
Dopo aver puntato tutto sulla decarbonizzazione dal 2019, Ursula von der Leyen non può permettersi di perdere la faccia: fino a fine mandato non cambierà una virgola. L’Ue continuerà a impantanarsi.
*Professore di geopolitica
dell’energia, funzionario della Commissione Ue in pensione






