
L’ideologa Luthra invita ad andare oltre la difesa della libera scelta. Ma così le gravidanze interrotte diventano indice di civiltà.Per il democratico Bill Clinton l’aborto, negli Stati Uniti, avrebbe dovuto essere «sicuro, legale e raro». L’auspicio di un presidente americano progressista appare oggi, ai teorici dell’aborto come un «diritto umano», cosa del passato, una specie di ipocrisia. L’aborto è un diritto, anzi un «diritto umano». Questa la tesi di Christine Hennenberg come esposta nella «bibbia» dei liberal acculturati, The New York review of books (2024), che recensisce il libro di Shefali Luthra, Undue burden: Life-and-death decisions in Post-Roe America (Doubleday, 2024). La tesi della Luthra, sostenuta entro certi limiti dalla Hennenberg è che il movimento pro choice dovrebbe andare oltre la semplice tesi della libertà di scelta per la donna fino ad affermare la tesi per cui l’aborto non è qualcosa che sarebbe bene se non altro evitare, ma proprio un diritto, anzi un «diritto umano».Ora, i diritti umani dovrebbero avere almeno una caratteristica, quella di essere positivi: se la vita è un diritto umano bisogna vivere, se lo è la libertà, bisogna sforzarsi di essere liberi e così via. L’autrice di questo articolo non avverte il paradosso (o forse è proprio la sua intenzione?): se l’aborto è un diritto umano bisogna volerlo, praticarlo. Dunque, non solo scelta, ma pratica dell’aborto e quanti più aborti si praticano tanto più si rafforza e si garantisce un «diritto umano». Non a caso scrive: «Per me, come per Luthra, la storia abortiva di una donna con un test positivo di gravidanza, come è diventata incinta, non mi riguarda» (p. 38). Il tema della responsabilità personale è irrilevante.In effetti, l’aborto come «diritto umano» diventa in questa ideologia ultra-progressista la giustificazione dell’arbitrio assoluto; a ben vedere, infatti, sia nell’autrice del libro sia nel suo recensore, l’aborto appare una metonimia: si parla di «aborto», ma si vuole intendere altro; dietro l’aborto come diritto umano si nasconde la difesa dell’arbitrio totale dell’individuo, padrone della propria natura da piegare ai propri desideri. I personaggi del libro di Luthra hanno questo «diritto umano» perché esso è il risultato del loro diritto di fare tutto quello che vogliono, in quanto individui a ogni età e senza nessun rapporto di responsabilità verso gli altri (oltre che verso sé stessi). La Luthra afferma che «negare l’aborto alle persone significa trattarle come “cittadini di seconda classe” e negare loro la proprietà dei loro propri corpi». Il recensore è anch’essa critica di certe posizioni dell’autrice, ma, ciò nonostante, conclude che chi decide di abortire «non ci deve nessuna spiegazione» (p. 39).È proprio così? Evidentemente, se l’aborto è un diritto umano chi assolve a questo diritto non deve spiegarlo, ma deve metterlo in pratica. Ora, pare evidente che una tesi del genere è semplicemente aberrante, perché portata ad absurdum potrebbe significare che abortire è non solo giusto, ma necessario. Quanto più in un Paese si abortisce, tanto più si difendono i diritti umani, che appunto sono umani, non fondamentali (inscritti in una Costituzione, per esempio).Emblematico il racconto di una donna diventata uomo che a un certo punto si accorge di essere incinta (evidentemente il suo disprezzo della natura femminile e delle sue esigenze non era proprio congenito). Dinanzi alla mostruosità del fatto i commenti riguardano fondamentalmente la crisi del sistema della sanità pubblica. In quest’ottica viene infatti giudicata anche la sentenza Dobbs, che ha abrogato la sentenza del 1973 che consentiva l’aborto, come un mero problema di sanità pubblica, la quale avrebbe l’obbligo (giuridico) di garantire l’esercizio del diritto (umano) ad abortire.Mi sono occupato della sentenza Dobbs in un pamphlet uscito all’inizio di quest’anno (La rivoluzione di Dobbs, Mimesis, 2024) Lì mettevo in rilievo come la sentenza, pur corretta giuridicamente, non avrebbe risolto il problema dell’aborto negli Usa, anzi lo avrebbe in qualche modo acuito. Il libro della Luthra e i commenti della Hennenberg dimostrano che il tema è in sé irrisolvibile, specie se, come ora si tende a fare, lo si considera, appunto, tout court un «diritto», anzi un «diritto umano».Chiederei a coloro che lo ritengono tale se non si sentono per lo meno disturbati dal fatto che altre persone e non proprio pochissime, ritengono il feto una persona e quindi l’aborto un omicidio. Elevare a diritto, umano e intoccabile, oltre che garantito, e quindi giustiziabile, un atto che la coscienza sociale non ritiene tale nella sua stragrande maggioranza (questa potrebbe essere una motivazione della sua accettazione), è il prodromo di nuovi, gravi conflitti entro la società, quella americana ma anche quella europea. Questo non significa essere d’accordo con chi, per esempio, chiede una legge federale (quindi valida per tutti e ovunque) che bandisca l’aborto a ogni stadio della gravidanza. Su un tema del genere occorre un compromesso; il punto è che quando agli interessi si sostituiscono i diritti, secondo la tendenza corrente, il compromesso diventa impossibile. Anche questa è una ragione per giudicare nefasta l’ideologia dei diritti, che non conosce moderazione e punti di riflessione. E soprattutto ignora l’arte della mediazione e la filosofia aristotelica del giusto mezzo.
Tampone Covid (iStock)
Stefano Merler in commissione confessa di aver ricevuto dati sul Covid a dicembre del 2019: forse, ammette, serrando prima la Bergamasca avremmo evitato il lockdown nazionale. E incalzato da Claudio Borghi sulle previsioni errate dice: «Le mie erano stime, colpa della stampa».
Zero tituli. Forse proprio zero no, visto il «curriculum ragguardevole» evocato (per carità di patria) dall’onorevole Alberto Bagnai della Lega; ma uno dei piccoli-grandi dettagli usciti dall’audizione di Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler in commissione Covid è che questo custode dei big data, colui che in pandemia ha fornito ai governi di Giuseppe Conte e Mario Draghi le cosiddette «pezze d’appoggio» per poter chiudere il Paese e imporre le misure più draconiane di tutto l’emisfero occidentale, non era un clinico né un epidemiologo, né un accademico di ruolo.
La Marina colombiana ha cominciato il recupero del contenuto della stiva del galeone spagnolo «San José», affondato dagli inglesi nel 1708. Il tesoro sul fondo del mare è stimato in svariati miliardi di dollari, che il governo di Bogotà rivendica. Il video delle operazioni subacquee e la storia della nave.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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Manifestazione ex Ilva (Ansa)
Ok del cdm al decreto che autorizza la società siderurgica a usare i fondi del prestito: 108 milioni per la continuità degli impianti. Altri 20 a sostegno dei 1.550 che evitano la Cig. Lavoratori in protesta: blocchi e occupazioni. Il 28 novembre Adolfo Urso vede i sindacati.
Proteste, manifestazioni, occupazioni di fabbriche, blocchi stradali, annunci di scioperi. La questione ex Ilva surriscalda il primo freddo invernale. Da Genova a Taranto i sindacati dei metalmeccanici hanno organizzato sit-in per chiedere che il governo faccia qualcosa per evitare la chiusura della società. E il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al nuovo decreto sull’acciaieria più martoriata d’Italia, che autorizza l’utilizzo dei 108 milioni di euro residui dall’ultimo prestito ponte e stanzia 20 milioni per il 2025 e il 2026.
Il Comune di Merano rappresentato dal sindaco Katharina Zeller ha reso omaggio ai particolari meriti letterari e culturali della poetessa, saggista e traduttrice Mary de Rachewiltz, conferendole la cittadinanza onoraria di Merano. La cerimonia si e' svolta al Pavillon des Fleurs alla presenza della centenaria, figlia di Ezra Pound.






