Sulle date del referendum è chiaro scontro. Ancora non aperto, silente piuttosto, ma reso palese dall’esito del consiglio dei ministri di ieri quando si sarebbero dovute stabilire le due date del voto. «Non si è parlato della data per il referendum della giustizia», ha confermato uscendo, il ministro della Protezione civile, Nello Musumeci. L’indecisione non è dovuta a uno scontro interno alla maggioranza, certo, ma tra Palazzo Chigi e il Quirinale. L’esecutivo vorrebbe andare al voto il prima possibile forte di sondaggi che darebbero al sì, 10 punti di distacco sul no. I magistrati, con il loro capo, Sergio Mattarella, che da presidente della Repubblica presiede anche il Csm, vorrebbero prendere tempo per provare a influenzare l’opinione pubblica verso il no, nella migliore delle ipotesi, nella peggiore attendere l’esito di qualche inchiesta che potrebbe portare acqua al loro mulino. Ad ogni modo la scelta dei giorni, che si sarebbe dovuta prendere il 22 dicembre scorso, dovrebbe arrivare a gennaio. Una volta stabilite le date da Palazzo Chigi, il decreto dovrà passare per la firma del Quirinale e da lì devono passare sessanta giorni per andare alle urne. Non meno. Per questo slitta inevitabilmente l’ipotesi di votare il 1° e il 2 marzo come precedentemente ipotizzato.
«Ne parleremo a inizio gennaio, non c’è ancora nessun accordo» ha risposto il vicepremier e leader di Forza Italia Antonio Tajani ai cronisti alla Camera chiarendo: «Bisogna farlo, abbiamo sessanta giorni». In base alla legge 352 del 1970, il referendum dev’essere indetto «entro sessanta giorni dalla comunicazione dell’ordinanza (della Cassazione, ndr) che lo abbia ammesso». Ma le opposizioni si sono appigliate ad una prassi che prevede che il governo, prima di convocare il voto, debba aspettare tre mesi dalla pubblicazione della legge in Gazzetta ufficiale, avvenuta in questo caso il 30 ottobre. Quindi non prima del 30 gennaio. Più tempo per raccogliere le firme e tentare di far slittare il voto.
Quelli del no, dalle opposizioni ai magistrati, parlano di blitz dell’esecutivo, ma verrebbe da pensare il contrario osservando come si sia messa in moto una vera e propria macchina per impedire che si vada al voto prima di metà aprile. Come scrive lo stesso fattoquotidiano.it «la leva per allungare i tempi e provare a informare e coinvolgere maggiormente l’elettorato è rappresentata da una raccolta firme avviata da un gruppo di 15 cittadini che hanno presentato un nuovo quesito già ammesso dalla Cassazione. Questa novità potrebbe evitare la forzatura a cui sta lavorando il governo. A favore della raccolta firme si sono schierati i principali partiti del centrosinistra. A partire dal Pd che con la sua segretaria Elly Schlein ha invitato i cittadini alla sottoscrizione». I primi sondaggi, effettuati negli ultimi mesi, danno un vantaggio di dieci punti al sì, quindi all’approvazione del provvedimento. Tuttavia gli indecisi sono così tanti (quasi la metà degli aventi diritto al voto) da non poter essere certi del risultato. Insomma tutto può succedere e la sinistra lo sa bene.
Nel frattempo ieri si sono riuniti alla Camera la segretaria del Pd, Elly Schlein, il presidente M5s, Giuseppe Conte, e i leader di Avs Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli proprio per parlare di referendum. All’incontro, guarda caso, ha preso parte anche il presidente del comitato referendario per il no che riunisce giuristi, giudici, avvocati e società civile, Giovanni Bachelet. Se la maggioranza sta pensando a un blitz, la sinistra se non altro sta palesemente lavorando al contro blitz. «Ci mettiamo a disposizione per dare una mano al Comitato nella campagna in cui ci saremo anche noi contro la riforma Nordio. Lavoreremo per coordinare gli sforzi e farli convergere in questi mesi di lavoro. Siamo contenti dell’incontro e molto disponibili a lavorare», il commento di Schlein al termine.
«Mi sembra che si prepari una bella campagna sinfonica di tutti i protagonisti del no, quelli che lo hanno fatto in Parlamento e i cittadini che vogliono difendere le proprie garanzie di “legge uguale per tutti”», così Bachelet. «Il 10 gennaio», aggiunge, «faremo una manifestazione per lanciare l’inizio della campagna elettorale e abbiamo anche lì invitato tutti i partiti del no». Sulla data del referendum, commenta: «Devono scegliere d’intesa il governo e il presidente. Finora non l’hanno fatto, ma io sono fiducioso che verrà fatta una scelta equilibrata». Bonelli ha spiegato che «bisogna avere attenzione sulla partecipazione dei cittadini»
Quello che emerge dai fatti è che da Palazzo Chigi non si intende andare allo scontro, ma allo stesso tempo si vuole evitare di cedere a chi vorrebbe votare a maggio. La trattativa con il Colle non è chiusa, ma serviva rinunciare all’ipotesi 1 e 2 marzo per aprire un dialogo costruttivo. Il governo lo ha fatto, ora spera che entro gennaio si trovi l’accordo per andare al voto il 22 e il 23 marzo. Ma per ora non ci sarebbe alcuna garanzia. Infine va ricordato che il 5 aprile cade la Pasqua. Un bell’impiccio per il voto e per la campagna referendaria.
Una norma contro i brogli all’estero
Una seduta fiume notturna per esaminare tutti gli ordini del giorno, quasi 250, con relativa illustrazione. È l’ultimo atto della legge di bilancio 2026 che avrà il voto finale oggi entro le 13 dopo la fiducia posta dal governo Meloni.
Tra i 95 ordini del giorno del giorno depositati ieri dalla maggioranza nell’aula della Camera c’è anche quello dell’onorevole Andrea Di Giuseppe che punta a modificare le modalità di voto per gli italiani all’estero dopo lo scandalo patronati denunciato alla Procura di Roma. L’esponente di Fdi eletto all’estero aveva denunciato, già tre anni fa, che la regolarità elettorale degli italiani residenti in Centro e Nord America era minacciata dal rischio di brogli elettorali che potrebbero ripetersi anche in occasione del prossimo referendum sulla giustizia. Nel 2022 Di Giuseppe, dopo aver spedito materiale elettorale in modo casuale, aveva scoperto che una buona parte degli iscritti nell’elenco degli italiani residenti all’estero negli Usa, almeno un terzo, era deceduto. Eppure le schede elettorali continuavano a essere spedite e probabilmente intercettate da una o più organizzazioni intenzionate a condizionare il voto per favorire alcuni candidati a scapito di altri. I patronati sarebbero stati coinvolti perché a loro si rivolgerebbero molti italiani desiderosi di votare regolarmente, pagando profumatamente anziché essere assistiti gratuitamente.
L’odg presentato da Di Giuseppe mira ad abolire il voto per corrispondenza e ad impegnare il governo ad istituire le sezioni elettorali presso ambasciate e consolati per consentire ai cittadini di votare in presenza. Ha espresso soddisfazione per questo odg l’ex leader dell’Italia dei valori Antonio Di Pietro: «Questo odg nasce da una specifica richiesta che, con il Comitato Sì Separa, abbiamo fatto all’onorevole Di Giuseppe e ha come obiettivo quello di garantire un voto più trasparente in occasione del prossimo appuntamento referendario». L’ex magistrato infatti aveva denunciato il rischio brogli: «Si stanno già costituendo gruppi di persone, che hanno come riferimento specifici partiti e sindacati, che per controllare il voto preparano le buste contenenti voti espressi all’insaputa dei diretti interessati. Permettendo agli elettori di votare in presenza, con il proprio documento di identità, eviteremmo il rischio di brogli. Ora ci auguriamo che il Parlamento promuova rapidamente un provvedimento ad hoc».
Tornando alla manovra, la terza del governo di centrodestra, con 22,3 miliardi, tra 7,9 miliardi di tagli fiscali e maggiori spese per 14,4 miliardi, punta a tenere insieme tenuta economica, con la seconda riduzione Irpef e gli incentivi alle imprese, ed equilibrio dei conti pubblici aggiungendo anche una ministretta sull’accesso alla pensione. Un testo, dice Fratelli d’Italia, che «coniuga crescita, stabilità ed equità». Per il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti «l’ammontare complessivo, inizialmente pari a 18,7 miliardi, è salito perché con l’ultimo maxiemendamento abbiamo integrato gli stanziamenti per Transizione 5.0, la Zes e sull’adeguamento prezzi». Il ministro leghista ha però precisato: «Quello che vorrei sottolineare è che siamo intervenuti su questioni che sembravano quasi impossibili. La tassazione solo al 5% degli aumenti contrattuali era qualcosa che veniva chiesto da sempre dai sindacati e l’abbiamo fatto peri lavoratori dipendenti con redditi più bassi. La tassazione all’1% dei salari di produttività credo anche che sia sintomatica della direzione verso cui si deve andare. Quindi un bilancio positivo che dimostra come tutto il governo sostiene questa linea che abbiamo impostato tre anni fa».