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2019-06-27
Di Maio traccheggia sull’autonomia. Lombardia e Veneto non ci stanno
Ansa
Si chiama «autonomia delle Regioni» il nuovo terreno di scontro tra Lega e Movimento 5 stelle. Affrontato nell'incandescente vertice preliminare di maggioranza di martedì notte a Palazzo Chigi, dove la delegazione ministeriale leghista si era presentata già armata di un testo-base da discutere, il tema si è subito trasformato in campo di battaglia. Ed è solo per questo che poi è stato fatto velocemente «saltare» dall'ordine del giorno del Consiglio dei ministri di ieri sera: per evitare che si trasformasse in un punto di non ritorno. In realtà, il conflitto è stato solo posticipato, perché si parla già di un nuovo vertice che dovrebbe tenersi mercoledì prossimo.
Che le posizioni siano molto distanti, comunque, ne hanno dato una plastica rappresentazione le dichiarazioni giustapposte delle due parti. Il primo a parlare era stato il vicepremier Matteo Salvini, uscito dal vertice con lo sguardo cupo per quella che aveva definito «l'ennesima riunione a vuoto». Irritato, il leader leghista aveva aggiunto che «sull'autonomia i 5 stelle fanno muro e si nascondono dietro ai burocrati ministeriali». Evidentemente, durante il summit erano stati soprattutto i funzionari dei dicasteri (con il tacito accordo del Quirinale, molto sensibile alla questione) a segnalare le possibili controindicazioni di un incremento dei poteri tributari e delle potestà legislative da riservare alle Regioni.
Ieri la Lega è tornata all'attacco. il suo capogruppo alla Camera, Riccardo Molinari, ha scagliato sul governo parole acuminate : «Le autonomie sono uno dei pilastri dell'accordo con il M5s», ha detto», «e negare quel pilastro, per la Lega, è negare uno dei punti principali del programma. Il governo non può andare avanti senza autonomie, questo è chiaro». Molinari ha aggiunto che il suo non era «un ultimatum», ma da suo ragionamento è uscito qualcosa di assai simile: «È un anno che ci stiamo ragionando, ora il percorso va chiuso. Le risposte vanno date in tempi rapidi».
Anche Attilio Fontana, governatore leghista della Lombardia, uno degli enti territoriali che con Veneto ed Emilia Romagna si trova nello stadio più avanzato della trattativa per l'autonomia avviata con il governo gialloblù, ieri è stato insolitamente aggressivo: «È inutile continuare a prendere in giro la gente», ha dichiarato, «perché se il tentativo è realizzare una riforma che sarebbe una “non riforma", io dico subito che non la sottoscriverò mai». Fontana ha aggiunto un monito chiaramente indirizzato ai grillini, sia pure senza citare nessuno in particolare: «Se qualcuno sta cercando di portarci in quella direzione si sbaglia. O è un sì, ovvero una riforma seria e utile per il Paese, oppure è meglio che dicano no e basta. Chi non è d'accordo con l'autonomia che proponiamo lo dica ai milioni di persone che hanno chiesto di averla». Gli fa eco il governatore veneto Luca Zaia: «Noi abbiamo portato al referendum 2.328.000 veneti con oltre il 98% dei sì. Ci attendiamo che l'applicazione della Costituzione avvenga. Finiamola con queste manfrine del Paese di serie A e eerie B. Il paese è già così e non per colpa delle autonomie».
È accaduto, insomma, proprio quello che La Verità ieri aveva previsto: cioè un'intensa accelerazione della polemica su uno dei temi più cari al Carroccio. È evidente, del resto, che la situazione di forza in cui si trova la Lega dopo la svolta delle elezioni europee offre a Salvini un momento cruciale, nel quale deve cercare di portare a casa più risultati che può. E l'autonomia regionale è ai primi posti.
Il problema opposto dei 5 stelle, è invece che al proprio interno ha un'ampia frangia meridionalista contraria all'incremento dei poteri delle regioni settentrionali (soprattutto in ambito tributario e di mantenimento sul territorio dei proventi delle imposte), e il suo leader Luigi Di Maio sa bene che andare al voto sul testo - specialmente al Senato - porterebbe quasi inevitabilmente a una crisi dell'esecutivo. Per cercare di rintuzzare l'ira leghista ieri il vicepremier pentastellato ha pubblicato un lungo post su Facebook: «C'è troppo caos ingiustificato. L'autonomia la chiedono i cittadini di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna ed è giusto che si faccia. Sarà un'autonomia equilibrata, fatta bene, che gioverà veramente a Regioni e Comuni». Poi però la frenata: «Certo, alcune posizioni più estreme mi preoccupano. Non si può pensare di impoverire ancora di più regioni come la Puglia, la Calabria, la Sicilia, ma anche l'Abruzzo, il Lazio, le Marche, il Molise, la Campania e l'Umbria. Di meno ospedali, meno scuole e strade sempre più in dissesto non se ne parla». Fino alla stoccata al limite della propaganda rivolta all'alleato: «Non penso che qualcuno voglia tornare ai tempi della secessione della Padania e non ho motivo di dubitare che sapremo trovare insieme la migliore soluzione».
Insomma, la Lega ha alzato la palla, ha provato a schiacciarla ma i 5 stelle hanno alzato il muro. In attesa del prossimo set. Mentre la fine della partita si avvicina.
La Tav ormai è in discesa. Ma Toninelli continua ad andare controvento
Ogni giorno che passa, sembra sempre di più che il progetto della Tav Torino Lione vedrà la luce. A dare il suo benestare ieri è stata la coordinatrice del Corridoio Mediterraneo, Iveta Radicova, a margine di un convegno all'Unione industriale di Torino.
«Il risultato dell'appuntamento di ieri (di due giorni fa, ndr) a Parigi è chiaro», ha detto Radicova. «Il progetto continua. Poi da parte dell'Europa c'è il pieno rispetto per le decisioni di ogni governo che può scegliere in qualsiasi momento di ritirarsi, di spendere oppure perdere il denaro messo a disposizione. Certo, se il governo italiano fermasse tutto sarebbe un errore per il futuro dell'Europa».
Il riferimento della rappresentante dell'Unione europea è al cda di Telt che si è tenuto nella capitale francese il 24 giugno. La società che gestisce gli appalti della Torino-Lione ha dato il via libera a bandi per un valore di circa un miliardo per il versante italiano che si aggiungono a quelli per quello francese. Alla riunione ha partecipato per la prima volta il neopresidente di centrodestra del Piemonte, Alberto Cirio
Tutti fatti che si pongono in netto contrasto con il pensiero del ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Danilo Toninelli, da sempre contrario al progetto. «Non è partito alcun bando», ha detto. «Si tratta di manifestazioni di interesse da parte di eventuali imprese interessate, che durerà tre mesi e ha la clausola del recesso senza oneri e senza alcuna motivazione da parte dello Stato interessato», ha detto.
Fatto sta che il presidente del Piemonte, a seguito del cda, ha parlato di una «giornata storica: con la pubblicazione dei bandi per i lavori del tunnel in Italia e il cofinanziamento dell'Unione europea sale al 55% per la parte internazionale. Ottenuto il finanziamento al 50% anche per la tratta nazionale da Bussoleno al nodo di Torino. In questo modo i lavori per l'intero tunnel di base sono banditi».
Anche su questo il ministro Toninelli ha avuto da ridire. «Chi oggi afferma che sono stati aumentati i fondi europei al 55% dovrebbe avere l'onestà intellettuale di dire che serve un nuovo regolamento europeo sul Connecting Europe Facility in cui devono essere deliberate e accettate le opere in cui aumentare eventualmente quei fondi ma soprattutto deve esserci un'approvazione da parte del Parlamento europeo, per cui passano due anni», ha concluso.
Ad ogni modo, il problema non sembra essere se la Tav all'interno dei nostri confini si farà, ma quando. Come ha detto il governatore Cirio, la linea ad alta velocità «si farà al 100%. Il governo riceverà la nostra lettera nella quale chiediamo di dare in fretta un segnale all'Europa che chiede certezze perché oltre ai bandi possano partire anche i capitolati di gara. Sono molto ottimista perché le elezioni europee hanno cambiato gli equilibri nel governo e il vicepremier Salvini ha assunto una posizione molto chiara e molto netta. Sono sicuro che ora anche gli altri politici confermeranno i suoi impegni», ha continuato.
«Il via libera da parte del cda di Telt ai bandi per i lavori, oltre all'aumento della quota di finanziamento comunitario nella misura del 50% per la tratta nazionale e del 55% per quella internazionale, significa che è stato portato a casa un risultato: il progetto continua», ha fatto sapere attraverso una nota Dario Gallina, presidente dell'Unione Industriale di Torino parlando della Tav Torino-Lione. «Non per questo dobbiamo abbassare la guardia. E la questione tempo resta quella cruciale, se non vogliamo perdere le risorse», ha proseguito Gallina. «Basti pensare che - mentre noi siamo qui a discutere su quello che è un piccolo pezzo di un collegamento globale - la Cina ha costruito oltre 20.000 km di tratte ad alta velocità. Questo non è più ammissibile», ha aggiunto.
Non solo, dunque, la Tav si farà, ma non sarà nemmeno leggera, come proposto giorni fa dal Movimento 5 stelle. Del resto, anche lo stesso vicepremier Salvini aveva auspicato che non si procedesse a costruire un'alta velocità leggera.
«Una Tav leggera? Assolutamente no, auspichiamo anche noi che non lo sia», ha detto ieri ha detto ieri il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, a margine dell'assemblea generale di Confindustria Novara Vercelli Valsesia. «A dicembre eravamo a Torino con 11 categorie in rappresentanza delle imprese. Il messaggio era chiaro, sì alla Tav, sì alle infrastrutture, sì alla crescita e no alla procedura di infrazione». Il numero uno dell'associazione degli industriali ha aggiunto anche che l'effetto combinato delle Olimpiadi Milano-Cortina e della Tav dà «sicuramente una dimensione di fiducia» al Paese.
Sembra dunque che siano solo i grillini a non volere la Tav in terra italiana. Ad ogni modo, per capire se e quando i lavori partiranno non dovremo aspettare molto. Ormai il tempo stringe.
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Riduci
Dopo la frenata nel vertice gialloblù, il capo grillino prova a rattoppare: «Si fa ma senza penalizzare il Sud, no a nostalgie della Padania». Attilio Fontana: «È una presa in giro». Luca Zaia: «Basta manfrine, il Paese è già diviso così».La coordinatrice del progetto Tav Torino Lione, Iveta Radicova: «È tutto avviato, tirarsi indietro sarebbe un danno». Il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti: «Niente di deciso su bandi e soldi».Lo speciale contiene due articoli.Si chiama «autonomia delle Regioni» il nuovo terreno di scontro tra Lega e Movimento 5 stelle. Affrontato nell'incandescente vertice preliminare di maggioranza di martedì notte a Palazzo Chigi, dove la delegazione ministeriale leghista si era presentata già armata di un testo-base da discutere, il tema si è subito trasformato in campo di battaglia. Ed è solo per questo che poi è stato fatto velocemente «saltare» dall'ordine del giorno del Consiglio dei ministri di ieri sera: per evitare che si trasformasse in un punto di non ritorno. In realtà, il conflitto è stato solo posticipato, perché si parla già di un nuovo vertice che dovrebbe tenersi mercoledì prossimo. Che le posizioni siano molto distanti, comunque, ne hanno dato una plastica rappresentazione le dichiarazioni giustapposte delle due parti. Il primo a parlare era stato il vicepremier Matteo Salvini, uscito dal vertice con lo sguardo cupo per quella che aveva definito «l'ennesima riunione a vuoto». Irritato, il leader leghista aveva aggiunto che «sull'autonomia i 5 stelle fanno muro e si nascondono dietro ai burocrati ministeriali». Evidentemente, durante il summit erano stati soprattutto i funzionari dei dicasteri (con il tacito accordo del Quirinale, molto sensibile alla questione) a segnalare le possibili controindicazioni di un incremento dei poteri tributari e delle potestà legislative da riservare alle Regioni.Ieri la Lega è tornata all'attacco. il suo capogruppo alla Camera, Riccardo Molinari, ha scagliato sul governo parole acuminate : «Le autonomie sono uno dei pilastri dell'accordo con il M5s», ha detto», «e negare quel pilastro, per la Lega, è negare uno dei punti principali del programma. Il governo non può andare avanti senza autonomie, questo è chiaro». Molinari ha aggiunto che il suo non era «un ultimatum», ma da suo ragionamento è uscito qualcosa di assai simile: «È un anno che ci stiamo ragionando, ora il percorso va chiuso. Le risposte vanno date in tempi rapidi». Anche Attilio Fontana, governatore leghista della Lombardia, uno degli enti territoriali che con Veneto ed Emilia Romagna si trova nello stadio più avanzato della trattativa per l'autonomia avviata con il governo gialloblù, ieri è stato insolitamente aggressivo: «È inutile continuare a prendere in giro la gente», ha dichiarato, «perché se il tentativo è realizzare una riforma che sarebbe una “non riforma", io dico subito che non la sottoscriverò mai». Fontana ha aggiunto un monito chiaramente indirizzato ai grillini, sia pure senza citare nessuno in particolare: «Se qualcuno sta cercando di portarci in quella direzione si sbaglia. O è un sì, ovvero una riforma seria e utile per il Paese, oppure è meglio che dicano no e basta. Chi non è d'accordo con l'autonomia che proponiamo lo dica ai milioni di persone che hanno chiesto di averla». Gli fa eco il governatore veneto Luca Zaia: «Noi abbiamo portato al referendum 2.328.000 veneti con oltre il 98% dei sì. Ci attendiamo che l'applicazione della Costituzione avvenga. Finiamola con queste manfrine del Paese di serie A e eerie B. Il paese è già così e non per colpa delle autonomie».È accaduto, insomma, proprio quello che La Verità ieri aveva previsto: cioè un'intensa accelerazione della polemica su uno dei temi più cari al Carroccio. È evidente, del resto, che la situazione di forza in cui si trova la Lega dopo la svolta delle elezioni europee offre a Salvini un momento cruciale, nel quale deve cercare di portare a casa più risultati che può. E l'autonomia regionale è ai primi posti. Il problema opposto dei 5 stelle, è invece che al proprio interno ha un'ampia frangia meridionalista contraria all'incremento dei poteri delle regioni settentrionali (soprattutto in ambito tributario e di mantenimento sul territorio dei proventi delle imposte), e il suo leader Luigi Di Maio sa bene che andare al voto sul testo - specialmente al Senato - porterebbe quasi inevitabilmente a una crisi dell'esecutivo. Per cercare di rintuzzare l'ira leghista ieri il vicepremier pentastellato ha pubblicato un lungo post su Facebook: «C'è troppo caos ingiustificato. L'autonomia la chiedono i cittadini di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna ed è giusto che si faccia. Sarà un'autonomia equilibrata, fatta bene, che gioverà veramente a Regioni e Comuni». Poi però la frenata: «Certo, alcune posizioni più estreme mi preoccupano. Non si può pensare di impoverire ancora di più regioni come la Puglia, la Calabria, la Sicilia, ma anche l'Abruzzo, il Lazio, le Marche, il Molise, la Campania e l'Umbria. Di meno ospedali, meno scuole e strade sempre più in dissesto non se ne parla». Fino alla stoccata al limite della propaganda rivolta all'alleato: «Non penso che qualcuno voglia tornare ai tempi della secessione della Padania e non ho motivo di dubitare che sapremo trovare insieme la migliore soluzione». Insomma, la Lega ha alzato la palla, ha provato a schiacciarla ma i 5 stelle hanno alzato il muro. In attesa del prossimo set. Mentre la fine della partita si avvicina.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/di-maio-traccheggia-sullautonomia-lombardia-e-veneto-non-ci-stanno-2638993796.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-tav-ormai-e-in-discesa-ma-toninelli-continua-ad-andare-controvento" data-post-id="2638993796" data-published-at="1765637520" data-use-pagination="False"> La Tav ormai è in discesa. Ma Toninelli continua ad andare controvento Ogni giorno che passa, sembra sempre di più che il progetto della Tav Torino Lione vedrà la luce. A dare il suo benestare ieri è stata la coordinatrice del Corridoio Mediterraneo, Iveta Radicova, a margine di un convegno all'Unione industriale di Torino. «Il risultato dell'appuntamento di ieri (di due giorni fa, ndr) a Parigi è chiaro», ha detto Radicova. «Il progetto continua. Poi da parte dell'Europa c'è il pieno rispetto per le decisioni di ogni governo che può scegliere in qualsiasi momento di ritirarsi, di spendere oppure perdere il denaro messo a disposizione. Certo, se il governo italiano fermasse tutto sarebbe un errore per il futuro dell'Europa». Il riferimento della rappresentante dell'Unione europea è al cda di Telt che si è tenuto nella capitale francese il 24 giugno. La società che gestisce gli appalti della Torino-Lione ha dato il via libera a bandi per un valore di circa un miliardo per il versante italiano che si aggiungono a quelli per quello francese. Alla riunione ha partecipato per la prima volta il neopresidente di centrodestra del Piemonte, Alberto Cirio Tutti fatti che si pongono in netto contrasto con il pensiero del ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Danilo Toninelli, da sempre contrario al progetto. «Non è partito alcun bando», ha detto. «Si tratta di manifestazioni di interesse da parte di eventuali imprese interessate, che durerà tre mesi e ha la clausola del recesso senza oneri e senza alcuna motivazione da parte dello Stato interessato», ha detto. Fatto sta che il presidente del Piemonte, a seguito del cda, ha parlato di una «giornata storica: con la pubblicazione dei bandi per i lavori del tunnel in Italia e il cofinanziamento dell'Unione europea sale al 55% per la parte internazionale. Ottenuto il finanziamento al 50% anche per la tratta nazionale da Bussoleno al nodo di Torino. In questo modo i lavori per l'intero tunnel di base sono banditi». Anche su questo il ministro Toninelli ha avuto da ridire. «Chi oggi afferma che sono stati aumentati i fondi europei al 55% dovrebbe avere l'onestà intellettuale di dire che serve un nuovo regolamento europeo sul Connecting Europe Facility in cui devono essere deliberate e accettate le opere in cui aumentare eventualmente quei fondi ma soprattutto deve esserci un'approvazione da parte del Parlamento europeo, per cui passano due anni», ha concluso. Ad ogni modo, il problema non sembra essere se la Tav all'interno dei nostri confini si farà, ma quando. Come ha detto il governatore Cirio, la linea ad alta velocità «si farà al 100%. Il governo riceverà la nostra lettera nella quale chiediamo di dare in fretta un segnale all'Europa che chiede certezze perché oltre ai bandi possano partire anche i capitolati di gara. Sono molto ottimista perché le elezioni europee hanno cambiato gli equilibri nel governo e il vicepremier Salvini ha assunto una posizione molto chiara e molto netta. Sono sicuro che ora anche gli altri politici confermeranno i suoi impegni», ha continuato. «Il via libera da parte del cda di Telt ai bandi per i lavori, oltre all'aumento della quota di finanziamento comunitario nella misura del 50% per la tratta nazionale e del 55% per quella internazionale, significa che è stato portato a casa un risultato: il progetto continua», ha fatto sapere attraverso una nota Dario Gallina, presidente dell'Unione Industriale di Torino parlando della Tav Torino-Lione. «Non per questo dobbiamo abbassare la guardia. E la questione tempo resta quella cruciale, se non vogliamo perdere le risorse», ha proseguito Gallina. «Basti pensare che - mentre noi siamo qui a discutere su quello che è un piccolo pezzo di un collegamento globale - la Cina ha costruito oltre 20.000 km di tratte ad alta velocità. Questo non è più ammissibile», ha aggiunto. Non solo, dunque, la Tav si farà, ma non sarà nemmeno leggera, come proposto giorni fa dal Movimento 5 stelle. Del resto, anche lo stesso vicepremier Salvini aveva auspicato che non si procedesse a costruire un'alta velocità leggera. «Una Tav leggera? Assolutamente no, auspichiamo anche noi che non lo sia», ha detto ieri ha detto ieri il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, a margine dell'assemblea generale di Confindustria Novara Vercelli Valsesia. «A dicembre eravamo a Torino con 11 categorie in rappresentanza delle imprese. Il messaggio era chiaro, sì alla Tav, sì alle infrastrutture, sì alla crescita e no alla procedura di infrazione». Il numero uno dell'associazione degli industriali ha aggiunto anche che l'effetto combinato delle Olimpiadi Milano-Cortina e della Tav dà «sicuramente una dimensione di fiducia» al Paese. Sembra dunque che siano solo i grillini a non volere la Tav in terra italiana. Ad ogni modo, per capire se e quando i lavori partiranno non dovremo aspettare molto. Ormai il tempo stringe.
Kaja Kallas (Ansa)
Kallas è il falco della Commissione, quando si tratta di Russia, e tiene a rimarcarlo. A proposito dei fondi russi depositati presso Euroclear, l’estone dice nell’intervista che il Belgio non deve temere una eventuale azione di responsabilità da parte della Russia, perché «se davvero la Russia ricorresse in tribunale per ottenere il rilascio di questi asset o per affermare che la decisione non è conforme al diritto internazionale, allora dovrebbe rivolgersi all’Ue, quindi tutti condivideremmo l’onere».
In pratica, cioè, l’interpretazione piuttosto avventurosa di Kallas è che tutti gli Stati membri sarebbero responsabili in solido con il Belgio se Mosca dovesse ottenere ragione da qualche tribunale sul sequestro e l’utilizzo dei suoi fondi.
Tribunale sui cui l’intervistata è scettica: «A quale tribunale si rivolgerebbe (Putin, ndr)? E quale tribunale deciderebbe, dopo le distruzioni causate in Ucraina, che i soldi debbano essere restituiti alla Russia senza che abbia pagato le riparazioni?». Qui l’alto rappresentante prefigura uno scenario, quello del pagamento delle riparazioni di guerra, che non ha molte chance di vedere realizzato.
All’intervistatore che chiede perché per finanziare la guerra non si usino gli eurobond, cioè un debito comune europeo, Kallas risponde: «Io ho sostenuto gli eurobond, ma c’è stato un chiaro blocco da parte dei Paesi Frugali, che hanno detto che non possono farlo approvare dai loro Parlamenti». È ovvio. La Germania e i suoi satelliti del Nord Europa non vogliano cedere su una questione sulla quale non hanno mai ceduto e per la quale, peraltro, occorre una modifica dei trattati su cui serve l’unanimità e la ratifica poi di tutti i parlamenti. Con il vento politico di destra che soffia in tutta Europa, con Afd oltre il 25% in Germania, è una opzione politicamente impraticabile. Dire eurobond significa gettare la palla in tribuna.
In merito all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea già nel 2027, come vorrebbe il piano di pace americano, Kallas se la cava con lunghe perifrasi evitando di prendere posizione. Secondo l’estone, l’adesione all’Ue è una questione di merito e devono decidere gli Stati membri. Ma nel piano questo punto è importante e sembra difficile che venga accantonato.
Kallas poi reclama a gran voce un posto per l’Unione al tavolo della pace: «Il piano deve essere tra Russia e Ucraina. E quando si tratta dell’architettura di sicurezza europea, noi dobbiamo avere voce in capitolo. I confini non possono essere cambiati con la forza. Non ci dovrebbero essere concessioni territoriali né riconoscimento dell’occupazione». Ma lo stesso Zelensky sembra ormai convinto che almeno un referendum sulla questione del Donbass sia possibile. Insomma, Kallas resta oltranzista ma i fatti l’hanno già superata.
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Riduci
Carlo Messina all'inaugurazione dell'Anno Accademico della Luiss (Ansa)
La domanda è retorica, provocatoria e risuona in aula magna come un monito ad alzare lo sguardo, a non limitarsi a contare i droni e limare i mirini, perché la risposta è un’altra. «In Europa abbiamo più poveri e disuguaglianza di quelli che sono i rischi potenziali che derivano da una minaccia reale, e non percepita o teorica, di una guerra». Un discorso ecumenico, realistico, che evoca l’immagine dell’esercito più dolente e sfinito, quello di chi lotta per uscire dalla povertà. «Perché è vero che riguardo a welfare e democrazia non c’è al mondo luogo comparabile all’Europa, ma siamo deboli se investiamo sulla difesa e non contro la povertà e le disuguaglianze».
Le parole non scivolano via ma si fermano a suggerire riflessioni. Perché è importante che un finanziere - anzi colui che per il 2024 è stato premiato come banchiere europeo dell’anno - abbia un approccio sociale più solido e lungimirante delle istituzioni sovranazionali deputate. E lo dimostri proprio nelle settimane in cui sentiamo avvicinarsi i tamburi di Bruxelles con uscite guerrafondaie come «resisteremo più di Putin», «per la guerra non abbiamo fatto abbastanza» (Kaja Kallas, Alto rappresentante per la politica estera) o «se vogliamo evitare la guerra dobbiamo preparaci alla guerra», «dobbiamo produrre più armi, come abbiamo fatto con i vaccini» (Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea).
Una divergenza formidabile. La conferma plastica che l’Europa dei diritti, nella quale ogni minoranza possibile viene tutelata, si sta dimenticando di salvaguardare quelli dei cittadini comuni che alzandosi al mattino non hanno come priorità la misura dell’elmetto rispetto alla circonferenza cranica, ma il lavoro, la famiglia, il destino dei figli e la difesa dei valori primari. Il ceo di Banca Intesa ricorda che il suo gruppo ha destinato 1,5 miliardi per combattere la povertà, sottolinea che la grande forza del nostro Paese sta «nel formidabile mondo delle imprese e nel risparmio delle famiglie, senza eguali in Europa». E sprona le altre grandi aziende: «In Italia non possiamo aspettarci che faccia tutto il governo, se ci sono aziende che fanno utili potrebbero destinarne una parte per intervenire sulle disuguaglianze. Ogni azienda dovrebbe anche lavorare perché i salari vengano aumentati. Sono uno dei punti di debolezza del nostro Paese e aumentarli è una priorità strategica».
Con l’Europa Carlo Messina non ha finito. Parlando di imprenditoria e di catene di comando, coglie l’occasione per toccare in altro nervo scoperto, perfino più strutturale dell’innamoramento bellicista. «Se un’azienda fosse condotta con meccanismi di governance come quelli dell’Unione Europea fallirebbe». Un autentico missile Tomahawk diretto alla burocrazia continentale, a quei «nani di Zurigo» (copyright Woodrow Wilson) trasferitisi a Bruxelles. La spiegazione è evidente. «Per competere in un contesto globale serve un cambio di passo. Quella europea è una governance che non si vede in nessun Paese del mondo e in nessuna azienda. Perché è incapace di prendere decisioni rapide e quando le prende c’è lentezza nella realizzazione. Oppure non incidono realmente sulle cose che servono all’Europa».
Il banchiere è favorevole a un ministero dell’Economia unico e ritiene che il vincolo dell’unanimità debba essere tolto. «Abbiamo creato una banca centrale che gestisce la moneta di Paesi che devono decidere all’unanimità. Questo è uno degli aspetti drammatici». Ma per uno Stato sovrano che aderisce al club dei 27 è anche l’unica garanzia di non dover sottostare all’arroganza (già ampiamente sperimentata) di Francia e Germania, che trarrebbero vantaggi ancora più consistenti senza quel freno procedurale.
Il richiamo a efficienza e rapidità riguarda anche l’inadeguatezza del burosauro e riecheggia la famosa battuta di Franz Joseph Strauss: «I 10 comandamenti contengono 279 parole, la dichiarazione americana d’indipendenza 300, la disposizione Ue sull’importazione di caramelle esattamente 25.911». Un esempio di questa settimana. A causa della superfetazione di tavoli e di passaggi, l’accordo del Consiglio Affari interni Ue sui rimpatri dei migranti irregolari e sulla liceità degli hub in Paesi terzi (recepito anche dal Consiglio d’Europa) entrerà in vigore non fra 60 giorni o 6 mesi, ma se va bene fra un anno e mezzo. Campa cavallo.
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Riduci
Luca Casarini. Nel riquadro, il manifesto abusivo comparso a Milano (Ansa)
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
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