
Sul voto in Umbria il pentastellato inventa la «giunta civica», ovvero il patto con i democratici. Gli stessi che poche settimane fa accusava di rubare i bambini. Nicola Zingaretti non vede l'ora: «È per il bene dei cittadini». «Un sarto che deve tagliare un abito per un gobbo, deve fare la gobba anche all'abito». La metafora è di Giovanni Giolitti che nell'Italia del primo Novecento, di accordicchi adatti ad ogni silhouette pur di conservare il potere, se ne intendeva. Difficile che Luigi Di Maio ne abbia sentito parlare (sta imparando l'inglese, la Storia viene dopo), ma ieri ha dato prova di avere capito il gioco, applicabile non solo al governo del Paese ma anche ai territori. Test decisivo sarà la tornata elettorale in Umbria. Non riuscendo ancora a dire alla base «facciamo l'alleanza col Pd», ha scritto una lettera al quotidiano La Nazione in cui teorizza con lessico curiale: «Tutte le forze politiche facciano un passo indietro e lascino spazio a una giunta civica, che noi sosterremo solo con la presenza in consiglio regionale, senza pretese di assessorati».Il capo politico del Movimento 5 stelle propone per Perugia l'inciucio al cioccolato amaro. E lo chiede senza un minimo di coerenza a quello che fino a un mese fa era «il partito di Bibbiano», con il lupo di Gubbio prima dell'incontro con San Francesco come simbolo. Lo chiede al nemico storico in regione, cannoneggiato a ragione dopo gli scandali politici che hanno costretto la presidente dem Catiuscia Marini alle dimissioni. Lo chiede a quel Pd uscito con le ossa rotte da Palazzo Donini, con l'arresto di un assessore e del segretario regionale, travolti dallo scandalo sanità. Nel nome del trasformismo, ora va tutto bene. Lo stile di Giuseppe Conte fa proseliti e Di Maio, trasferito armi e bagagli il partito nel centrosinistra, allegramente scrive il Patto civico per l'Umbria. In attesa di vergarne un altro, ben più strategico, per l'Emilia Romagna.«Ognuno correrà con il proprio simbolo in sostegno di un presidente civico», continua l'editto di Perugia. «Fuori dalle appartenenze politiche e con un programma comune. L'Umbria può essere la culla di un nuovo modo di innovare la politica a partire dal locale, di un nuovo modo di fare imprenditoria coinvolgendo i giovani e il territorio. Un appello chiaro a tutte le forze politiche che hanno a cuore il bene comune: facciamo tutti un passo indietro mentre tutti gli umbri di buona volontà ne facciano uno in avanti». In vista della tornata elettorale del 27 ottobre, l'unico punto forte del programma comune è battere il centrodestra, oggi favorito nella regione rossa, in crisi dopo anni di mala gestione della cosa pubblica e di scandali a cielo aperto.L'appello che contiene la proposta al Pd di lavare i panni sporchi nascondendosi dietro la maschera della purezza civica (o meglio cinica), è la conferma di una svolta grillina verso la politica del potere per il potere. Se la nuova, spregiudicata maggioranza, ha perfino un senso ultimo declinata nel parlamentarismo romano, più difficile è trovarlo negli accordi locali dove l'opportunismo appare in tutta la sua evidenza. Per il Pd questo è manna, è la luce in fondo al tunnel, è la carta della disperazione. E infatti le adesioni alla proposta arrivano immediate. Nicola Zingaretti: «Anche in Umbria il confronto può andare avanti. Ci sono tutte le condizioni per un processo nuovo che valorizzi la qualità e metta al centro il lavoro, la sostenibilità e il bene dei cittadini umbri». Dario Franceschini: «Di Maio ha detto cose importanti. Vedremo, un passo alla volta. Ma l'Umbria è vicina e io interpreto le sue parole come un percorso che possiamo iniziare a intraprendere». Così la mutazione genetica è completa e colui che per almeno un anno era stato dipinto come un semianalfabeta «bibitaro del San Paolo», ora sembra un incrocio fra il don Luigi Sturzo dei «liberi e forti» e l'Enrico Berlinguer del compromesso storico. Considerare gli elettori dei babbei è sempre un rischio. Il destino dei 5 stelle sembra quello di invecchiare precocemente, passando da un alleato (la Lega) che sfruttava le debolezze politiche del movimento per ampliare il consenso a un altro diversamente pericoloso. Essendo un partito di palazzo, con un potere che affonda nei gangli delle istituzioni, il Pd ha tutto l'interesse a spolpare dall'interno l'impalcatura grillina, abbandonandola come un guscio di vongola sulla battigia dopo essersi presi parlamentari e benefici. Ne ha bisogno come il pane in vista della scissione renziana sempre più chiacchierata, sempre più prossima. Mentre da Cortona tesseva le lodi di Di Maio, in realtà Franceschini pensava alla slavina interna in arrivo e alla mossa del cavallo che Matteo Renzi potrebbe annunciare a fine ottobre alla decima Leopolda. «Lo dico a Renzi, non farlo. Il Pd è casa di tutti, è casa tua e casa nostra», sottolineava il neoministro della Cultura. «Il popolo della Leopolda è parte del grande popolo del Pd. Non separiamo questo popolo, non indeboliamoci spaccando il partito di fronte a questa destra pericolosa». Al Nazzareno sanno che Renzi se ne andrà per due motivi: dragare il consenso dell'elettorato di centro che non sta con Matteo Salvini ma neppure si riconosce in questo governo rosso metallizzato (che peraltro l'ex premier ha contribuito a far nascere) e anticipare la stessa mossa di Carlo Calenda. «L'unità del Pd è indispensabile», piagnucola Franceschini. «Non voglio credere a questa storia della scissione o a quella, ridicola, della separazione consensuale. Quando spacchi un partito è sempre traumatico». Dice proprio così, mentre si getta fra le braccia di Di Maio anche in Umbria. E poi in Calabria. E poi in Emilia Romagna. Gli faccia togliere almeno le querele per Bibbiano e per Banca Etruria. Sarebbe più dignitoso.
Robert Redford (Getty Images)
Incastrato nel ruolo del «bellone», Robert Redford si è progressivamente distaccato da Hollywood e dai suoi conformismi. Grazie al suo festival indipendente abbiamo Tarantino.
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Nella sua prima intervista, il Papa si conferma non etichettabile: parla di disuguaglianze e cita l’esempio di Musk, ma per rimarcare come la perdita del senso della vita porti all’idolatria del denaro. E chiarisce: il sinodo non deve diventare il parlamento del clero.