2019-11-13
Di Maio ora strepita: «Se fai disastri, paghi»
L'interruzione degli impianti di Cracovia scatterà il 23 novembre prossimo. Gli altiforni saranno riaccesi, sostengono, «quando il mercato migliorerà» Ma è una spiegazione che sa di fregatura.Il ministro degli Esteri chiude allo scudo penale, proprio mentre il premier Giuseppe Conte incontra i grillini per convincerli a ripensare all'immunità per i francoindiani. Che, tuttavia, hanno già scaricato Taranto. Palazzo Chigi vende fuffa: «Serve cabina di regia».Lo speciale contiene due articoliUna nota secca, di poche righe, pubblicata sul sito Internet della filiale polacca. Arcelor Mittal sospende la produzione a Cracovia a tempo indeterminato. L'interruzione scatterà il 23 novembre prossimo, con un preavviso davvero minimo. È una sospensione temporanea, si dice, ma i tempi al momento sono imprevedibili.Non si sa in quale momento gli altiforni saranno riaccesi: dipenderà da «quando le condizioni del mercato miglioreranno». Per tutti i dipendenti coinvolti nella decisione la multinazionale siderurgica assicura di avere «individuato soluzioni» occupazionali.È un taglio secco di 3 milioni di tonnellate all'anno che riflette la difficilissima situazione del mercato dell'acciaio in Europa. Ma che rafforza il sospetto che il contenzioso aperto a Taranto in realtà nasconda una precisa scelta industriale, quella di svincolarsi da un sito produttivo che per Arcelor Mittal si sta rivelando una gigantesca palla al piede. La protezione legale tolta dal governo italiano si confermerebbe così il pretesto perfetto per sfilarsi.La decisione di ridurre l'attività in Polonia, Paese di minatori e ferriere, era stata presa a maggio e sarebbe dovuta scattare a settembre. La chiusura era però stata rinviata. La produzione negli impianti della Slesia, uno a Cracovia e due nella località non lontana di Dabrowa Gornicza, erano stati ridotti al minimo tecnico «in adeguamento al livello più basso della domanda». Gli impianti di Cracovia hanno un valore storico e simbolico: le prime acciaierie furono costruite da Stalin e intitolate a Lenin; attorno a esse negli anni Cinquanta fu costruito il quartiere operaio di Nowa Huta. I suoi abitanti e le tute blu furono tra i primi a ribellarsi al governo comunista e a chiedere rispetto per i diritti umani e dei lavoratori. I siti siderurgici furono una roccaforte del sindacato Solidarnosc fondato da Lech Walesa. Arcelor Mittal è arrivata a Nowa Huta nel 2003 comprando l'acciaieria all'epoca in mano allo Stato.Ma per una scelta dei tempi che non sembra affatto casuale, la chiusura in Polonia è stata comunicata ufficialmente nel giorno in cui l'azienda ha depositato l'atto di citazione per il recesso del contratto di affitto dell'ex Ilva. Nello stesso giorno, il gigante siderurgico ha compiuto due passi indietro in Europa, a Cracovia e a Taranto. È una coincidenza che la dice lunga sia sulla congiuntura del mercato dell'acciaio sia sulle intenzioni dei franco indiani, che evidentemente si sono convinti di essersi infilati in un vicolo cieco quando hanno strappato il contratto di affitto dell'ex Ilva preliminare alla cessione.Geert Verbeeck, amministratore delegato di Arcelor Mittal in Polonia, ricorda che all'Est gli altiforni furono già chiusi per 7 mesi tra l'agosto 2010 e il marzo 2011 e successivamente vennero riaccesi una volta che il mercato migliorò. Oggi la situazione si ripete: «Gli impianti stanno al momento lavorando al loro minimo tecnico», dice il manager, «quindi non possiamo ridurre ulteriormente i volumi di produzione. Dal momento che la situazione del mercato dell'acciaio continua a deteriorarsi e le previsioni restano cupe, purtroppo non abbiamo altra scelta che spegnerli». La colpa sarebbe in gran parte legata alla stasi che colpisce il settore dell'auto. Nei primi 9 mesi di quest'anno la produzione siderurgica in Europa è scesa del 2,8% rispetto allo stesso periodo del 2018 mentre quella mondiale è cresciuta del 3,9%. Secondo Eurofer, l'associazione europea dell'acciaio, il 2019 rischia di essere l'anno peggiore di tutto il decennio.Lo scorso maggio la multinazionale aveva annunciato anche lo spegnimento degli impianti nelle Asturie spagnole e il ridimensionamento degli impegni sottoscritti a Taranto. L'indebolimento della domanda, spiegava l'azienda, andava di pari passo con l'aumento delle importazioni, in particolare di acciaio russo e cinese, nonostante le misure di salvaguardia adottate dalla Commissione europea. Ma i signori dell'acciaio chiedevano all'Ue una maggiore protezione commerciale, mentre Bruxelles si mostrava sempre più severa con i limiti ambientali e sempre meno generosa con gli aiuti per sostenere i costi energetici.In quell'occasione, ArcelorMittal aveva garantito che in Italia la strategia a lungo termine non cambiava e che il rallentamento produttivo sarebbe stato di breve durata. Non si prevedeva nessun impatto sugli investimenti inseriti nel piano industriale e ambientale per Taranto. Ma già allora i sindacati contestarono la scelta aziendale di comunicare il ridimensionamento della produzione senza informarli preventivamente.La scure dei franco indiani si è abbattuta sulla Polonia probabilmente perché gli operai di Cracovia non hanno mai alzato le barricate contro la fabbrica. Le proteste per le polveri e l'inquinamento non sono venute da verdi o ecologisti, ma da piccoli gruppi locali. «Ma di fatto gli oppositori non hanno seguito», ha spiegato Krzysztof Wòjcik, leader del sindacato autonomo degli operai, «anche perché l'acciaieria è la più grande fabbrica della zona, crea lavoro e versa la maggior parte delle imposte che paga all'amministrazione della città». I dipendenti diretti sono circa 1.200 e l'unico altoforno ancora attivo, a carbone, alimenta anche un indotto stimato in 8.000 posti di lavoro. E sono proprio i lavoratori dell'indotto a rischiare di più nel momento in cui Arcelor Mittal spegne gli impianti e assegna nuove mansioni ai dipendenti diretti.Stefano Filippi<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/di-maio-ora-strepita-se-fai-disastri-paghi-2641325179.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="di-maio-ora-strepita-se-fai-disastri-paghi" data-post-id="2641325179" data-published-at="1760482112" data-use-pagination="False"> Di Maio ora strepita: «Se fai disastri, paghi» Luigi Di Maio alza la voce su Ilva: a Fuori dal coro, il leader politico del M5s ha alzato un muro sullo scudo penale per Arcelor Mittal: «Piacerebbe a tanti imprenditori avere una norma come questa, ma se provochi un disastro ambientale devi pagare. Sarebbe un problema enorme per la maggioranza», ha aggiunto, se Pd o Iv presentassero emendamenti a favore dello scudo. «Se cominciamo con gli sgambetti, Italia viva è quella che ha più da perdere». Di Maio ha chiuso anche alla nazionalizzazione: «Sarebbe dare un alibi agli indiani, sarebbe dire che possono andarsene. Invece devono restare qui. Andremo contro di loro in giudizio». Ma la partita è anche tutta politica. Per il capo politico grillino si tratta infatti di un modo per ritrovare centralità, dopo che è stata Barbara Lezzi, nelle scorse ore, a dettare l'aut aut grillino. Ieri Giuseppe Conte si è fatto politicamente umiliare dalla stessa Lezzi e da altri parlamentari del M5s pugliesi, convocati a palazzo Chigi insieme a Di Maio, Stefano Patuanelli e Federico D'Incà. Conte ha cercato di convincere i parlamentari a dare il via libera all'emendamento presentato da Italia viva che reintroduce lo scudo penale «per togliere ogni alibi ad Arcelor Mittal, anche in vista della battaglia penale». «Scordatelo, non lo voterò mai», ha risposto a muso duro la Lezzi, che ha confermato quanto detto ieri alla Verità in una intervista che ha scosso l'intero governo. Uno smacco anche per Giggino che ormai ha completamente perso il controllo del partito. Conte, secondo alcune indiscrezioni, avrebbe fatto sapere ad Arcelor Mittal che il governo sarebbe disponibile a ridiscutere alcuni punti dell'accordo: oltre alla reintroduzione dello scudo (che, come abbiamo visto, sembra una strada politicamente impraticabile, anche se c'è chi ipotizza di mettere addirittura la fiducia), il premier col ciuffo avrebbe lanciato segnali di apertura anche su altri versanti. La multinazionale, però, sta procedendo sulla strada legale dell'addio all'ex Ilva. Ieri i legali di Arcelor Mittal hanno depositato all'iscrizione a ruolo in Tribunale a Milano l'atto di citazione per il recesso del contratto di affitto, preliminare all'acquisto, dell'ex Ilva. Il documento è già sul tavolo del presidente del Tribunale di Milano, Roberto Bichi. Con il deposito dell'atto di citazione, la causa è stata iscritta a ruolo e ora il presidente Bichi dovrà assegnare il procedimento, in base a rigidi criteri tabellari, a una delle due sezioni specializzate in materia di imprese. L'atto è il documento con cui l'azienda formalizza la volontà di recedere dal contratto di affitto che, secondo gli accordi, avrebbe portato all'acquisto dell'ex Ilva il primo maggio 2021. Come se non bastassero i guai, i sindacati dei metalmeccanici, Fiom, Fim e Uilm, hanno rivelato che ieri, nello stabilimento siderurgico di Taranto, si è verificato un gravissimo incidente: «Una siviera appena uscita dal convertitore 1», hanno raccontato i sindacati, «si è bucata svestendo acciaio in fossa, procurando fiamme altissime che raggiungevano le tubazioni gas». Per poi aggiungere: «Riteniamo intollerabile l'intero accaduto a dimostrazione che l'acciaieria e tutti gli altri impianti necessitano di interventi immediati per la salute la sicurezza dei lavoratori». Se la vicenda non fosse drammatica, con quasi 15.000 lavoratori che rischiano di finire in mezzo a una strada, ci sarebbe da ridere per la curiosa e tutta mediatica iniziativa di Conte, che ha scritto una letterina di Natale ai suoi ministri, attraverso la quale chiede che ciascuno porti proposte per salvare la fabbrica. «In vista del prossimo Consiglio dei ministri di giovedì 14 novembre», ha scritto Giuseppi, come rivelato da Repubblica, «ti invito, nell'ambito delle competenze del tuo dicastero, ad elaborare e, ove fossi nella condizione, a presentare proposte, progetti, soluzioni normative o misure specifiche, sui quali avviare, in quella sede, un primo scambio di idee. La discussione proseguirà poi all'interno della cabina di regia che ho intenzione di istituire con l'obiettivo di pervenire, con urgenza, a soluzioni eque e sostenibili». Gli italiani sanno bene che quando si istituisce una «cabina di regia» significa che non si sa assolutamente che pesci pigliare. Lo scenario a questo punto più verosimile è quello dell'ingresso dello Stato. Una nazionalizzazione, con Cassa depositi e prestiti che dovrebbe dissanguarsi per tenere aperta l'azienda, ripianando le perdite. «Attenzione», ha detto ieri il capogruppo del Pd alla Camera, Graziano Delrio, a Sky Tg24, «ci vogliono nervi saldi, in ballo c'è il destino del nostro paese. Se il presidente del Consiglio vuole dare una garanzia di un potenziale ingresso di Cdp è una buona idea, ma l'importante è non creare confusione, stare tutti uniti e compatti, e riportare al tavolo l'azienda». Poche idee e assai confuse, nel Pd, considerato che il ministro dem dell'Economia, Roberto Gualtieri, in commissione Bilancio ha spiegato che il tema all'ordine del giorno non è la nazionalizzazione, ma «il rispetto degli accordi e l'individuazione di una soluzione sostenibile di mercato e di rilancio, anche per il conseguimento degli obiettivi di bonifica. Piano industriale e ambientale sono strettamente collegati», ha aggiunto Gualtieri, «si deve puntare al ripristino degli approvvigionamenti e che l'Ilva continui a produrre».Chi non darebbe il suo ok alla nazionalizzazione è Silvio Berlusconi, che ha commentato: «Come se ne esce su Ilva? Ci si entra con i soldi di tutti noi, non credo ci sia un'altra soluzione. Noi siamo contrari». Carlo Tarallo
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