2019-10-21
Di Maio avverte Conte: «Basta ultimatum»
In vista del vertice di maggioranza di oggi, il ministro degli Esteri ridimensiona il premier: «Senza le proposte del M5s la manovra non si fa». Alfonso Bonafede: «Pronta la norma sul carcere agli evasori». Nicola Zingaretti getta acqua sul fuoco: «Il vero avversario è la destra».Un tranquillo weekend di paura per il governo. In cui, più ancora dei reciproci attacchi, pesano le finte rassicurazioni (a cui infatti non crede nessuno), e l'attesa per un vertice di maggioranza (previsto oggi) che realisticamente segnerà solo il giro di boa tra le polemiche della settimana passata e quelle della prossima. Ogni incontro della maggioranza funziona così: si svolge a tarda sera o di notte, per «scavallare» i tg della cena e i quotidiani del mattino successivo; poi qualcuno annuncia il grande accordo, l'intesa su tutto. Ma bastano poche ore affinché, a uno a uno, tutti comincino a sfilarsi e a giocare al blame game, colpevolizzando tutti gli altri. Vedremo se anche stavolta le cose prenderanno questa piega. Ieri è stato Luigi Di Maio a far sentire a Giuseppe Conte (che sabato aveva detto: «Dobbiamo fare squadra, chi non la pensa così è fuori») il peso di quello che in Aula è ancora il partito di maggioranza relativa: «I toni di queste ore», ha detto il capo politico M5s, «mi meravigliano. I toni “o si fa così o si va a casa" fanno male al Paese e al governo. In politica si ascolta, si prendono in considerazione le proposte della prima forza politica che è il M5s. Se va a casa il M5s, è difficile che ci sia un governo, anzi quasi impossibile».E, dopo questo antipasto, è arrivata la portata principale: «Il vertice deve servire a mettere nella legge di bilancio tre nostre proposte che per noi sono imprescindibili: o si fanno o non esiste la manovra. La prima proposta è il carcere ai grandi evasori e la confisca per sproporzione. Secondo: bene alle multe ai commercianti che non usano il Pos, ma se abbattiamo i costi di Pos e carte di credito: altrimenti introduciamo una nuova tassa, non una multa. Terzo punto, le giovani partite Iva devono continuare a pagare solo il 15% delle tasse». Il che chiarisce la voglia grillina di uscire dal vertice con tre bandierine in mano. Non a caso, nel tardo pomeriggio di ieri è arrivata la dichiarazione del Guardasigilli, Alfonso Bonafede: «Il pacchetto sul carcere per i grandi evasori è pronto. Domani [oggi per chi legge, ndr] dovremmo avere nel dettaglio la norma». La soglia che farà scattare le manette, ha anticipato il ministro, sarà fissata a 100.000 euro.Dalla Leopolda, intanto, i renziani hanno contribuito ad arroventare il clima. L'altro ieri era parso evidente e beffardo il gioco delle parti tra il poliziotto cattivo (Maria Elena Boschi), che aveva appiccicato al Pd l'etichetta di «partito delle tasse», e il poliziotto buono, l'ex tesoriere Francesco Bonifazi, che aveva messo a verbale una tenue smentita. Ieri ha chiuso Matteo Renzi, camicia bianca e abbronzatura paonazza. E il suo intervento, che doveva rassicurare, ha sparso mine sul terreno. Il capo di Italia viva è sembrato voler blindare la legislatura (ha lungamente parlato della necessità di eleggere un nuovo Presidente della Repubblica «europeista», e il mandato di Sergio Mattarella scade nel 2022), ma non il governo, con un passaggio minaccioso per Conte: «Chi vuole scendere prima può farlo. Staccare la spina? Noi vogliamo attaccare la corrente». Ma anche Nicola Zingaretti non dev'essere rimasto contento quando Renzi ha indicato il Pd come bersaglio di un'opa politica ostile: fermi restando alcuni princìpi comuni, «sul resto saremo competitor del Pd; noi vogliamo fare quel che ha fatto Emmanuel Macron e che certo non ha avuto il consenso dei socialisti francesi. Vogliamo assorbire larga parte di quel consenso, vogliamo arrivare come minimo sindacale in doppia cifra. Vogliamo offrire uno spazio a chi non crede nella casa dei sovranisti e non sta in un disegno strutturale di alleanza tra Pd e M5s. Noi non la faremo quell'alleanza perché il nostro mondo è diverso, non è casa nostra». Così parlò l'uomo che, 40 giorni fa, produsse quell'alleanza.E Zingaretti? Nel weekend è stato il più cauto, ma venerdì scorso aveva fatto veicolare retroscena su un Pd pronto al voto subito, in caso di ulteriori litigi. Proprio lui che, in pieno agosto, aveva preferito un governicchio alle elezioni. Ieri, il segretario dem su Facebook ha provato a gettare acqua sul fuoco: «O si organizza un campo alternativo o regaliamo l'Italia a Matteo Salvini. Abbiamo deciso insieme meno tasse per chi lavora, più investimenti soprattutto per opere green, più giustizia sociale con l'abolizione dei ticket, poi industria 4.0, piano casa, asili nido gratuiti. Partiamo da qui ma ora più uniti, perché ricordo a tutti che l'avversario è la destra».Dopo di che, pesano come macigni altre due date. La prima è quella di mercoledì, quando Giuseppe Conte sarà davanti al Copasir sulla storiaccia del Russiagate. Che, vista con gli occhi della sua maggioranza, non è stato solo il tentativo di Conte di vendere a Donald Trump un aiutino, ma soprattutto un modo per accendere i riflettori su anni in cui a governare c'era il Pd (prima Matteo Renzi e poi Paolo Gentiloni). Se gli uomini di Trump tireranno fuori un report in cui si accusano manine italiane di aver fabbricato prove farlocche contro di lui, sarà inevitabile che Renzi e Gentiloni pensino di essere stati «venduti» da Conte a Washington. Immaginate il clima. La seconda data è domenica 27, con il voto in Umbria, prima prova elettorale comune - sia pure dietro la foglia di fico «civica» - per l'alleanza Pd-M5s. Se Zingaretti e Di Maio dovessero perdere, lo scossone sarà doppio: per la sconfitta e per il prevedibile cannoneggiamento dei renziani, che in Umbria - per debolezza e per calcolo - non hanno presentato la lista. Ma - c'è da scommetterlo - saranno presentissimi per il commento al voto.
Giorgia Meloni ad Ancona per la campagna di Acquaroli (Ansa)
«Nessuno in Italia è oggetto di un discorso di odio come la sottoscritta e difficilmente mi posso odiare da sola. L'ultimo è un consigliere comunale di Genova, credo del Pd, che ha detto alla capogruppo di Fdi «Vi abbiamo appeso a testa in giù già una volta». «Calmiamoci, riportiamo il dibattito dove deve stare». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nel comizio di chiusura della campagna elettorale di Francesco Acquaroli ad Ancona. «C'é un business dell'odio» ha affermato Giorgia Meloni. «Riportiamo il dibattito dove deve stare. Per alcuni è difficile, perché non sanno che dire». «Alcuni lo fanno per strategia politica perché sono senza argomenti, altri per tornaconto personale perché c'e' un business dell'odio. Le lezioni di morale da questi qua non me le faccio fare».
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