2025-02-16
Quando lo facevano Obama e la Troika era lecito interferire con gli Stati sovrani
Il mito dei dem tifò per Matteo Renzi, secondo il «Wsj» Angela Merkel chiese al Colle la testa del Cav. E l’Ue voleva «insegnarci a votare».C’erano una volta le interferenze lecite. Quelle dei leader à la page, o della terrificante triade Commissione Ue-Bce-Fondo monetario, che dettava ai Paesi membri dell’Unione manovre lacrime e sangue. Successe alla Grecia, successe all’Italia. Qualche tronfio eurocrate meditò di mettere sotto tutela persino i nostri elettori: «I mercati insegneranno agli italiani a votare nel modo giusto», disse nel 2018 Günther Oettinger, commissario europeo al Bilancio per Jean-Claude Juncker. Pure lui era un tedesco, come gli Olaf Scholz e i Friedrich Merz che oggi si indignano per l’ingerenza di J.D. Vance: il vicepresidente americano ha chiesto di rimuovere il cordone sanitario che isola Afd. E a quanto pare ha ragione, quando sostiene che la classe dirigente del Vecchio continente «ha paura delle voci, delle opinioni e delle coscienze che guidano il proprio popolo». Sette anni fa, le élite si sentivano ancora abbastanza forti da minacciarlo; ora, provano un po’ a reprimerlo, un po’ ad addomesticarlo, un po’ a rabbonirlo.L’abitudine di ficcare il naso negli affari altrui, se coltivata dal numero due di Donald Trump, porta gli eurosepolcri imbiancati, fautori del Mes e della «vigilanza rafforzata» sui conti pubblici, a stracciarsi le vesti. Ma non è un’invenzione del politico repubblicano. Durante la guerra fredda, le amministrazioni statunitensi, di destra e di sinistra, hanno trattato con una certa disinvoltura il principio di autodeterminazione: Jfk tentò invano l’invasione della Cuba castrista; il suo successore, Lyndon Johnson, impantanò le forze armate nella disastrosa impresa vietnamita; ed è ormai acclarato il coinvolgimento di Richard Nixon ed Henry Kissinger nel golpe cileno del 1973.Senza arrivare - forse… - a sguinzagliare la Cia e, di sicuro, senza ricorrere all’esercito, nemmeno Barack Obama si è astenuto dall’esprimere le sue opinioni e dal consigliare gli stranieri, come ha fatto Vance alla Conferenza di Monaco.A due mesi dal referendum del 2016, con un editoriale sul Telegraph, l’allora inquilino della Casa Bianca si oppose alla Brexit, catechizzando i lettori sul «perché la Gran Bretagna deve rimanere in Europa»: osservò che l’Unione europea «enfatizzava» l’influenza di Londra e confessò «il profondo interesse degli Stati Uniti» per gli esiti della consultazione. Nessuno si scandalizzò per l’intervento a gamba tesa. Al contrario: l’ennesimo tedesco, Martin Schulz, il socialdemocratico che era alla guida del Parlamento europeo e al quale Silvio Berlusconi aveva dato del «turista della democrazia», gongolò: «Obama ha ragione». La passione dell’icona dem per le elezioni estere sarebbe riemersa pochi mesi più tardi: a ottobre 2016, Obama si mise a tifare per il «sì» al referendum costituzionale sulla riforma di Matteo Renzi, la cui vittoria, garantì Mr «Yes we can», avrebbe regalato all’Italia «un’economia più vibrante». All’ex premier, il presidente americano chiese anche di «restare in politica» a prescindere dal risultato. Neppure in quell’occasione si squarciarono i veli dei templi. L’unica cosa che avrebbe potuto suggerire prudenza a Obama era l’evidenza empirica: i suoi endorsement portavano malissimo.Anche Bruxelles ha ripetutamente messo il becco nelle faccende interne degli Stati membri. L’intromissione, in fondo, è la sua ragion d’essere, visto che le competenze dell’Unione sono giustificate dalla dottrina del «vincolo esterno». Quel vincolo, allorché la Troika lo ha ritenuto necessario, si è trasformato in un cappio. La stessa prima Commissione di Ursula von der Leyen e lo stesso commissario Valdis Dombrovskis, ad esempio, scatenarono prima una tempesta finanziaria sulla legge di bilancio del governo Lega-5 stelle, che fissava il deficit al 2,04%, per poi promuovere quella del governo Pd-5 stelle, con il deficit al 2,4.I parametri finanziari di Roma sono sotto sorveglianza da oltre un decennio. Tutti ricorderanno le risatine di Nicolas Sarkozy e Angela Merkel indirizzate a Berlusconi, nel 2011. La cancelliera tedesca, secondo il Wall Street Journal, all’apice della crisi politica, nella famosa telefonata a Giorgio Napolitano, avrebbe preteso la sostituzione del Cavaliere a Palazzo Chigi. Il Quirinale smentì che si fosse spinta a tanto, ma non è un mistero che Parigi e Berlino brigarono per dare il benservito a un esecutivo legittimato dal voto degli italiani. I giornali stavano con quelle cancellerie: «Fate presto», titolava Il Sole 24 Ore. La sinistra non alzò le barricate in difesa dell’autonomia nazionale; quando Berlusconi si dimise, andò a festeggiare in piazza.La psicosi russofoba ha offerto un nuovo argomento a chi sogna di tenere in scacco la volontà popolare. Vance, giustamente, ha deplorato il surreale compiacimento di Thierry Breton, ex commissario Ue, per l’annullamento delle presidenziali romene, vinte dal candidato accusato di «putinismo». Il francese ha ventilato l’ipotesi che lo scenario si ripeta in Germania, in caso di exploit di Alternative für Deutschland. Se i soloni che denunciano le intrusioni trumpiane fossero ragazzini in un cortile, farebbero ridere: sono quelli che, quando prendono gol, buttano via il pallone. Solo che non siamo in un gioco. E al posto del pallone c’è il nostro destino.