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2025-04-22
La Cina minaccia ritorsioni sui partner Usa
Xi Jinping (Ansa)
La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina è una corsa al rialzo. Dopo la decisione di Washington di nuove tasse (50 dollari per tonnellata netta, con un aumento di 30 dollari all’anno per i prossimi tre anni) a partire dal 14 ottobre, sulle navi costruite e possedute dal Dragone che attraccano nei porti statunitensi, seguita all’aumento dei dazi al 145%, a stretto giro è arrivata la ritorsione di Pechino. Il Dragone ha ordinato alle sue compagnie aeree di rispedire gli aerei Boeing negli Usa e di non accettare altre consegne. Secondo quanto riportato dai media, sabato un 737 max è atterrato a Seattle presso l’hub del gruppo. E ieri mattina è stato rimandato indietro negli Usa un altro jet dello stesso gruppo che era in attesa al centro di Zhoushan per i lavori finali di assemblaggio e la consegna. L’aereo è arrivato al centro di produzione di Seattle ancora con la livrea della compagnia aerea cinese Xiamen airlines a cui era destinato. Secondo Iba, società di consulenza nel settore dell’aviazione, un 737 max, il modello più venduto della Boeing, costa intorno ai 55 milioni di dollari ma ora a causa dei dazi del 125% imposti dalla Cina sulle merci statunitensi il suo costo salirebbe a oltre 100 milioni.
I principali player del settore considerano la Cina sempre più come il maggior mercato per l’aviazione commerciale nel futuro. Boeing vende circa l’80% dei suoi aerei all’estero, di cui una buona parte alla Cina. Storicamente quasi un quarto delle sue consegne sono state destinate al mercato statunitense, anche se negli ultimi anni (tra la pandemia, altre tensioni commerciali e problemi di sicurezza per il modello 737 max) questa percentuale si è ridotta.
Nel 2024, gli Stati Uniti hanno inviato al Dragone quasi 12 miliardi di dollari in aerei, veicoli spaziali e componenti, senza importare praticamente nulla nel comparto.
La rivista statunitense specializzata in aviazione Airways Mag aveva scritto che Boeing avrebbe consegnato alla Cina 130 aerei alla fine di marzo. Per offrire alle sue compagnie aeree un fornitore alternativo e produrre gli equivalenti nazionali degli aerei commerciali di Boeing e dell’europea Airbus, il governo cinese ha investito decine di miliardi di dollari nel gruppo Comac, che ha sede a Shanghai ma al momento il gruppo non sarebbe in grado di sostituire in pieno le forniture provenienti dagli Stati Uniti. I suoi aerei, inoltre, utilizzano tecnologia comprata da imprese statunitensi del settore.
Inserire gli aerei nella guerra commerciale con gli Stati Uniti non fa altro che far emergere la dipendenza cinese dagli Usa nell’aeronautica e mettere il comprato sotto stress con rischi anche per la sicurezza dei veicoli.
Lo stesso presidente Xi Jinping, nel suo tour nel Sud Est asiatico presso Vietnam, Malesia e Cambogia concluso la scorsa settimana, ha utilizzato negli spostamenti un Boeing 747-8, parte della flotta ristretta di Air China al servizio dei voli di Stato.
Ma se il blocco dei jet americani mette in crisi l’industria cinese, non da meno è un brutto colpo per Boeing, considerando il peso che la Cina ha nel commercio internazionale dell’aviazione. Secondo le stime, nei prossimi 20 anni, il Dragone rappresenterà il 20% della domanda globale di aeromobili. A fronte della rapida espansione di Airbus e della comparsa sui collegamenti nazionali e intra asiatici del Comac C919 (il velivolo di fabbricazione cinese che sfida l’A320 e il B737), il colosso statunitense rischia di perdere definitivamente una fascia importante di clienti.
Nel mirino di Pechino non c’è solo Washington. Il ministero del Commercio cinese ha minacciato di ritorsioni anche i Paesi che si accorderanno con gli Stati Uniti sui dazi. In una nota ha detto con chiarezza che «chi fa accordi con gli Usa con l’obiettivo di evitare o alleggerire i dazi che ci danneggiano avrà contromisure». Poi un avvertimento: «L’appeasement non porterà la pace e gli accordi non saranno rispettati».
I dazi colpiscono anche le spedizioni. Dhl express ha annunciato la sospensione temporanea delle consegne da tutti i Paesi verso gli Stati Uniti dei pacchi per i privati dal valore superiore agli 800 dollari. Per quelli inferiori a tale soglia non ci saranno cambiamenti. Continueranno invece le spedizioni business-to-business, anche se potrebbero subire dei ritardi. Il gruppo ha spiegato che il nodo regime tariffario introdotto da Trump ha moltiplicato la burocrazia doganale. In precedenza, i pacchi del valore fino a 2.500 dollari potevano entrare negli Stati Uniti con poche incombenze, ma l’introduzione di controlli doganali più severi ha aumentato le formalità. Dhl ha precisato che, nonostante gli sforzi per gestire l’aumento dei controlli, le spedizioni superiori agli 800 dollari potrebbero subire ritardi di diversi giorni.
Intanto il presidente Trump torna ad attaccare chi critica la sua strategia. In un post su Truth, se l’è presa con le imprese: «Gli imprenditori che criticano i dazi sono pessimi a fare affari, ma davvero pessimi in politica. Non capiscono e non si rendono conto che io sono il più grande amico che il capitalismo americano abbia mai avuto».
Nuova cannonata di Trump alla Fed: «Powell è un grande perdente»
I dazi continuano a impensierire i mercati. Ieri, Wall Street ha aperto in deciso ribasso, con il sentiment dei mercati offuscato dalle preoccupazioni per i dazi voluti dall’amministrazione Usa di Donald Trump e per le sue critiche al presidente della Fed, Jerome Powell, ritenuto «colpevole» di muoversi troppo lentamente per abbassare i tassi di interesse.
Secondo il New York Times, il presidente Trump sarebbe ben consapevole che un tentativo di rimuovere la guida della Fed potrebbe scuotere i già tesi mercati finanziari globali. All’apertura delle contrattazioni, il Dow Jones ha iniziato il suo percorso in calo dell’1,14% a 38.696,79 punti, lo S&P ha ceduto l’1,35% a 38.696,79 punti e il Nasdaq ha mostrato un calo dell’1,76% a 15.998,27 punti. Dal canto loro, gli investitori sono in attesa dei conti del primo trimestre di Tesla, Alphabet e Boeing, che potranno fornire indicazioni sull’impatto dei dazi sulle principali società: Tesla pubblicherà i risultati oggi, Boeing domani e Alphabet - la holding di Google - giovedì.
Ancora una volta, Trump è stato molto critico verso Jerome Powell, ieri definito «il Signor troppo tardi». «Molti invocano “tagli preventivi” ai tassi. Con i costi energetici in forte calo, i prezzi dei generi alimentari (incluso il disastro delle uova di Biden!) sostanzialmente più bassi e la maggior parte delle altre “cose” in calo, l’inflazione è praticamente nulla!», ha scritto ieri Trump su Truth, «con questi costi in così netto calo, proprio come avevo previsto, non può esserci quasi inflazione, ma può esserci un rallentamento dell’economia a meno che “il Signor troppo tardi”, un grande perdente, non abbassi i tassi di interesse, ora. L’Europa ha già “tagliato” i tassi sette volte. Powell è sempre stato “Troppo Tardi”, tranne nel periodo elettorale quando abbassò i tassi per aiutare il sonnolento Joe Biden, poi Kamala, a essere eletto. Come ha funzionato?».
Nel complesso, la combinazione tra rischi legati alle politiche commerciali e instabilità sul fronte della politica monetaria americana mantiene altissima la volatilità dei mercati, mentre gli investitori cercano spunti concreti nelle trimestrali per capire se l’economia statunitense stia davvero rallentando o sia semplicemente in attesa di un’iniezione di fiducia.
Quello che è certo è che una combinazione di fattori pesa sui mercati: l’incertezza generata dalla guerra commerciale avviata dall’amministrazione statunitense nei confronti della Cina, il recente attacco verbale di Donald Trump contro Powell e, sullo sfondo, la ripresa delle ostilità in Ucraina dopo la breve tregua pasquale annunciata da Vladimir Putin. Sul fronte dei singoli titoli presenti alla borsa di New York, Boeing ha aperto ieri in netto calo (-2,4%), sulla scia dell’ordine di Pechino alle compagnie aeree cinesi di rispedire negli Stati Uniti gli aeromobili in flotta e di rifiutare nuove consegne, parte delle misure di ritorsione per l’aumento dei dazi Usa fino al 145%. Intanto, il costruttore comunicherà i risultati trimestrali mercoledì prossimo.
L’ondata di sfiducia si riflette anche sui mercati energetici: il Wti ieri è sceso del 2,52% a 62,44 dollari al barile, mentre il Brent ha ceduto il 2,34% a 66,38. Dopo un breve rimbalzo la scorsa settimana, gli operatori si sono fatti cauti, preoccupati che l’escalation nelle tensioni commerciali - in particolare quelle con la Cina - possa frenare la crescita economica globale e ridurre la domanda di petrolio.
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Annunciate «contromisure» verso chi accetterà accordi sfavorevoli al Dragone per alleggerire i dazi americani. Rimandati indietro due Boeing destinati a compagnie aeree di Pechino. Il tycoon: «Imprenditori anti tariffe pessimi in affari e politica».Il governatore della Fed, Jerome Powell, ribattezzato «il Signor troppo tardi». Wall Street ancora in rosso.Lo speciale contiene due articoliLa guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina è una corsa al rialzo. Dopo la decisione di Washington di nuove tasse (50 dollari per tonnellata netta, con un aumento di 30 dollari all’anno per i prossimi tre anni) a partire dal 14 ottobre, sulle navi costruite e possedute dal Dragone che attraccano nei porti statunitensi, seguita all’aumento dei dazi al 145%, a stretto giro è arrivata la ritorsione di Pechino. Il Dragone ha ordinato alle sue compagnie aeree di rispedire gli aerei Boeing negli Usa e di non accettare altre consegne. Secondo quanto riportato dai media, sabato un 737 max è atterrato a Seattle presso l’hub del gruppo. E ieri mattina è stato rimandato indietro negli Usa un altro jet dello stesso gruppo che era in attesa al centro di Zhoushan per i lavori finali di assemblaggio e la consegna. L’aereo è arrivato al centro di produzione di Seattle ancora con la livrea della compagnia aerea cinese Xiamen airlines a cui era destinato. Secondo Iba, società di consulenza nel settore dell’aviazione, un 737 max, il modello più venduto della Boeing, costa intorno ai 55 milioni di dollari ma ora a causa dei dazi del 125% imposti dalla Cina sulle merci statunitensi il suo costo salirebbe a oltre 100 milioni.I principali player del settore considerano la Cina sempre più come il maggior mercato per l’aviazione commerciale nel futuro. Boeing vende circa l’80% dei suoi aerei all’estero, di cui una buona parte alla Cina. Storicamente quasi un quarto delle sue consegne sono state destinate al mercato statunitense, anche se negli ultimi anni (tra la pandemia, altre tensioni commerciali e problemi di sicurezza per il modello 737 max) questa percentuale si è ridotta.Nel 2024, gli Stati Uniti hanno inviato al Dragone quasi 12 miliardi di dollari in aerei, veicoli spaziali e componenti, senza importare praticamente nulla nel comparto. La rivista statunitense specializzata in aviazione Airways Mag aveva scritto che Boeing avrebbe consegnato alla Cina 130 aerei alla fine di marzo. Per offrire alle sue compagnie aeree un fornitore alternativo e produrre gli equivalenti nazionali degli aerei commerciali di Boeing e dell’europea Airbus, il governo cinese ha investito decine di miliardi di dollari nel gruppo Comac, che ha sede a Shanghai ma al momento il gruppo non sarebbe in grado di sostituire in pieno le forniture provenienti dagli Stati Uniti. I suoi aerei, inoltre, utilizzano tecnologia comprata da imprese statunitensi del settore.Inserire gli aerei nella guerra commerciale con gli Stati Uniti non fa altro che far emergere la dipendenza cinese dagli Usa nell’aeronautica e mettere il comprato sotto stress con rischi anche per la sicurezza dei veicoli. Lo stesso presidente Xi Jinping, nel suo tour nel Sud Est asiatico presso Vietnam, Malesia e Cambogia concluso la scorsa settimana, ha utilizzato negli spostamenti un Boeing 747-8, parte della flotta ristretta di Air China al servizio dei voli di Stato.Ma se il blocco dei jet americani mette in crisi l’industria cinese, non da meno è un brutto colpo per Boeing, considerando il peso che la Cina ha nel commercio internazionale dell’aviazione. Secondo le stime, nei prossimi 20 anni, il Dragone rappresenterà il 20% della domanda globale di aeromobili. A fronte della rapida espansione di Airbus e della comparsa sui collegamenti nazionali e intra asiatici del Comac C919 (il velivolo di fabbricazione cinese che sfida l’A320 e il B737), il colosso statunitense rischia di perdere definitivamente una fascia importante di clienti.Nel mirino di Pechino non c’è solo Washington. Il ministero del Commercio cinese ha minacciato di ritorsioni anche i Paesi che si accorderanno con gli Stati Uniti sui dazi. In una nota ha detto con chiarezza che «chi fa accordi con gli Usa con l’obiettivo di evitare o alleggerire i dazi che ci danneggiano avrà contromisure». Poi un avvertimento: «L’appeasement non porterà la pace e gli accordi non saranno rispettati».I dazi colpiscono anche le spedizioni. Dhl express ha annunciato la sospensione temporanea delle consegne da tutti i Paesi verso gli Stati Uniti dei pacchi per i privati dal valore superiore agli 800 dollari. Per quelli inferiori a tale soglia non ci saranno cambiamenti. Continueranno invece le spedizioni business-to-business, anche se potrebbero subire dei ritardi. Il gruppo ha spiegato che il nodo regime tariffario introdotto da Trump ha moltiplicato la burocrazia doganale. In precedenza, i pacchi del valore fino a 2.500 dollari potevano entrare negli Stati Uniti con poche incombenze, ma l’introduzione di controlli doganali più severi ha aumentato le formalità. Dhl ha precisato che, nonostante gli sforzi per gestire l’aumento dei controlli, le spedizioni superiori agli 800 dollari potrebbero subire ritardi di diversi giorni.Intanto il presidente Trump torna ad attaccare chi critica la sua strategia. In un post su Truth, se l’è presa con le imprese: «Gli imprenditori che criticano i dazi sono pessimi a fare affari, ma davvero pessimi in politica. Non capiscono e non si rendono conto che io sono il più grande amico che il capitalismo americano abbia mai avuto».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/dazi-usa-cina-ritorsioni-fed-2671816402.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="nuova-cannonata-di-trump-alla-fed-powell-e-un-grande-perdente" data-post-id="2671816402" data-published-at="1745267431" data-use-pagination="False"> Nuova cannonata di Trump alla Fed: «Powell è un grande perdente» I dazi continuano a impensierire i mercati. Ieri, Wall Street ha aperto in deciso ribasso, con il sentiment dei mercati offuscato dalle preoccupazioni per i dazi voluti dall’amministrazione Usa di Donald Trump e per le sue critiche al presidente della Fed, Jerome Powell, ritenuto «colpevole» di muoversi troppo lentamente per abbassare i tassi di interesse. Secondo il New York Times, il presidente Trump sarebbe ben consapevole che un tentativo di rimuovere la guida della Fed potrebbe scuotere i già tesi mercati finanziari globali. All’apertura delle contrattazioni, il Dow Jones ha iniziato il suo percorso in calo dell’1,14% a 38.696,79 punti, lo S&P ha ceduto l’1,35% a 38.696,79 punti e il Nasdaq ha mostrato un calo dell’1,76% a 15.998,27 punti. Dal canto loro, gli investitori sono in attesa dei conti del primo trimestre di Tesla, Alphabet e Boeing, che potranno fornire indicazioni sull’impatto dei dazi sulle principali società: Tesla pubblicherà i risultati oggi, Boeing domani e Alphabet - la holding di Google - giovedì. Ancora una volta, Trump è stato molto critico verso Jerome Powell, ieri definito «il Signor troppo tardi». «Molti invocano “tagli preventivi” ai tassi. Con i costi energetici in forte calo, i prezzi dei generi alimentari (incluso il disastro delle uova di Biden!) sostanzialmente più bassi e la maggior parte delle altre “cose” in calo, l’inflazione è praticamente nulla!», ha scritto ieri Trump su Truth, «con questi costi in così netto calo, proprio come avevo previsto, non può esserci quasi inflazione, ma può esserci un rallentamento dell’economia a meno che “il Signor troppo tardi”, un grande perdente, non abbassi i tassi di interesse, ora. L’Europa ha già “tagliato” i tassi sette volte. Powell è sempre stato “Troppo Tardi”, tranne nel periodo elettorale quando abbassò i tassi per aiutare il sonnolento Joe Biden, poi Kamala, a essere eletto. Come ha funzionato?». Nel complesso, la combinazione tra rischi legati alle politiche commerciali e instabilità sul fronte della politica monetaria americana mantiene altissima la volatilità dei mercati, mentre gli investitori cercano spunti concreti nelle trimestrali per capire se l’economia statunitense stia davvero rallentando o sia semplicemente in attesa di un’iniezione di fiducia. Quello che è certo è che una combinazione di fattori pesa sui mercati: l’incertezza generata dalla guerra commerciale avviata dall’amministrazione statunitense nei confronti della Cina, il recente attacco verbale di Donald Trump contro Powell e, sullo sfondo, la ripresa delle ostilità in Ucraina dopo la breve tregua pasquale annunciata da Vladimir Putin. Sul fronte dei singoli titoli presenti alla borsa di New York, Boeing ha aperto ieri in netto calo (-2,4%), sulla scia dell’ordine di Pechino alle compagnie aeree cinesi di rispedire negli Stati Uniti gli aeromobili in flotta e di rifiutare nuove consegne, parte delle misure di ritorsione per l’aumento dei dazi Usa fino al 145%. Intanto, il costruttore comunicherà i risultati trimestrali mercoledì prossimo. L’ondata di sfiducia si riflette anche sui mercati energetici: il Wti ieri è sceso del 2,52% a 62,44 dollari al barile, mentre il Brent ha ceduto il 2,34% a 66,38. Dopo un breve rimbalzo la scorsa settimana, gli operatori si sono fatti cauti, preoccupati che l’escalation nelle tensioni commerciali - in particolare quelle con la Cina - possa frenare la crescita economica globale e ridurre la domanda di petrolio.
Sergio Mattarella (Ansa)
Si torna quindi all’originale, fedeli al manoscritto autografo del paroliere, che morì durante l’assedio di Roma per una ferita alla gamba. Lo certifica il documento oggi conservato al Museo del Risorgimento di Torino.
La svolta riguarderà soprattutto le cerimonie militari ufficiali. Lo Stato Maggiore della Difesa, in un documento datato 2 dicembre, ha infatti inviato l’ordine a tutte le forze armate: durante gli eventi istituzionali e le manifestazioni militari nelle quali verrà eseguito l’inno nella versione cantata - che parte con un «Allegro marziale» -, il grido in questione dovrà essere omesso. E viene raccomandata «la scrupolosa osservanza» a tutti i livelli, fino al più piccolo presidio territoriale, dalla Guardia di Finanza all’Esercito. Ovviamente nessuno farà una piega se allo stadio i tifosi o i calciatori della nazionale azzurra (discorso che vale per tutti gli sport) faranno uno strappo alla regola, anche se la strada ormai è tracciata.
Per confermare la bontà della decisione del Colle basta ricordare le indicazioni che il Maestro Riccardo Muti diede ai 3.000 coristi (professionisti e amatori, dai 4 agli 87 anni) radunati a Ravenna lo scorso giugno per l’evento dal titolo agostiniano «Cantare amantis est» (Cantare è proprio di chi ama). Proprio in quell’occasione, come avevamo raccontato su queste pagine, il grande direttore d’orchestra - che da decenni cerca di spazzare via dall’opera italiana le aggiunte postume, gli abbellimenti non richiesti e gli acuti non scritti dagli autori, ripulendo le partiture dalle «bieche prassi erroneamente chiamate tradizioni» - ordinò a un coro neonato ma allo stesso tempo immenso: «Il “sì” finale non si canta, nel manoscritto non c’è».
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Scott Bessent (Ansa)
Partiamo da Washington, dove il Pil non solo non rallenta, ma accelera. Nel terzo trimestre dell’anno, da luglio a settembre, l’economia americana è cresciuta del 4,3%. Non un decimale in più o in meno: un punto pieno sopra le attese, ferme a un modesto 3,3%. Un dato arrivato in ritardo, complice lo stop federale che ha paralizzato le attività pubbliche, ma che ha avuto l’effetto di una doccia fredda per gli analisti più pessimisti. Altro che frenata da dazi: rispetto al secondo trimestre, l’incremento è stato dell’1,1%. Altro che economia sotto anestesia. Una successo che spinge Scott Bessent, segretario del Tesoro, a fare pressioni sulla Fed perché tagli i tassi e riveda al ribasso dal 2% all’1,5% il tetto all’inflazione. Il motore della crescita? I consumi, tanto per cambiare. Gli americani hanno continuato a spendere come se i dazi fossero un concetto astratto da talk show. Nel terzo trimestre i consumi sono saliti del 3,5%, dopo il più 2,5% dei mesi precedenti. A spingere il Pil hanno contribuito anche le esportazioni e la spesa pubblica, in un mix poco ideologico e molto concreto. La morale è semplice: mentre la politica discute, l’economia va avanti. E spesso prende un’altra direzione.
E l’Europa? Doveva essere la prima vittima collaterale della guerra commerciale. Anche qui, però, i numeri si ostinano a non obbedire alle narrazioni. L’Italia, per esempio, a novembre ha visto rafforzarsi il saldo commerciale con i Paesi extra Ue, arrivato a più 6,9 miliardi di euro, contro i 5,3 miliardi dello stesso mese del 2024. Quanto agli Stati Uniti, l’export italiano registra sì un calo, ma limitato: meno 3%. Una flessione che somiglia più a un raffreddore stagionale che a una polmonite da dazi. Non esattamente lo scenario da catastrofe annunciata.
Anche la Bce, che per statuto non indulge in entusiasmi, ha dovuto prendere atto della resilienza dell’economia europea. Le nuove proiezioni parlano di una crescita dell’eurozona all’1,4% nel 2025, in rialzo rispetto all’1,2% stimato a settembre, e dell’1,2% nel 2026, contro l’1,0 precedente. Non è un boom, certo, ma nemmeno il deserto postbellico evocato dai più allarmisti. Soprattutto, è un segnale: l’Europa cresce nonostante tutto, e nonostante tutti. E poi c’è la Cina, che osserva il dibattito globale con il sorriso di chi incassa. Nei primi undici mesi del 2025 Pechino ha messo a segno un surplus commerciale record di oltre 1.000 miliardi di dollari, con esportazioni superiori ai 3.400 miliardi. Altro che isolamento: la fabbrica del mondo continua a macinare numeri, mentre l’Occidente discute se i dazi siano il male assoluto o solo un peccato veniale.
Alla fine, la lezione è sempre la stessa. I dazi fanno rumore, le previsioni pure. Ma l’economia parla a bassa voce e con i numeri. E spesso, come in questo caso, si diverte a smentire chi aveva già scritto il copione del disastro. Le cassandre restano senza applausi. Le statistiche, ancora una volta, si prendono la scena.
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Paolo Barletta, Ceo Arsenale S.p.a. (Ansa)
Il contributo di Simest è pari a 15 milioni e passa dalla Sezione Infrastrutture del Fondo 394/81, plafond in convenzione con il ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, dedicato alle imprese italiane impegnate in grandi commesse estere che valorizzano la filiera nazionale. In termini di struttura, il capitale sociale congiunto copre la componente di rischio industriale, mentre la componente del fondo saudita sostiene la rampa di avvio del progetto, riducendo il fabbisogno di capitale a carico dei partner italiani e rafforzando la bancabilità dell’iniziativa nel Paese ospitante, presentata come modello pubblico-privato nel segmento ferroviario di lusso.
L’intesa è inserita nella collaborazione Italia-Arabia Saudita, richiamando l’apertura della sede Simest a Riyadh e il Memorandum of Understanding tra Cdp, Simest e Jiacc. «Dream of the Desert» è indicato come progetto apripista di un modello pubblico-privato nel trasporto ferroviario di lusso.
«Dream of the Desert è un progetto simbolo per il nostro gruppo e per l’industria ferroviaria internazionale. Valorizza le Pmi italiane e costituisce un caso apripista di partnership pubblico-privata nel settore ferroviario di lusso. L’accordo siglato con Simest e le istituzioni saudite conferma come la collaborazione tra imprese e istituzioni possa creare valore duraturo e promuovere le eccellenze italiane nel mondo», commenta Paolo Barletta, amministratore delegato di Arsenale.
Regina Corradini D’Arienzo, amministratore delegato di Simest, aggiunge: «L’intesa sottoscritta con un primario attore industriale come Arsenale per la realizzazione di un progetto strategico per il Made in Italy, conferma il rafforzamento del ruolo di Simest a sostegno del tessuto produttivo italiano e delle sue filiere. Attraverso la prima operazione realizzata nell’ambito del Plafond di equity del fondo pubblico di Investimenti infrastrutturali», continua la numero uno del gruppo, «Simest interviene direttamente come socio per accrescere la competitività delle nostre imprese impegnate in progetti infrastrutturali ad alto valore aggiunto, favorendo al contempo l’espansione del Made in Italy in mercati strategici ad elevato potenziale di crescita, come quello saudita. Lo strumento, sviluppato da Simest sotto la regia del ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e in collaborazione con Cassa depositi e prestiti, si inserisce pienamente nell’azione del Sistema Italia, che, sotto la regia della Farnesina, vede il coinvolgimento di Cdp, Simest, Ice e Sace. Un approccio integrato volto a garantire alle imprese italiane un supporto strutturato e complementare, dall’azione istituzionale a quella finanziaria, per affrontare con efficacia le principali sfide della competitività internazionale».
Sul piano industriale, Arsenale dichiara un treno interamente progettato, prodotto e allestito in Italia: gli hub Cpl (Brindisi) e Standgreen (Bergamo) operano con Cantieri ferroviari italiani (Cfi) come general contractor, coordinando una rete di Pmi (design, meccanica avanzata, ingegneria, lusso e hospitality). Per il committente estero, questa configurazione «turnkey (chiavi in mano, ndr.)» concentra in un unico soggetto il coordinamento di produzione, integrazione e allestimento; per l’ecosistema italiano, sposta volumi e valore aggiunto lungo la catena domestica, fino alla finitura degli interni ad alto contenuto di design.
Il prodotto sarà un treno di ultra lusso con itinerari da uno a due notti: partenza da Riyadh e collegamenti verso destinazioni iconiche del Regno, tra cui Alula (sito Unesco) e Hail, fino al confine con la Giordania. Gli interni sono firmati dall’architetto e interior designer Aline Asmar d’Amman, fondatore dello studio Culture in Architecture. La prima carrozza è stata consegnata a settembre 2025; l’avvio operativo è previsto per fine 2026, con prenotazioni aperte da novembre 2025.
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Matteo Hallissey (Ansa)
Il video è accompagnato da un post: «Abbiamo messo in atto», scrive l’ex perfetto sconosciuto Hallisey, «un flash mob pacifico pro Ucraina all’interno di un convegno filorusso organizzato dall’Anpi all’università Federico II di Napoli. Dopo aver atteso il termine dell’evento con Alessandro Di Battista e il professor D’Orsi e al momento delle domande, decine di studenti e attivisti pro Ucraina di +Europa, Ora!, Radicali, Liberi Oltre, Azione e della comunità ucraina hanno mostrato maglie e bandiere ucraine. È vergognoso che non ci sia stata data la possibilità di fare domande e che l’attivista che stava interloquendo con i relatori sia stato aggredito e spinto da un rappresentante dell’Anpi fino a rompere il microfono. Anch’io sono stato aggredito violentemente», aggiunge il giovane radicale, «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi sulla sua partecipazione alla sfilata di gala di Russia Today a Mosca due mesi fa. Chi rivendica la storia antifascista e partigiana non può non condannare queste azioni di fronte a una manifestazione pacifica».
Rivedendo più volte il video al Var, di aggressioni non ne abbiamo viste, a parte come detto qualche spinta, ma va detto pure che quando Hallissey scrive «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi», omette di precisare che quella domanda è stata posta al professore, ma in maniera tutt’altro che pacata: le urla del buon Matteo sono scolpite nel video da lui stesso, ripetiamo, pubblicato. Per quel che riguarda la rottura del microfono, le immagini, viste e riviste non chiariscono se il fallo c’è o no: si vede un giovane attivista che contende un microfono a D’Orsi, ma i frame non permettono di accertare se alla fine si sia rotto o sia rimasto intero.
Quello che è certo è che ieri sono piovuti nelle redazioni i soliti comunicati di solidarietà, non solo da parte di Azione, degli stessi Radicali e di Benedetto Della Vedova, ma anche del capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami, che su X ha vergato un severo post: «Solidarietà a Matteo Hallissey, presidente dei Radicali italiani», ha scritto Bignami, «aggredito a un evento Anpi per aver provato a porre domande in un flash mob pacifico. Da chi ogni giorno impartisce lezioni di democrazia ma reagisce con violenza, non accettiamo lezioni». Non si comprende, come abbiamo detto, dove sia la violenza, perché per una volta bisogna pur mettere da parte il politically correct e l’ipocrisia dilagante e dire le cose come stanno: dal video emerge in maniera cristallina la natura provocatoria del flash mob pro Ucraina, e da quelle urla e da quegli atteggiamenti, per noi che abbiamo purtroppo l’abitudine a pensar male, anche se si fa peccato, fa capolino pure che magari l’obiettivo era proprio quello di scatenare una reazione violenta da parte dei partecipanti al convegno.
Non lo sapremo mai: quello che sappiamo è che i Radicali, sigla che nella politica italiana ha avuto un ruolo di primissimo piano per tante battaglie condotte in primis dal compianto Marco Pannella, sono ormai ridotti a praticare forme di puro macchiettismo politico, pur di ottenere un po’ di visibilità: ricorderete lo show di Riccardo Magi, deputato di +Europa, che vaga nell’aula di Montecitorio vestito da fantasma. A proposito di Magi: il congresso che lo scorso febbraio ha rieletto segretario di +Europa il deputato fantasma è stato caratterizzato da innumerevoli polemiche e altrettante ombre. Poche ore prima della chiusura del tesseramento, il 31 dicembre, dalla provincia di Napoli, in particolare da Giugliano e Afragola, arrivano la bellezza di 1.900 nuovi iscritti, praticamente un terzo dell’intera platea di tesserati, iscritti che poi si traducono in delegati che eleggono i vertici del partito. Una conversione di massa alla causa radicale degli abitanti di questi due popolosi comuni del Napoletano in sostanza stravolge gli equilibri congressuali. Tra accuse e controaccuse, un giovanissimo militante, alla fine dello stesso congresso, sconfigge nella corsa alla presidenza di +Europa uno storico esponente del partito come Benedetto Della Vedova. Si tratta proprio di Matteo Hallissey.
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