2025-03-28
Con i dazi del 25% sulle auto a piangere è la Germania. Ed è quello che vuole Trump
I costruttori (che avranno una sovrattassa di 3.800 dollari per ogni veicolo venduto) chiedono a Europa e Stati Uniti di trattare. Invece l’esecutivo tedesco lancia minacce.Gira e rigira, lo schema è sempre lo stesso. Trump annuncia i dazi, in modo spesso confuso e oggettivamente poco comprensibile - il momento più alto l’ha raggiunto con le dichiarazioni sulle gabelle imposte ai Paesi che acquistano petrolio e gas dal Venezuela - i diretti o anche indiretti interessati reagiscono in modo scomposto, e a quel punto il presidente americano aggiusta il tiro, andando a parare su quelli che lui considera i veri obiettivi della sua battaglia commerciale: Messico, Canada, Cina e Germania. L’esempio più eclatante l’abbiamo visto con i tributi sull’automotive. Dal 2 aprile si parte con imposizioni del 25% su tutte le vetture che entrano negli States.La Ferrari risponde annunciando rincari al listino fino al 10% sulle «rosse» vendute nel mercato a stelle e strisce e la commissaria super-green Teresa Ribera fa presente che di certo l’Europa non aspetterà che sia Trump «a dirci come comportarci (il riferimento è alla possibile alleanza con il Canada)», ma intanto il tycoon aveva già centrato i suoi obiettivi. Basta osservare i numeri pubblicati in un grafico di Bloomberg («Da dove provengono le auto importazioni dagli Stati Uniti») per rendersene conto. In pole position c’è il Messico con 78,5 miliardi di dollari per 2,96 milioni di veicoli destinati a oltrepassare il confine degli Usa; quindi il Giappone, con 39,7 miliardi e 1,377 milioni di veicoli; poi, dopo il Canada (31,2 miliardi di export e 1,06 milioni di mezzi), arriva la Germania. Che certo fa segnare un giro d’affari inferiore (24,8 miliardi) ma con il valore maggiore per singola auto esportata: ogni vettura tedesca portata negli States vale più di 55.000 dollari.Non a caso sono i produttori teutonici i più impattati da dazi di Trump. Sempre secondo le simulazioni di Bloomberg, il costo aggiuntivo per le case automobilistiche si aggireranno tra i 3 e i 3,5 miliardi di dollari. Una salasso pari al 2% dei ricavi del gruppo Bmw, all’1% di Volkswagen e al 10% di Porsche. Sempre stando al valore medio, parliamo di un impatto di circa 3.800 dollari su ogni veicolo venduto negli Stati Uniti.E non a caso è la cancelleria tedesca quella che si è fatta sentire per prima. In modo scomposto. Passando da Robert Habeck, il ministro dell’Economia, che ha invocato una reazione veemente («L’Ue deve dare una risposta ferma ai dazi, deve essere chiaro che non ci tireremo indietro di fronte agli Usa»), per arrivare alla Vda, l’associazione dell’auto, che più saggiamente ha chiesto a Stati Uniti e Unione europea di sedersi intorno a un tavolo per iniziare immediatamente a trattare un accordo bilaterale.E anche le voci arrivate dai singoli produttori sono andate nella stessa direzione. «Continuiamo a promuovere uno scambio di beni basato su regole, mercati aperti e relazioni commerciali stabili», ha evidenziato un portavoce di Volkswagen, «Questi sono essenziali per un’economia competitiva e per l’industria automobilistica in particolare. Allo stesso tempo, continuiamo a sostenere colloqui costruttivi tra i partner commerciali per garantire la sicurezza della pianificazione e la stabilità economica ed evitare un conflitto commerciale».Come detto, Trump ha dettato le regole e gli altri, in modo disordinato, gli sono andati dietro. E, del resto, che il tycoon ce l’avesse con il surplus commerciale della Germania non è certo un mistero. Il presidente degli Stati Uniti l’ha fatto capire in tutti i modi e ha messo sempre i numeri alla base dei suoi ragionamenti. L’Eurostat ci dice che ancora nel 2023 le esportazioni tedesche negli Stati Uniti erano di poco inferiori ai 160 miliardi di euro contro i circa 72 miliardi di importazioni. Insomma, c’era un deficit da 85 miliardi da colmare. E i dazi al 25% sull’auto sono probabilmente solo il primo passo del risarcimento di cui la nuova amministrazione Usa parla da tempo.Come detto, resta la via diplomatica. E, da questo punto di vista, non si può non rimarcare che l’annuncio dei dazi sulle auto a pochi minuti dalla visita del commissario Ue al Commercio, Maros Sefcovic, negli Stati Uniti, segni un clamoroso flop della missione europea negli States. Così come va evidenziato che lo stesso Sefcovic è adesso volato a Pechino (dove ha incassato l’apertura del vicepremier cinese He Lifeng, pronto «a rafforzare il dialogo e la comunicazione con Bruxelles e a gestire correttamente le controversie economiche e commerciali in nome della lotta comune contro l’unilateralismo e il protezionismo») in cerca di sponde in Oriente.C’è un pericolo che l’Europa strizzi l’occhio alla Cina? Certo che c’è. Anche perché non sono pochi i decisori del Vecchio continente che spingono in questa direzione. Ma è difficile che Trump non abbia messo in conto anche quest’eventualità. Basterà attendere i prossimi annunci all’apparenza bizzarri per capirlo.
Il Gran Premio d'Italia di Formula 1 a Monza il 3 settembre 1950 (Getty Images)
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