«Qn» sfrutta un report Allianz e stima in 10 miliardi i danni del «clima impazzito». Peccato che i calcoli siano aleatori e le soluzioni ridicole. Intanto, gli esperti evocano rischi ambientali per i debiti pubblici: un trucco per dirottare i fondi statali verso la finanza verde.Quotidiano Nazionale, nelle sue tre edizioni, ieri apriva con un titolo bollente: «Il clima impazzito ci costa 10 miliardi». Lo scoop del decennio origina in realtà da uno studio di Allianz report, che i quotidiani del gruppo Riffeser citano poi solo di striscio. Ogni giorno in cui il termometro segna oltre i 32 gradi significa perdere Pil quanto una mezza giornata di sciopero. Al di là del fatto che lo scorso anno in Italia sono stati indetti ed effettuati 1.389 scioperi e quindi il nostro Pil sarebbe sotto zero, abbiamo ritenuto utile andare oltre l’atto di fede ambientale e scaricarci pure noi il report in questione. Il titolo spiega che le ondate di calore estremo (la bibbia green ci dice che oltre 32 gradi è calore estremo) nel 2023 potrebbero (notate bene il condizionale) causare un calo del Pil globale dello 0,6%. Come si arriva al calcolo? Si prende uno studio della Enviromental research communication, che nel 2021 ha provato a mettere in relazione la diminuzione della produttività sul lavoro con l’aumentare del caldo. Ovviamente il paragone originario è soprattutto tra Paesi meno evoluti come quelli del Sahel o del Sudest asiatico e si giunge alla conclusione che in quelle condizioni si scende almeno del 40%. Da lì è tutto un gioco aritmetico fino - e da qui il calcolo che ha generato il titolo del Quotidiano Nazionale - a calcolare, anche per la nazioni occidentali più la Cina, il numero di giorni nel trimestre in cui il termometro ha superato i 32 gradi. L’Italia ne ha registrati 19. E quindi, mezzo punto di Pil che fa all’incirca 10 miliardi. La sintesi è ardita, ma non divertente quanto il paragrafo successivo. Siccome il segreto dei tempi moderni è la resilienza, gli autori del report si chiedono come fare a superare questi problemi. Una delle opzioni sarebbe usare più aria condizionata, il che però - si legge sempre nel documento - apre due ulteriori problemi. Il primo è che sarebbe richiesto un maggiore utilizzo di corrente e quindi altro consumo energetico, che automaticamente genererebbe più caldo... Ovviamente sempre secondo il nesso per cui le emissioni di CO2 impattano sul cambiamento climatico. Ma c’è un problema ulteriore. Garantire l’aria condizionata a chi lavora all’aperto non è possibile. Troppo costoso. In pratica, proseguendo la lettura, viene consigliato ad esempio di cambiare le abitudini lavorative: applicarsi negli orari meno caldi, come al mattino presto. In base a questo parametro dovremmo abolire l’islam, perché prevede un mese all’anno di Ramadan. Mangiare solo dopo il tramonto quanto impatta sulla produttività? Al di là del paradosso, gli esperti di Allianz report ci spiegano che non è possibile recuperare nei giorni più freschi. Perché il Pil perduto non si riguadagna più. Omettiamo gli altri passaggi del report, nei quali si stimano i danni delle alluvioni o degli avvenimenti climatici avversi. Ecco, qui sì che i dati sono concreti, ma anche in questo caso vengono correlati al cambiamento climatico come fatto sic et simpliciter e, quindi, secondo la bibbia del green. L’apparente follia del report ha in realtà un significato preciso. Cioè creare una circolarità e un nesso di correlazione tra situazioni che nulla hanno a che fare tra di loro. Fare entrare invece nella mentalità comune l’idea che l’industria tradizionale genera troppa CO2, questa genera il cambiamento climatico che a sua volta danneggia l’economia, significa far crescere generazioni destinate alla decrescita infelice. Tutto si si tiene e fa il paio con un interessante (lo diciamo con eufemismo) studio diffuso giovedì dalla American economic association. Qui si spiega come il cambiamento climatico renda i debiti pubblici ancora più insostenibili; quindi, serviranno interventi drastici per ridurli. L’autore, Nicholas Stern, parte da una premessa: il mercato dei fossili ha contribuito al fallimento della globalizzazione e «il desiderio della maggior parte delle persone si spostarsi ovunque» ha prodotto il cambiamento climatico. I Paesi che non cambieranno modello economico, secondo lo studio, da qui a 30 o 50 anni non saranno più in grado di ripagare i propri debiti. La soluzione è spostare tutto il debito sui prodotti Esg (quelli rispettosi dell’ambiente e della diversità) e azzerare il resto del mercato. Gira e rigira sempre lì si va a parare. Vale la pena ricordare che prima dell’avvento della bolla green e dopo un decennio di tassi sottozero, sul mercato globale circolavano oltre 20.000 miliardi di obbligazioni a rendita negativa. L’avvento dell’Esg e l’idea del beneficio che il marchio porta ai fini ambientali sono riusciti a far transitare oltre la metà di tale debito sul piatto delle obbligazioni con tassi positivi. Tutto ciò prima che le banche centrali, travolte dall’inflazione, cominciassero a manovrare sui tassi. È chiaro che adesso, che si parli di debito pubblico pregresso o di Pil, lo storytelling globale si trova a voler rendere la transizione green sempre più estrema. Accelerare con i modelli che, in Europa, coincidono con le strategie della Commissione a guida socialista, significa da un lato togliere risorse all’industria tradizionale, dall’altro concentrare gli ingenti finanziamenti pubblici sui nuovi business. Che guarda caso, sono sono quelli che rientrano sotto l’ombrello del brand Esg. E più finanziamenti ci sono e più le emissioni di debito sono considerate un affare. La finanza non è difficile da comprendere ed essa sa bene come influire sulla psiche dei singoli e delle società.
Leone XIV (Ansa)
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