2020-03-28
«Dalle divise sportive alle mascherine. Così sopravviviamo»
Joas Binda, titolare di una ditta varesina d'abbigliamento tecnico: «Usiamo tessuti per paraspruzzi delle canoe o giacche a vento dei ciclisti».Quattro minuti a mascherina. Un'instancabile lotta contro il tempo per sostenere le prime linee schierate sul fronte coronavirus. «È una cosa mostruosa quella che stiamo vivendo. Da imprenditore non posso lamentarmi, anche se alla fine copro i costi, niente di più». Così, riaffiorando per pochi minuti sulla superficie di un'attività incessante, espone il proprio bilancio Joas Binda, titolare della Di-Bi, azienda di Besozzo (Varese) nel settore dell'abbigliamento sportivo che, in piena emergenza Covid-19, ha riconvertito la produzione per realizzare mascherine destinate in gran parte a case di riposo e strutture sanitarie, tra cui l'ospedale Niguarda di Milano. Una realtà familiare fondata nel 1976 da mamma Rosangela De Taddeo e papà Leonardo Binda («Il nome, fusione dei due cognomi, doveva essere De-Bi», ricorda il trentottenne imprenditore, «ma il marchio era già presente sul mercato e, invertendoli, saremmo diventati un'azienda di sanitari»), resa grande dai fratelli Abbagnale, che nel 1984, con indosso i body azzurri confezionati sul lago Maggiore, trionfarono ai giochi Olimpici di Los Angeles. «Quell'oro ci garantì la commessa per 20 anni».Dovendo trovare il lato positivo, il lavoro non vi manca.«Settimana scorsa, è venuta la Guardia di finanza per aiutarci nel coordinamento: oltre ad assicurarsi che i pezzi che uscivano fossero a norma al fine di evitarci sanzioni, hanno guardato i costi di produzione e vendita per garantirci le giuste marginalità. Qualche giorno prima, avevano sequestrato un grosso lotto comprato a 2,80 euro al pezzo e rivenduto a 30. Questa è speculazione sull'emergenza».Le vostre mascherine quanto costano?«Cinque euro al pezzo, Iva inclusa. Se fa la differenza tra costo di produzione e costo di vendita, e su quello calcola che pago il 30 per cento di tasse, vedrà che il margine è minimo. Ma va bene così. Durante la guerra, le fabbriche di camion facevano carri armati. Per noi è lo stesso».In quale tipo di tessuto vengono realizzate?«È un trilaminato composto da tre strati: i due esterni in poliestere e una membrana interna in poliuretano. Sono tessuti utilizzati normalmente per i paraspruzzi delle canoe, o per le giacche a vento dei ciclisti. Abbiamo pensato: se riparano dalle secchiate d'acqua, proteggeranno anche dalle gocce di saliva».Come è maturata l'idea della riconversione?«Il 13 marzo, il nostro sindaco Riccardo Del Torchio ci ha chiesto se potessimo produrre un centinaio di mascherine per la casa di riposo di Besozzo. Gli operatori sanitari si rifiutavano di lavorare senza precauzioni. La voce si è sparsa e il giorno dopo, aprendo la casella di posta, avevo 800 email di richieste da tutta Italia. Oggi siamo a 3.000, ho due ragazze che passano la giornata a rispondere».Arrivano ordini anche dall'estero?«Ne ho ricevuto uno molto grosso dalla Germania e uno dalla Svizzera, ma ho declinato. Ora sì, è il caso di dire “prima gli italiani"».Sarà un'impresa soddisfare una simile richiesta.«È impossibile. Ho 17 dipendenti, ai quali se ne aggiungono 73 provenienti da altre aziende del settore che hanno saputo e si sono messe a disposizione. Siamo arrivati a 10.000 pezzi al giorno, ma non è sufficiente. Si parla di una domanda di 3 milioni di mascherine, anche 300 aziende riconvertite non basterebbero. Alcune si sono messe in moto, non vedo l'ora che i numeri crescano per rifiatare un po'».Immagino i ritmi…«In otto giorni ho perso 5 chili. I miei genitori sono tornati in ditta a pieno regime, oltre al sottoscritto, a mia moglie e a mio fratello. Il record la settimana scorsa: 18 ore al giorno».Praticamente, dormite in fabbrica.«Quasi. Per fortuna abbiamo casa a 500 metri da qui. Alle 6 del mattino lascio i tre figli da mio suocero, che vive isolato in campagna, e quando stacco vado a prenderli».In quali condizioni versava l'azienda, prima della riconversione?«Secondo i calcoli, evadendo tutti gli ordini in essere, avevamo lavoro per un mese, non di più. Dopodiché, avremmo chiesto la cassaintegrazione. Con la riconversione ho potuto garantire l'impiego ai miei dipendenti. Anzi, li pago di più perché stanno facendo gli straordinari. Di loro spontanea volontà, ci tengo a dirlo».Le malelingue sosterranno che la sua è stata una strategia di vendita.«Altroché. Mi sono arrivate segnalazioni da amici riguardo ad attacchi di ogni genere. Invidio quella gente, perché se ha il tempo e la voglia di criticare chi si mette in gioco in un momento come questo, evidentemente la notte dorme sonni tranquilli».I suoi sonni come sono?«Tormentati. Mi assopisco per pochi minuti, poi mi sveglio di soprassalto. Penso al fatto di non poter rispondere all'immane richiesta che ricevo, sento una responsabilità sociale molto forte. La mia più grande preoccupazione è che, per quanto io cerchi di fornire a tutti le giuste precauzioni sull'utilizzo del prodotto che sto dando, la gente non le rispetti».Ovvero?«I nostri non sono prodotti chirurgici, nella dicitura è scritto chiaramente che non si tratta di presidi medici. Sono mascherine da passeggio, con una durata di un paio di mesi. Le persone devono indossarle sapendo di non essere dentro uno scafandro, adottando tutte le misure necessarie per salvaguardare la propria salute».Lei, il tempo materiale per preoccuparsi della sua salute, ce l'ha?«No. Credo sia lo stesso per un medico: non c'è il tempo di pensare, bisogna agire».Qualche paura la sfiora?«Tutte le sere, prima di andare a letto, prego che il virus non tocchi i miei figli. Che venga da me, piuttosto».La comunità come ha reagito alla vostra iniziativa?«C'è sempre chi ti vede come un santo e chi come uno speculatore, fa parte del gioco. Però l'altro giorno sono andato a fare la spesa al supermercato: malgrado indossassi la mascherina, le cassiere mi hanno riconosciuto e mi hanno fatto un applauso per ringraziarmi».Nella pazzia di questi giorni, c'è un pensiero ricorrente?«Mi sto rendendo conto di quante cose servano per la normalità. Non ci eravamo accorti che avevamo già tutto».