2023-06-07
Armi alla Colombia, D’Alema indagato
Massimo D'Alema (Getty Images)
Con gli ex ad di Leonardo e Fincantieri, Profumo e Bono, deve rispondere di corruzione internazionale in combutta con «un gruppo criminale organizzato in più Stati». L’accusa: ha aggirato la legge per piazzare navi e aerei sfruttando agganci politici e diplomatici.Povero Baffino. Non soltanto dieci giorni fa il Garante della privacy gli ha dato torto, stabilendo che era assolutamente legittimo pubblicare la conversazione in cui lui trattava la compravendita di armi con un ex comandante di gruppi paramilitari della Colombia, ma ora c’è una procura che vuole vedere chiaro nella faccenda e lo ha indagato per corruzione internazionale. La storia, come ricorderanno i lettori della Verità, risale all’inizio di marzo di un anno fa e a scoperchiarla fu proprio il nostro giornale. Il titolo di un articolo a firma di Giacomo Amadori e Francois De Tonquédec era il seguente: “Ora D’Alema si butta sulle armi: ci sono 80 milioni da spartire”. I colleghi avevano scoperto che l’ex premier, una volta lasciato il parlamento, si era dedicato all’attività di brasseur d’affaires, mettendo a frutto le conoscenze, comprese quelle da ministro degli Esteri e capo del Copasir, il comitato che vigila sui servizi segreti. Se si chiede a lui dirà che lo faceva per dare una mano alle imprese nazionali, ma la conversazione con un tipo dalla reputazione non proprio immacolata (è stato condannato a 40 anni di carcere) diceva altro. Infatti, nella registrazione trovata dai cronisti della Verità, non soltanto l’uomo che guidò i Ds fino a divenire presidente del Consiglio trattava la vendita di quattro corvette, due sommergibili e alcuni aerei al ministero della Difesa colombiano, ma parlava di spartire con altri intermediari 80 milioni di euro. Il colloquio risale al febbraio precedente, quando l’operazione sembrava aver avuto un intoppo. E nella registrazione si distingue chiaramente la voce di D’Alema che cerca di convincere l’interlocutore a non avere esitazioni sulla buona riuscita dell’affare: «Noi stiamo lavorando perché? Perché siamo stupidi? No, perché siamo convinti che alla fine riceveremo tutti noi 80 milioni di euro, questa è la posta in gioco». Chiaro il concetto? L’ex premier sembrava non avere dubbi sulla possibilità di incassare la gigantesca «provvigione». «Non appena avremo questi contratti, noi divideremo tutto. Sarà diviso tutto». Insomma, ce ne sarà per «ognuno di noi», ovvero per il gruppetto di faccendieri che ruotava intorno all’operazione. Ma, avvertiva Baffino, bisogna fare in fretta, per non farsi sfuggire il colpaccio: «Tra alcuni mesi ci sarà la nomina degli amministratori italiani (stiamo parlando di Fincantieri e Leonardo, due giganti pubblici, l’uno nel settore navale l’altro in quello aereo, ndr) che potrebbero cambiare. Questo potrebbe cambiare le cose. Dobbiamo concentrare lo sforzo per concludere questo accordo entro un paio di mesi».Da subito ci chiedemmo a che titolo D’Alema parlasse per conto di Fincantieri e Leonardo, ma soprattutto perché potesse promettere ad acquirenti e mediatori una stecca da 80 milioni da dividere con gruppetto di facilitatori. Ma le nostre domande caddero nel vuoto, perché i protagonisti della vicenda replicarono con il silenzio. Primo fra tutti, a tacere fu lo stesso ex presidente del Consiglio, aiutato in questo da gran parte della stampa, che ovviamente si guardò bene dall’approfondire le attività di uno degli uomini più in vista della sinistra nazionale. In assoluta solitudine, per giorni La Verità ha ricostruito i contorni della faccenda, riportando le frasi in cui D’Alema prometteva compensi pari al due per cento dell’operazione, ma anche lo strano mondo che ruotava intorno all’affare, con pluricondannati, generali, massoni e lobbisti. Soprattutto, i nostri cronisti cercarono di capire quali fossero le connessioni tra questa «banda» di piazzisti di armi e due aziende pubbliche quotate in Borsa. Baffino parlava con i capi di organizzazioni paramilitari, ma anche con ambasciatori e manager senza che nessuno apparentemente avesse chiaro il ruolo dello strano mediatore. A un certo punto, mentre si parlava di 24 aerei da vendere alla Colombia, ci furono anche un paio di incontri con Alessandro Profumo, amministratore delegato di Leonardo e uomo da sempre vicino alla sinistra. Dopo oltre un mese, pubblicammo dieci domande, chiedendo di sapere di quanti altri affari D’Alema si fosse occupato per conto delle aziende statali e quali fossero stati i compensi. Ma soprattutto, chiedemmo di sapere se partecipando alla trattativa egli avesse aggirato la legge secondo cui la cessione di armamenti può avvenire solo fra Stati o mediatori certificati e non tra strani consulenti, e perché egli per raggiungere i suoi scopi si fosse appoggiato ad alcuni nostri ambasciatori, chiedendo consulenza e addirittura presentando persone spacciate per suoi collaboratori. L’inchiesta ebbe come effetto la rimozione dell’amministratore delegato di Fincantieri, Giuseppe Bono. Una mossa che parve a noi un modo per mettere la pietra tombale sopra la vicenda, in vista di un «dimissionamento» dello stesso Profumo. Ora però, l’inchiesta della Procura di Napoli ha riaperto la faccenda. D’Alema, Profumo e altri manager devono rispondere di corruzione internazionale in combutta con un «gruppo criminale organizzato in più Stati». Forse sarà la volta buona che qualcuno risponderà alle domande di cui sopra: perché un ex premier ed ex ministro può aggirarsi nelle aziende pubbliche e negli apparati dello Stato, Farnesina compresa, per vendere armi e incassare milioni?
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