2021-08-21
Quando l’intesa politica si fa davanti al cibo
Talleyrand (s) e Napoleone Bonaparte (Getty Images)
Talleyrand, dopo la caduta di Napoleone, riuscì a far sedere la Francia al tavolo della pace tra le grandi potenze puntando sui dolci. Cavour conquistò con i tartufi d’Alba. E, nei tempi moderni, patti in nome di crostate, sardine, spigole, arancini...Sono passati più di 200 anni, ma Charles Maurice principe di Talleyrand-Perigord è ancora il primatista mondiale di salto sul carro del vincitore. Dotato di notevoli qualità diplomatiche, ambizioso, nonostante la conclamata fama di libertino, fu fatto vescovo da Luigi XVI quando il clero in Francia contava come la nobiltà. Talleyrand lo ricambiò qualche anno dopo schierandosi con il governo rivoluzionario e con gli estremisti che chiedevano la testa del re. Salito l’astro di Napoleone, divenne ministro degli Esteri dell’imperatore. Gli rimase fedele (o quasi) fino a Waterloo per mettere poi le sue capacità diplomatiche al servizio dei Borboni tornati sul trono. Luigi XVIII lo mandò al Congresso di Vienna per rappresentare la Francia sconfitta.Nella capitale austriaca compì il suo capolavoro trattando con pari dignità con i diplomatici delle potenze vincitrici. Li conquistò prendendoli per la gola. Raffinato gourmet, è il padre riconosciuto della diplomazia gastronomica. Se un negoziato va male, diceva, bisognava rimediare con un grande pranzo. Ai segretari e portaborse preferì portare con sé a Vienna Antonin Carême, il numero uno dei cuochi e dei pasticcieri francesi. A Luigi XVIII che cercava di metter naso nelle trattative replicò: «Sire, ho più bisogno di casseruole che di istruzioni». Nonostante la disfatta di Napoleone, Talleyrand riuscì grazie alla tavola imbandita con le superbe vivande e gli squisiti dolci di Carême, a far sedere la Francia al tavolo della pace tra le grandi potenze. «Quello che non fecero i cannoni a Waterloo», scrive Cesare Marchi in Quando siamo a tavola, «pare L’abbiano fatto, a Vienna, i cannoncini del dessert e il Brie, giudicato dai congressisti il re dei formaggi». Anche Camillo Benso conte di Cavour per costruire l’unità d’Italia usò le astuzie della diplomazia e le gustose sirene della cucina. Come Talleyrand, aveva un motto gastrodiplomatico: «Plures amicos mensa quam mens concipit», conquista più amici la mensa che la mente. Ottima forchetta, appassionato di pàté de foie gras, ostriche, champagne e cacciagione, ghiotto di pesce, Cavour strinse nel 1852 con Urbano Rattazzi, capo dell’opposizione nel parlamento subalpino, lo storico «connubio», complice una magnifica trota cucinata ad arte. Il premier dell’unità era talmente convinto delle virtù diplomatiche di un buon pranzo e di un buon vino che raccomandava ai suoi emissari in partenza per missioni all’estero di mettere nel bagaglio diplomatico qualche bottiglia di Barolo.Uno di questi collaboratori, Costantino Nigra, aveva fatto talmente sua la lezione del capo che nel bagaglio diplomatico aggiunse al Barolo il tartufo d’Alba. Grazie al Tuber magnatum incamerò applausi e simpatie al pranzo offerto da Napoleone III e dalla consorte Eugènie ad alcuni diplomatici stranieri nel castello di Compiégne. Oltre alla coppia imperiale sedettero a tavola il principe Riccardo di Metternich, il barone Henry Richard Charles Wellesley, il conte russo Nikolai Kisselev, l’americano William Lewis Dayton, il ministro degli Esteri francese Drouyn de Lhuys e Costantino Nigra. Il pranzo era una sfida tra la cucina francese e quella italiana. Nigra, che non poteva permettersi una sconfitta, sfoderò l’arma dei bianchi tartufi d’Alba che divennero il tocco prelibato di un risotto e un’insalata preparati dietro sue precise istruzioni culinarie. L’imperatore ne fu entusiasta e l’imperatrice lodò a tal punto i tartufi piemontesi che fornì l’occasione a Nigra di bissare il successo. Il diplomatico le fece recapitare un cesto con 30 splendidi tartufi bianchi sottolineando: «Risotto ed insalata non sono le sole forme con cui utilizzare questo tipo di prodotto della terra; si può servire con tutti i tipi di cacciagione volatile, e particolarmente con le beccacce. In questo caso i tartufi vanno affettati in foglie sottilissime direttamente sulla carne arrostita e ben calda in modo da ricoprire completamente il volatile».L’arte di stipulare accordi a tavola l’hanno ben appresa i politici moderni. Il più recente, passato alla cronaca come il «patto della spigola», ha visto a metà luglio Beppe Grillo e Giuseppe Conte seduti l’uno di fronte all’altro al ristorante Il bolognese da Sauro di Marina di Bibbona. Il destino del Movimento 5 stelle è transitato da un antipasto di mare e dalla spigola al forno abbinata a un Vermentino toscano. Sarà vera pace? Chi vivrà... vedremo. La spigola, chiamata branzino al nord, è un pesce molto apprezzato dai politici italiani. Prima del patto tra Grillo e Conte ci fu il «patto della spigola», il 30 luglio 2008, tra Massimo D’Alema e Gianfranco Fini, allora presidente della Camera, sulla necessità di avviare riforme istituzionali. Neppure sei mesi dopo, il 16 gennaio del 2009, s’incontrano a tavola a Montecitorio il premier Silvio Berlusconi e Fini. Temi forti dell’incontro la riforma della giustizia e la confluenza di An nel Pdl. Lo chiamarono «patto della spigola 2». In realtà il piatto principale di quel pranzo era a base di carciofi, ma non sembrando opportuno ai due leader della destra chiamarlo «patto del carciofo» (sai che sballo per i vignettisti satirici) si tirò fuori la spigola, pesce amato da tutto l’arco costituzionale con uguale appetito.Padre di tutti gli accordi della seconda Repubblica fu il «patto delle sardine» stretto nella casa romana di Umberto Bossi il 22 dicembre del 1994 per far cadere il primo governo Berlusconi. Preludio a questo incontro fu il «patto delle vongole» stretto tra Massimo D’Alema e Rocco Buttiglione a Gallipoli alcuni mesi prima per accordarsi sul doppio turno elettorale. Tre i cospiratori a casa Bossi: il senatur, D’Alema e Buttiglione. Un’alleanza che sembrava improponibile, ma che funzionò. Mordicchiando i tramezzini preparati da Bossi con pan carrè e sardine in scatola e bevendo qualche lattina di birra e Coca Cola andò in porto il ribaltone: giù il governo Berlusconi, su quello di Lamberto Dini.18 giugno 1997. Tre anni dopo. A casa di Gianni Letta, alla Camilluccia, stavolta c’è anche Silvio Berlusconi. Oltre al solito D’Alema, segretario del Pds, ci sono Franco Marini, leader del Partito Popolare, e Fini, presidente di Alleanza Nazionale. I quattro si accordano per salvare la Commissione bicamerale per le riforme costituzionali e sulla legge elettorale maggioritaria a doppio turno. Dopo la cena, dulcis in fundo, viene servita la crostata preparata dalla moglie di Letta, dessert che offre lo spunto all’ex presidente Francesco Cossiga per battezzare l’incontro «patto della crostata».A Calalzo di Cadore il 5 gennaio 2011 va in scena la cena degli ossi di porco. Non è un patto vero e proprio perché i partecipanti sono tutti amiconi o parenti degli amiconi. Vi partecipano Umberto Bossi col figlio Renzo (il Trota), Giulio Tremonti, ex ministro dell’Economia, Aldo Brancher, eminenza grigia delle alleanze Pdl-Lega, Roberto Calderoli, Roberto Castelli e Luca Zaia. Tutti d’accordo sul federalismo fiscale. Ma dopo aver spolpato quegli ossi quasi tutti i partecipanti, tranne Zaia, s’incamminano sul viale del tramonto.Dalle Dolomiti alla Sicilia la gastronomia politica cambia radicalmente passando dagli ossi di porco agli arancini. A Catania il 1° di novembre del 2017 alla Trattoria del Cavaliere (ma guarda un po’ la coincidenza) s’incontrano Silvio Berlusconi, Giorgia Meloni, Matteo Salvini. C’è da saldare la coalizione di centrodestra per sostenere alle imminenti elezioni Nello Musumeci, candidato governatore, pure lui presente. In menu arancini, cernia all’acqua pazza e una torta panna e fragole sulla quale campeggiano le foto dei tre big. È la Meloni a battezzare l’incontro «patto dell’arancino», un nome che porta bene alla coalizione che di lì a 15 giorni risulterà vincente.
Il laboratorio della storica Moleria Locchi. Nel riquadro, Niccolò Ricci, ceo di Stefano Ricci
Il regista Stefano Sollima (Ansa)
Robert F.Kennedy Jr. durante l'udienza del 4 settembre al Senato degli Stati Uniti (Ansa)