Al vertice di Parigi organizzato da Nazioni Unite, Aie e Banca africana dello sviluppo si dice che uno dei maggiori problemi per la salute nel continente nero viene dalla legna bruciata per cucinare. Se queste sono le priorità di chi detta l’agenda globale...
Al vertice di Parigi organizzato da Nazioni Unite, Aie e Banca africana dello sviluppo si dice che uno dei maggiori problemi per la salute nel continente nero viene dalla legna bruciata per cucinare. Se queste sono le priorità di chi detta l’agenda globale...Certo la scelta di Parigi non è casuale. La capitale francese dopo l’Accordo del 2016 sull’ambiente è diventata il riferimento imprescindibile ogni volta che si parla di transizione ecologica. Tuttavia è difficile non tornare indietro ai ricordi di scuola. A cominciare dalla famosa esortazione attribuita a Maria Antonietta che, alla folla tumultuante perché priva di pane, replicava: «Mangiate le brioches». Ecco: la conferenza che inizia questa mattina sulle rive della Senna ricorda molto questo precedente anche se cambia un po’ la prospettiva: il problema di cui dibatteranno i partecipanti alla grande riunione non si occupa tanto di quello che c’è sopra il fornello ma di come accenderlo. L’assemblea infatti intende mettere al bando la grigliata. Non per quello che viene arrostito ma per il fuoco di cotture troppo inquinante. Con preoccupata intelligenza gli organizzatori dell’evento ricordano che circa 2,3 miliardi di persone nel mondo cucinano ancora bruciando legna, carbone o altri combustibili in sistemi rudimentali e inquinanti. Un problema sanitario, sociale e climatico di primaria importanza secondo i promotori dell’iniziativa, che tuttavia non sono proprio degli sconosciuti. Naturalmente l’Onu, che ormai ha abbracciato tutte le forme di radicalismo verde. Anche le più insensate e velleitarie. Per l’occasione ha utilizzato un rapporto la cui origine non risulta proprio al di sopra di ogni sospetto. A prepararlo è stata l’Aie (Agenzia internazionale dell’energia) che, essendo una emanazione dell’Opec vuole scomunicare tutti i combustibili diversi dal petrolio. L’altro patron è la Banca africana dello sviluppo (Adb) la cui presenza sembra quasi uno scherzo. Il problema dell’Africa, da quanto risulta, non sembra essere il combustibile che alimenta il fuoco di cottura quanto l’assenza di cibo da mettere in pentola. Il tema della denutrizione viene propagandato ogni giorno da decine di Ong facendoci vergognare dei soldi che spendiamo in palestra e in cure dimagranti. Secondo l’Oms (altra agenzia dell’Onu) le principali cause di morte in Africa sono legate alla povertà. Il 45% della popolazione del continente soffre (e muore) per malattie infettive (a cominciare da Aids che colpisce 25 milioni di soggetti), parassiti (malaria per esempio) e carenza alimentare. I tumori provocati dalle emissioni di CO2 non godono di altrettanta notorietà. In Africa la fame sembra un’emergenza immediata. Onu, Aie e Banca Africana dello Sviluppo però non la pensano così. Anzi ripetono l’allarme lanciato l’anno scorso secondo cui un terzo della popolazione mondiale utilizza fornelli aperti o stufe rudimentali alimentate a legna, carbone, paraffina, rifiuti agricoli o sterco. La combustione di questi materiali inquina l’aria interna ed esterna con particelle sottili che penetrano nei polmoni e causano molteplici problemi respiratori e cardiovascolari, tra cui cancro e ictus. Nei bambini piccoli è una delle principali cause di polmonite. Le vittime principali sono le donne e i bambini, che ogni giorno trascorrono ore alla ricerca di combustibile, tempo che non viene dedicato alla scuola. Governi, istituzioni, Onu, imprese: circa 800 partecipanti e rappresentanti di 50 Paesi sono attesi oggi presso la sede dell’Unesco su invito dell’Aie, dell’Adb e dei leader di Tanzania e Norvegia. L’obiettivo principale di questo incontro, che si concentrerà principalmente sull’Africa, la prima zona interessata, è quello di riunire gli impegni, sia finanziari che in termini di progetti, i cui dettagli e importi saranno resi noti a mezzogiorno. «Sarà un incontro senza precedenti, ma soprattutto vuole essere un evento che ci permetta di cambiare direzione», ha dichiarato ai giornalisti Laura Cozzi, direttore Sostenibilità e Tecnologia dell’Aie, che segue il tema da 25 anni. Il tema dei metodi di cottura «è trasversale, tocca tante questioni, è ora di metterlo al centro dell’attenzione». Promette «un vero e proprio sforzo di mobilitazione» e si aspetta che vengano annunciate cifre «molto, molto incoraggianti». Un altro problema è rappresentato dalle emissioni di metano (spesso legate a una cattiva combustione), oltre che dalla deforestazione, che è una delle principali cause del riscaldamento globale. «Ci sono stati dei progressi in Kenya, Ghana, Tanzania. Ma stiamo vedendo che la crescita della popolazione sta superando i progressi» in questo continente, avverte Daniel Wetzel, esperto dell’Aie. Tuttavia, le somme stimate necessarie restano modeste, osserva l’agenzia: per risolvere gran parte del problema in Africa entro il 2030 sarebbero necessari 4 miliardi di dollari all’anno, mentre attualmente si investono solo 2 miliardi di dollari, soprattutto nel resto del mondo. L’Aie sottolinea che si tratta di «una minuscola frazione» degli investimenti globali nel settore energetico (2.800 miliardi di dollari entro il 2023). «Eppure è difficile immaginare una misura più efficace per dollaro investito», sottolinea Wetzel. «È ovvio che dobbiamo darci da fare. L’introduzione di piani d’azione a livello nazionale, l’abolizione delle tasse e delle restrizioni all’importazione di questo tipo di apparecchiature sono tutte misure necessarie». Anche il sostegno finanziario è essenziale, aggiungono gli esperti: la maggior parte delle famiglie africane prive di attrezzature adeguate non può permettersi un fornello o un combustibile appropriato senza aiuti o incentivi. Fermo restando che senza aiuti non riesce nemmeno a risolvere il problema principale: che cosa far bollire in pentola.
Il tocco è il copricapo che viene indossato insieme alla toga (Imagoeconomica)
La nuova legge sulla violenza sessuale poggia su presupposti inquietanti: anziché dimostrare gli abusi, sarà l’imputato in aula a dover certificare di aver ricevuto il consenso al rapporto. Muove tutto da un pregiudizio grave: ogni uomo è un molestatore.
Una legge non è mai tanto cattiva da non poter essere peggiorata in via interpretativa. Questo sembra essere il destino al quale, stando a taluni, autorevoli commenti comparsi sulla stampa, appare destinata la legge attualmente in discussione alla Camera dei deputati, recante quella che dovrebbe diventare la nuova formulazione del reato di violenza sessuale, previsto dall’articolo 609 bis del codice penale. Come già illustrato nel precedente articolo comparso sulla Verità del 18 novembre scorso, essa si differenzia dalla precedente formulazione essenzialmente per il fatto che viene ad essere definita e punita come violenza sessuale non più soltanto quella di chi, a fini sessuali, adoperi violenza, minaccia, inganno, o abusi della sua autorità o delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa (come stabilito dall’articolo 609 bis nel testo attualmente vigente), ma anche, ed in primo luogo, quella che consista soltanto nel compimento di atti sessuali «senza il consenso libero e attuale» del partner.
Tampone Covid (iStock)
Stefano Merler in commissione confessa di aver ricevuto dati sul Covid a dicembre del 2019: forse, ammette, serrando prima la Bergamasca avremmo evitato il lockdown nazionale. E incalzato da Claudio Borghi sulle previsioni errate dice: «Le mie erano stime, colpa della stampa».
Zero tituli. Forse proprio zero no, visto il «curriculum ragguardevole» evocato (per carità di patria) dall’onorevole Alberto Bagnai della Lega; ma uno dei piccoli-grandi dettagli usciti dall’audizione di Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler in commissione Covid è che questo custode dei big data, colui che in pandemia ha fornito ai governi di Giuseppe Conte e Mario Draghi le cosiddette «pezze d’appoggio» per poter chiudere il Paese e imporre le misure più draconiane di tutto l’emisfero occidentale, non era un clinico né un epidemiologo, né un accademico di ruolo.
La Marina colombiana ha cominciato il recupero del contenuto della stiva del galeone spagnolo «San José», affondato dagli inglesi nel 1708. Il tesoro sul fondo del mare è stimato in svariati miliardi di dollari, che il governo di Bogotà rivendica. Il video delle operazioni subacquee e la storia della nave.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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Manifestazione ex Ilva (Ansa)
Ok del cdm al decreto che autorizza la società siderurgica a usare i fondi del prestito: 108 milioni per la continuità degli impianti. Altri 20 a sostegno dei 1.550 che evitano la Cig. Lavoratori in protesta: blocchi e occupazioni. Il 28 novembre Adolfo Urso vede i sindacati.
Proteste, manifestazioni, occupazioni di fabbriche, blocchi stradali, annunci di scioperi. La questione ex Ilva surriscalda il primo freddo invernale. Da Genova a Taranto i sindacati dei metalmeccanici hanno organizzato sit-in per chiedere che il governo faccia qualcosa per evitare la chiusura della società. E il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al nuovo decreto sull’acciaieria più martoriata d’Italia, che autorizza l’utilizzo dei 108 milioni di euro residui dall’ultimo prestito ponte e stanzia 20 milioni per il 2025 e il 2026.






