La crisi della Germania trascina giù la produzione industriale italiana
Diciamoci le cose come stanno: preoccuparsi eccessivamente dei dazi, oggi, significa guardare il dito e non vedere la luna. Basta osservare i dati dell’Istat relativi alla produzione industriale di dicembre, per capire che i problemi li abbiamo in casa, vale a dire in Europa. Rispetto a novembre, l’indice destagionalizzato della produzione industriale italiana del mese di dicembre, cioè corretto delle variazioni di calendario, segna -3,1%. Il dato congiunturale mensile è in positivo solo per il settore dell’energia (+0,9%), mentre cala per i beni strumentali (-3,3%), i beni di consumo (-3,3%) e i beni intermedi (-3,6%). A livello trimestrale, quindi da ottobre fino alla fine dell’anno, la riduzione rispetto ai tre mesi precedenti è più modesta: -1,2%. Un po’ meglio, dunque, anche i principali raggruppamenti di industrie: +1% per l’energia, +0,3% per i beni di consumo, -1,3% per i beni strumentali e -1,9% per i beni intermedi.
Su base annua, invece, il dato tendenziale (cioè rispetto allo stesso mese del 2023) corretto per gli effetti di calendario registra una diminuzione del 7,1%, dove i settori più colpiti sono la fabbricazione di mezzi di trasporto (-23,6%), industrie tessili, abbigliamento, pelli e accessori (-18,3%) e metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo (-14,6%). Crescono solo l’attività estrattiva (+17,4%) e la fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria (+5,0%). Quanto ai principali raggruppamenti di industrie, ha segno positivo ancora l’energia (+5,5%), ma si contraggono i beni strumentali (-10,7%), i beni intermedi (-9,5%) e i beni di consumo (-7,3%).
Una fotografia piuttosto limpida di che cosa significhino, per l’Italia, la crisi tedesca, il Green deal e gli elevati costi dell’energia (che prossimamente saliranno ancora, viste le attuali turbolenze sul mercato del gas). Nel 2024, il Pil della Germania si è contratto dello 0,2%, dopo il -0,3% del 2023. Quanto alla produzione industriale, gli ultimi dati relativi a dicembre, dopo la crescita dell’1,3% registrata a novembre, mostrano una nuova diminuzione del 2,4% su base mensile e del 4,5% su base annua. È il livello più basso dal crollo innescato dalla pandemia a maggio del 2020. Tra i principali settori responsabili figura naturalmente l’automotive, che solo su base mensile segna -10%. Considerata la stretta integrazione di molte aziende del Nord Italia nelle filiere tedesche, si capisce come questi numeri incidano anche sui nostri risultati economici. A cui, naturalmente, vanno aggiunte anche le conseguenze delle regole green imposte dall’Ue. Secondo l’ultimo report curato dalla Fim-Cisl, la produzione di Stellantis in Italia, nel 2024, ha registrato una contrazione del 36,5% (che arriva a -45,6% per le autovetture): tra auto e furgoni, sono stati prodotti solo 475.090 unità, il dato più basso dal 1956.
Non più di qualche settimana fa, il presidente di Confindustria Emanuele Orsini ha lanciato un appello a intervenire sui costi dell’energia. «In un solo anno», ha dichiarato, «il costo dell’energia in Italia è cresciuto del 43%: una pazzia, serve fare presto, perché vuol dire perdita di competitività delle nostre imprese e del sistema Paese». «Agire ora», ha aggiunto, «vuol dire proteggere il nostro presente e costruire un futuro più solido per l’industria e per l’Italia», sottolineando la necessità di «diversificare le fonti di approvvigionamento». Come noto, la crisi energetica inizia ben prima dell’invasione russa dell’Ucraina, ma lo scoppio del conflitto e il suo perdurare hanno inevitabilmente inciso. Anche su questo fronte, però, l’Unione europea ha rinunciato a difendere i propri interessi e si è accodata alla Nato, ossia agli Stati Uniti.
E, per quanto riguarda le performance economiche, nemmeno ha aiutato la Banca centrale europea, colpevole, secondo molti, di essere stata eccessivamente prudente nel percorso di discesa dei tassi. D’altra parte, anche la precedente scelta di alzarli di oltre quattro punti percentuali in poco più di un anno, di fronte a un’inflazione di natura esogena, è stata ampiamente messa in discussione.
Dal punto di vista macroeconomico, però, per due Paesi in surplus commerciale come l’Italia e, soprattutto, la Germania (239,1 miliardi di euro nel 2024), non si può parlare solo di competitività. Il grande assente, in verità, è la politica fiscale. A fronte di costosissime transizioni energetiche calate dall’alto, gli Stati sono ancora legati delle regole del Patto di stabilità (chi per scelta - vedi la Germania - chi, come noi, per dovere), quando invece occorrerebbero cospicui investimenti pubblici in settori strategici per rilanciare la crescita (e far diminuire, così, il rapporto debito-Pil). Il problema, in Europa, è anche di domanda: gli Stati Uniti non hanno più intenzione di tenere in piedi le nostre industrie con il loro deficit commerciale. Finché, dunque, la Germania non sfrutterà il suo enorme spazio fiscale per rilanciare i consumi interni e, di conseguenza, le sorti dell’intero continente, l’Unione europea è destinata al declino. Al nostro governo, però, nel frattempo è richiesto più coraggio, anche a costo di scontrarsi con Bruxelles. Dobbiamo difendere le nostre imprese.






