True
2022-08-10
Cresce la spaccatura tra istituzioni e gli «esclusi» fedeli a The Donald
Donald Trump (Ansa)
Non sappiamo ancora se il clamoroso blitz dell’Fbi a Mar-a-Lago indurrà Donald Trump a chiamarsi fuori dalla corsa per le presidenziali del 2024, o se, al contrario, ne rafforzerà l’intenzione di candidarsi, per sfidare un’altra volta quell’establishment che palesemente lo detesta.
Siamo sempre lì: rispetto alla «regola» (non scritta ma ferrea) che considera accettato e accettabile solo chi sia progressista (al massimo, è ammessa la variante tecnocratica), l’elezione di Trump nel 2016 ha rappresentato un autentico rovesciamento del tavolo. Ne sono testimonianza lo shock prima e la rabbia poi di certe èlites, la loro propensione a negargli ogni legittimazione mentre era in carica e quindi, dopo la mancata rielezione nel 2020, a considerare il suo quadriennio come un incidente, come una spiacevole parentesi finalmente (per loro) chiusa. Ora, la prospettiva di una sconfitta cocente dei democratici nelle elezioni di mid-term, all’inizio del prossimo novembre, schiude di nuovo ai repubblicani la corsa verso la Casa Bianca, e rialimenta un clima di demonizzazione.
Atteggiamento miope perché, qualunque cosa si pensi personalmente di Trump, non si può pretendere di cancellare pure gli elettori che proprio lui ha massimamente rappresentato: un ceto medio e medio-basso incazzato, impaurito, impoverito, che prima di Trump si era sistematicamente sentito escluso dall’agenda politica e mediatica «ufficiale». Ecco, quell’immensa mezza America esiste ancora, e, anziché cercare di ascoltarla, il vecchio establishment sembra pressoché esclusivamente preoccupato di azzopparne il portavoce, affinché non sia in grado di ripetere la «sorpresa» del 2016.
Anche nel campo repubblicano, come si sa, il dibattito su una terza ricandidatura di Trump è forte e controverso. Milita a favore di questa ipotesi il fatto che la sua capacità di estendere l’elettorato repubblicano (per un verso ai delusi della sinistra, e per altro verso a neri e ispanici) resti assai significativa. Depone in senso contrario il rischio che Trump possa tendere a parlare molto dei veri o presunti brogli del 2020, insomma a fare una campagna elettorale con la testa rivolta all’indietro, e che la sua figura ingombrante ed egoriferita possa - per così dire - aiutare i democratici Usa, divisi su tutto, a unirsi contro il loro vecchio arcinemico, a maggior ragione considerando le polemiche e le controversie che tuttora proseguono sul tragico autogol trumpiano del 6 gennaio 2021, quando - come si sa - una legittima manifestazione di protesta sfociò in un indifendibile assalto a Capitol Hill.
Per molti versi, sarebbe auspicabile un eventuale tentativo repubblicano di mettere in campo un’operazione di «trumpismo senza Trump»: quindi far tesoro della sua capacità di allargare il campo, ma puntare su figure meno autoreferenziali e più proiettate nel futuro, a partire dal governatore della Florida Ron DeSantis. Ma di questo ci occuperemo nei prossimi mesi.
Per ora, occorre sottolineare come il blitz dell’Fbi abbia ancora una volta incendiato il clima. E non va sottovalutata la reazione di Trump e dei suoi, indirizzata alla mezza America che si fida di loro: «They are not after me, they are after you», cioè «non ce l’hanno con me, ma con voi». La sinistra (americana ed europea) parlerà ovviamente di propaganda: e invece il messaggio trumpiano è di enorme efficacia perché corrisponde esattamente a ciò che i suoi elettori pensano e sentono, e cioè un’ostilità profonda del potere costituito (politico, burocratico, mediatico) anche verso di loro, non solo verso Trump.
E questa ulteriore fiammata di polarizzazione e demonizzazione arriva poche settimane dopo ciò che è successo a seguito della decisione della Corte Suprema che ha annullato la sentenza del 1973 «Roe vs Wade» in materia di aborto. Anche lì, da parte democratica, le reazioni hanno innescato un autentico pandemonio: Joe Biden ha parlato di «percorso estremo e pericoloso» intrapreso dalla Corte; Barack Obama di «attacco alle libertà fondamentali»; Hillary Clinton di «infamia»; Nancy Pelosi di una Corte che «sta eviscerando i diritti americani».
Sui giornali e nelle tv, le linee di frattura si sono approfondite in modo esasperato e ultra-radicalizzato: e, sullo sfondo di proteste e disordini (non senza minacce ai giudici della Corte), qualunque posizione intermedia, articolata, sfumata è stata cassata e resa impraticabile. Anche in quel caso, l’opinione pubblica Usa, già divisa per mille ragioni, si è ̀trovata dentro un’ulteriore guerra culturale, in un avvitamento di radicalizzazione incontrollabile.
Spettacolo - c’è da immaginare - guardato con una certa soddisfazione da Pechino e da Mosca, mentre già infuria da mesi la guerra in Ucraina e mentre è sempre più forte pure la tensione su Taiwan. C’è da temere che dittature e autocrazie coglieranno altri segni di divisione interna agli Usa e all’Occidente: e, in ultima analisi, una nostra crescente incapacità di gestire un conflitto di idee e valori in modo non lacerante e rispettoso degli altri.
L’Fbi irrompe a casa di Trump alla ricerca di documenti. «Colpo alla mia candidatura»
Tira un’inquietante aria venezuelana negli Stati Uniti. Lunedì, agenti dell’Fbi hanno condotto una perquisizione nella residenza di Donald Trump in Florida. Secondo i media d’oltreatlantico, i federali erano a caccia di documenti classificati che il diretto interessato si sarebbe indebitamente portato a casa dopo la conclusione dell’incarico presidenziale. «Questa è una condotta persecutoria, la strumentalizzazione del sistema di giustizia, un attacco da parte dei dem della sinistra radicale che non vogliono che mi ricandidi nel 2024», ha tuonato Trump in una nota, paragonando l’accaduto al Watergate. Gli agenti avrebbero portato via degli scatoloni con dei documenti, mentre la Casa Bianca ha detto a Fox News di non essere stata avvisata, rimandando al Dipartimento di Giustizia «per ulteriori informazioni». Il New York Times riferiva ieri sera che il raid non sarebbe collegato all’indagine della commissione parlamentare sull’irruzione in Campidoglio.
I repubblicani hanno fatto quadrato attorno a Trump. Il capogruppo dell’elefantino alla Camera, Kevin McCarthy, ha promesso l’avvio di un’inchiesta parlamentare sul Dipartimento di Giustizia, da lui accusato di politicizzazione. Di «strumentalizzazione» ha parlato il governatore della Florida Ron DeSantis. «Io servivo nella commissione Bengasi, dove provammo che Hillary Clinton aveva informazioni classificate. Non abbiamo fatto raid in casa sua», ha dichiarato l’ex segretario di Stato Mike Pompeo. Risposte chiare e tempestive sono state chieste all’amministrazione Biden dal senatore Rick Scott e dall’ex vicepresidente Mike Pence, mentre la deputata Lauren Boebert ha invocato tagli al budget del Bureau.
Ora, è chiaro che bisognerà attendere le motivazioni ufficiali del raid: motivazioni ufficiali che, quando La Verità è andata in stampa, non erano ancora state rese note. Tuttavia qualche sospetto di politicizzazione effettivamente viene, non solo perché la deputata dem Pramila Jayapal ha esplicitamente detto che «Trump dovrebbe essere in prigione», ma anche perché tanta solerzia investigativa su Hunter Biden - che è sotto indagine della procura federale del Delaware dal 2018 - ancora non si è vista. In primis, va notato che nessun ex presidente americano è mai finito sotto inchiesta. Richard Nixon ottenne il perdono da Gerald Ford nel settembre 1974 sul Watergate, mentre Bill Clinton - poche ore prima di lasciare l’incarico alla Casa Bianca nel gennaio 2001 - raggiunse un accordo con l’Office of the Independent Counsel per non subire un’incriminazione legata al caso Lewinsky. Sebbene ieri Nancy Pelosi abbia sentenziato che «nessuno è al di sopra della legge», storicamente si è sempre evitato di condurre azioni penali su ex presidenti per salvaguardare le istituzioni. Il punto è che, differentemente dai casi di Nixon e Clinton, Trump ha effettuato un unico mandato ed è quindi teoricamente rieleggibile. Ricordiamo sotto questo aspetto che l’Fbi risponde al Dipartimento di Giustizia, attualmente guidato da Merrick Garland, il quale è stato nominato da Joe Biden previa ratifica senatoriale. Quello stesso Biden che fu l’avversario elettorale di Trump nel 2020 e che, in caso si ricandidassero entrambi, dovrebbe sfidarlo ancora nel 2024. Un Biden, rammentiamolo, attualmente in crisi di consensi e che, secondo alcuni sondaggi, perderebbe oggi in un nuovo duello elettorale con l’ex presidente. Tra l’altro, Garland nutre assai probabilmente sentimenti di acrimonia verso Trump, visto che, nel gennaio 2017, quest’ultimo non confermò la sua precedente nomina a giudice della Corte suprema. Senza poi dimenticare alcuni provvedimenti controversi dello stesso Garland da procuratore generale, come quando coinvolse l’Fbi per mettere nel mirino i genitori che protestavano contro l’indottrinamento liberal nelle scuole.
Ma non è finita qui. La questione della presunta sottrazione di documenti classificati da parte di Trump è uscita sui media già a febbraio 2022. Se questa perquisizione era così urgente, perché attendere addirittura sei mesi prima di compierla? Sarà mica perché oggi siamo nel pieno della campagna elettorale per le Midterm di novembre? È vero che Trump non è candidato a queste elezioni. Ma è altrettanto vero che esse rappresentano un test per la sua leadership. Ulteriore stranezza risiede nel fatto che, come notato da Jonathan Turley (professore di diritto alla George Washington University), le eventuali violazioni del Presidential records act (legge del 1978 che regola la gestione dei documenti ufficiali) vengono solitamente affrontate per via amministrativa e non penale.
Inoltre sarà un caso, ma l’ex avvocato della Clinton, Marc Elias, ha twittato, evidenziando la sezione 2071 del titolo 18 del codice degli Stati Uniti: sezione secondo cui chiunque «avendo la custodia di qualsiasi atto, procedimento, mappa, libro, documento, carta, o altro, intenzionalmente e illecitamente nasconde, rimuove, mutila, cancella, falsifica o distrugge gli stessi, è sanzionato o imprigionato non più di tre anni, o entrambi; e perderà il suo incarico e sarà squalificato da qualsiasi incarico negli Usa». Insomma, l’obiettivo potrebbe essere quello di interdire Trump dai pubblici uffici: in altre parole, farlo fuori per via giudiziaria. Vi ricorda qualcosa? Tuttavia, se questo fosse il progetto, non sarebbe facile da realizzare. È infatti la Costituzione americana a fissare i criteri di eleggibilità presidenziale: quindi la sezione 2071 non può applicarsi a chi si candida alla Casa Bianca. Da rilevare che questa argomentazione fu usata (con successo) contro quei conservatori che speravano di bloccare la candidatura presidenziale della Clinton nel 2016 per la questione delle email. E comunque, al di là dei problemi tecnici, la domanda da porsi è soltanto una: siamo veramente sicuri che questo raid non si tradurrà in un boomerang politico per i dem?
Continua a leggereRiduci
Il raid alimenta il clima di demonizzazione contro il magnate. E soffia sulla rabbia dei suoi sostenitori: cittadini delusi e snobbati dall’establishment. Un’ulteriore lacerazione nel Paese, scosso dalle tensioni sull’aborto.L’Fbi irrompe a casa di Trump alla ricerca di documenti. «Colpo alla mia candidatura». Sequestrate diverse carte nella residenza in Florida. L’ex presidente sarebbe accusato di detenerle illegalmente da fine mandato. I repubblicani: «Tagliamo i fondi al Bureau».Lo speciale comprende due articoli. Non sappiamo ancora se il clamoroso blitz dell’Fbi a Mar-a-Lago indurrà Donald Trump a chiamarsi fuori dalla corsa per le presidenziali del 2024, o se, al contrario, ne rafforzerà l’intenzione di candidarsi, per sfidare un’altra volta quell’establishment che palesemente lo detesta. Siamo sempre lì: rispetto alla «regola» (non scritta ma ferrea) che considera accettato e accettabile solo chi sia progressista (al massimo, è ammessa la variante tecnocratica), l’elezione di Trump nel 2016 ha rappresentato un autentico rovesciamento del tavolo. Ne sono testimonianza lo shock prima e la rabbia poi di certe èlites, la loro propensione a negargli ogni legittimazione mentre era in carica e quindi, dopo la mancata rielezione nel 2020, a considerare il suo quadriennio come un incidente, come una spiacevole parentesi finalmente (per loro) chiusa. Ora, la prospettiva di una sconfitta cocente dei democratici nelle elezioni di mid-term, all’inizio del prossimo novembre, schiude di nuovo ai repubblicani la corsa verso la Casa Bianca, e rialimenta un clima di demonizzazione. Atteggiamento miope perché, qualunque cosa si pensi personalmente di Trump, non si può pretendere di cancellare pure gli elettori che proprio lui ha massimamente rappresentato: un ceto medio e medio-basso incazzato, impaurito, impoverito, che prima di Trump si era sistematicamente sentito escluso dall’agenda politica e mediatica «ufficiale». Ecco, quell’immensa mezza America esiste ancora, e, anziché cercare di ascoltarla, il vecchio establishment sembra pressoché esclusivamente preoccupato di azzopparne il portavoce, affinché non sia in grado di ripetere la «sorpresa» del 2016.Anche nel campo repubblicano, come si sa, il dibattito su una terza ricandidatura di Trump è forte e controverso. Milita a favore di questa ipotesi il fatto che la sua capacità di estendere l’elettorato repubblicano (per un verso ai delusi della sinistra, e per altro verso a neri e ispanici) resti assai significativa. Depone in senso contrario il rischio che Trump possa tendere a parlare molto dei veri o presunti brogli del 2020, insomma a fare una campagna elettorale con la testa rivolta all’indietro, e che la sua figura ingombrante ed egoriferita possa - per così dire - aiutare i democratici Usa, divisi su tutto, a unirsi contro il loro vecchio arcinemico, a maggior ragione considerando le polemiche e le controversie che tuttora proseguono sul tragico autogol trumpiano del 6 gennaio 2021, quando - come si sa - una legittima manifestazione di protesta sfociò in un indifendibile assalto a Capitol Hill. Per molti versi, sarebbe auspicabile un eventuale tentativo repubblicano di mettere in campo un’operazione di «trumpismo senza Trump»: quindi far tesoro della sua capacità di allargare il campo, ma puntare su figure meno autoreferenziali e più proiettate nel futuro, a partire dal governatore della Florida Ron DeSantis. Ma di questo ci occuperemo nei prossimi mesi. Per ora, occorre sottolineare come il blitz dell’Fbi abbia ancora una volta incendiato il clima. E non va sottovalutata la reazione di Trump e dei suoi, indirizzata alla mezza America che si fida di loro: «They are not after me, they are after you», cioè «non ce l’hanno con me, ma con voi». La sinistra (americana ed europea) parlerà ovviamente di propaganda: e invece il messaggio trumpiano è di enorme efficacia perché corrisponde esattamente a ciò che i suoi elettori pensano e sentono, e cioè un’ostilità profonda del potere costituito (politico, burocratico, mediatico) anche verso di loro, non solo verso Trump. E questa ulteriore fiammata di polarizzazione e demonizzazione arriva poche settimane dopo ciò che è successo a seguito della decisione della Corte Suprema che ha annullato la sentenza del 1973 «Roe vs Wade» in materia di aborto. Anche lì, da parte democratica, le reazioni hanno innescato un autentico pandemonio: Joe Biden ha parlato di «percorso estremo e pericoloso» intrapreso dalla Corte; Barack Obama di «attacco alle libertà fondamentali»; Hillary Clinton di «infamia»; Nancy Pelosi di una Corte che «sta eviscerando i diritti americani». Sui giornali e nelle tv, le linee di frattura si sono approfondite in modo esasperato e ultra-radicalizzato: e, sullo sfondo di proteste e disordini (non senza minacce ai giudici della Corte), qualunque posizione intermedia, articolata, sfumata è stata cassata e resa impraticabile. Anche in quel caso, l’opinione pubblica Usa, già divisa per mille ragioni, si è ̀trovata dentro un’ulteriore guerra culturale, in un avvitamento di radicalizzazione incontrollabile. Spettacolo - c’è da immaginare - guardato con una certa soddisfazione da Pechino e da Mosca, mentre già infuria da mesi la guerra in Ucraina e mentre è sempre più forte pure la tensione su Taiwan. C’è da temere che dittature e autocrazie coglieranno altri segni di divisione interna agli Usa e all’Occidente: e, in ultima analisi, una nostra crescente incapacità di gestire un conflitto di idee e valori in modo non lacerante e rispettoso degli altri. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/cresce-la-spaccatura-tra-istituzioni-e-gli-esclusi-fedeli-a-the-donald-2657836903.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="lfbi-irrompe-a-casa-di-trump-alla-ricerca-di-documenti-colpo-alla-mia-candidatura" data-post-id="2657836903" data-published-at="1660074901" data-use-pagination="False"> L’Fbi irrompe a casa di Trump alla ricerca di documenti. «Colpo alla mia candidatura» Tira un’inquietante aria venezuelana negli Stati Uniti. Lunedì, agenti dell’Fbi hanno condotto una perquisizione nella residenza di Donald Trump in Florida. Secondo i media d’oltreatlantico, i federali erano a caccia di documenti classificati che il diretto interessato si sarebbe indebitamente portato a casa dopo la conclusione dell’incarico presidenziale. «Questa è una condotta persecutoria, la strumentalizzazione del sistema di giustizia, un attacco da parte dei dem della sinistra radicale che non vogliono che mi ricandidi nel 2024», ha tuonato Trump in una nota, paragonando l’accaduto al Watergate. Gli agenti avrebbero portato via degli scatoloni con dei documenti, mentre la Casa Bianca ha detto a Fox News di non essere stata avvisata, rimandando al Dipartimento di Giustizia «per ulteriori informazioni». Il New York Times riferiva ieri sera che il raid non sarebbe collegato all’indagine della commissione parlamentare sull’irruzione in Campidoglio. I repubblicani hanno fatto quadrato attorno a Trump. Il capogruppo dell’elefantino alla Camera, Kevin McCarthy, ha promesso l’avvio di un’inchiesta parlamentare sul Dipartimento di Giustizia, da lui accusato di politicizzazione. Di «strumentalizzazione» ha parlato il governatore della Florida Ron DeSantis. «Io servivo nella commissione Bengasi, dove provammo che Hillary Clinton aveva informazioni classificate. Non abbiamo fatto raid in casa sua», ha dichiarato l’ex segretario di Stato Mike Pompeo. Risposte chiare e tempestive sono state chieste all’amministrazione Biden dal senatore Rick Scott e dall’ex vicepresidente Mike Pence, mentre la deputata Lauren Boebert ha invocato tagli al budget del Bureau. Ora, è chiaro che bisognerà attendere le motivazioni ufficiali del raid: motivazioni ufficiali che, quando La Verità è andata in stampa, non erano ancora state rese note. Tuttavia qualche sospetto di politicizzazione effettivamente viene, non solo perché la deputata dem Pramila Jayapal ha esplicitamente detto che «Trump dovrebbe essere in prigione», ma anche perché tanta solerzia investigativa su Hunter Biden - che è sotto indagine della procura federale del Delaware dal 2018 - ancora non si è vista. In primis, va notato che nessun ex presidente americano è mai finito sotto inchiesta. Richard Nixon ottenne il perdono da Gerald Ford nel settembre 1974 sul Watergate, mentre Bill Clinton - poche ore prima di lasciare l’incarico alla Casa Bianca nel gennaio 2001 - raggiunse un accordo con l’Office of the Independent Counsel per non subire un’incriminazione legata al caso Lewinsky. Sebbene ieri Nancy Pelosi abbia sentenziato che «nessuno è al di sopra della legge», storicamente si è sempre evitato di condurre azioni penali su ex presidenti per salvaguardare le istituzioni. Il punto è che, differentemente dai casi di Nixon e Clinton, Trump ha effettuato un unico mandato ed è quindi teoricamente rieleggibile. Ricordiamo sotto questo aspetto che l’Fbi risponde al Dipartimento di Giustizia, attualmente guidato da Merrick Garland, il quale è stato nominato da Joe Biden previa ratifica senatoriale. Quello stesso Biden che fu l’avversario elettorale di Trump nel 2020 e che, in caso si ricandidassero entrambi, dovrebbe sfidarlo ancora nel 2024. Un Biden, rammentiamolo, attualmente in crisi di consensi e che, secondo alcuni sondaggi, perderebbe oggi in un nuovo duello elettorale con l’ex presidente. Tra l’altro, Garland nutre assai probabilmente sentimenti di acrimonia verso Trump, visto che, nel gennaio 2017, quest’ultimo non confermò la sua precedente nomina a giudice della Corte suprema. Senza poi dimenticare alcuni provvedimenti controversi dello stesso Garland da procuratore generale, come quando coinvolse l’Fbi per mettere nel mirino i genitori che protestavano contro l’indottrinamento liberal nelle scuole. Ma non è finita qui. La questione della presunta sottrazione di documenti classificati da parte di Trump è uscita sui media già a febbraio 2022. Se questa perquisizione era così urgente, perché attendere addirittura sei mesi prima di compierla? Sarà mica perché oggi siamo nel pieno della campagna elettorale per le Midterm di novembre? È vero che Trump non è candidato a queste elezioni. Ma è altrettanto vero che esse rappresentano un test per la sua leadership. Ulteriore stranezza risiede nel fatto che, come notato da Jonathan Turley (professore di diritto alla George Washington University), le eventuali violazioni del Presidential records act (legge del 1978 che regola la gestione dei documenti ufficiali) vengono solitamente affrontate per via amministrativa e non penale. Inoltre sarà un caso, ma l’ex avvocato della Clinton, Marc Elias, ha twittato, evidenziando la sezione 2071 del titolo 18 del codice degli Stati Uniti: sezione secondo cui chiunque «avendo la custodia di qualsiasi atto, procedimento, mappa, libro, documento, carta, o altro, intenzionalmente e illecitamente nasconde, rimuove, mutila, cancella, falsifica o distrugge gli stessi, è sanzionato o imprigionato non più di tre anni, o entrambi; e perderà il suo incarico e sarà squalificato da qualsiasi incarico negli Usa». Insomma, l’obiettivo potrebbe essere quello di interdire Trump dai pubblici uffici: in altre parole, farlo fuori per via giudiziaria. Vi ricorda qualcosa? Tuttavia, se questo fosse il progetto, non sarebbe facile da realizzare. È infatti la Costituzione americana a fissare i criteri di eleggibilità presidenziale: quindi la sezione 2071 non può applicarsi a chi si candida alla Casa Bianca. Da rilevare che questa argomentazione fu usata (con successo) contro quei conservatori che speravano di bloccare la candidatura presidenziale della Clinton nel 2016 per la questione delle email. E comunque, al di là dei problemi tecnici, la domanda da porsi è soltanto una: siamo veramente sicuri che questo raid non si tradurrà in un boomerang politico per i dem?
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
Continua a leggereRiduci
Getty Images
Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
Continua a leggereRiduci
Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
Continua a leggereRiduci