2022-06-26
Così i giudici hanno ridato palla alla politica
La sinistra denuncia la presunta deriva conservatrice. Ma la sentenza non entra nel merito: chiede che a decidere siano gli elettori tramite i loro rappresentanti. L’opposto della nostra Consulta. Il paradosso liberal: il relativismo va bene solo se comandano loro.Ognuno, che lo sappia o meno, ha le sue divinità: la destra religiosa che esulta con toni messianici per il ribaltamento della Corte sul diritto costituzionale all’aborto fa il paio con gli alti lai della sinistra liberal che lamenta la morsa bigotta di giudici decisi a «cancellare i diritti». I nove togati supremi, però, hanno scritto un pezzo di storia giuridica incredibilmente distante da entrambe le proiezioni delle due tifoserie.Nel merito, chi ritiene l’interruzione di gravidanza una necessità da tutelare ha ragione di rattristarsi, e chi ne invoca una regolamentazione restrittiva può compiacersi di avere più strumenti a disposizione. Ma la natura profonda delle 213 pagine più dirompenti della Corte nel XXI secolo è un reticolo di paradossi di grande fascino. Quella che passa, infatti, per una sentenza frutto di oscure macchinazioni «medievali» (aggettivo usato con inspiegabile accezione negativa) è in realtà un caposaldo di cultura giuridica liberale, talmente applicata da arrivare alle sue, forse inevitabili, contraddizioni. Il parere espresso dalla maggioranza delle massime toghe non parla infatti mai di Bibbia, di religione, di Dio, ma si (e ci) interroga su una questione capitale: cos’è un diritto? E come si costruisce e rinsalda il suo perimetro al di fuori dalle parole forgiate dalla Costituzione? L’annullamento della Roe v. Wade, che dal 1973 sanciva l’aborto appunto come diritto costituzionale, non avviene in nome di un giudizio negativo sulla pratica, ma «semplicemente» a partire dalla considerazione che tale attribuzione non trova fondamento nella Carta, e pertanto il legislatore non può essere vincolato sul tema: «L’autorità di regolare l’aborto è restituita al popolo e ai suoi rappresentanti eletti», si legge nel riassunto che sintetizza l’intero percorso della Dobbs v. Jackson women’s health organization (dal nome del funzionario del Mississippi e della clinica che ha impugnato la legge dello Stato). Piacerebbe forse a Carlo Calenda, visto il suo ultimo libro, il concetto di «ordered liberty» cui si richiamano i giudici per chiedersi se l’aborto possa far parte di queste «libertà ordinate» pensate dai costituenti.L’esultanza di gran parte degli esponenti repubblicani inganna dunque, se fa presupporre un pregiudizio politico della Corte: a definire l’opinion di Alito e colleghi è una concezione giuridica «originalista», ovvero tesa a confinare il ruolo del giudice supremo alla custodia del testo sorgivo, lasciando tutto il resto nelle mani del decisore. Come ha spiegato ieri in un’intervista a Tempi.it il professore di giurisprudenza di Notre Dame (Indiana) Paolo Carozza: «La sentenza non soppesa gli argomenti morali a favore o contro il diritto a ottenere un aborto, né le considerazioni politiche a sostegno di un approccio più liberale o più restrittivo». È, se vogliamo, un immenso passo indietro del giudice: l’opposto della «giurisprudenza creativa» all’italiana che, a partire dalla Corte costituzionale, si è abituata a una «leale collaborazione fra le istituzioni» che ha fatto assumere al giudice una funzione «dinamizzante» nei confronti del legislatore: basti pensare alla sentenza sul «caso Cappato», che ha orientato - non con grande successo - l’azione del Parlamento, finendo in qualche modo per sostituirsi ad esso. Ruth Bader Ginsburg, icona della cultura giuridica liberal (cui è succeduta sotto Trump la collega Amy Coney Barrett) era inequivocabilmente favorevole all’aborto. Eppure, come ricorda la sentenza, aveva più volte criticato la Roe proprio per l’effetto divisivo di un’accelerazione giuridica che avrebbe - parole sue - «interrotto un processo politico» andando «too far, and too fast», per usare l’espressione con cui un suo interlocutore sintetizzò il pensiero della celeberrima toga.Con la sentenza Dobbs la Corte si concepisce come «altro» dal potere (sarebbe complesso immaginare uno dei loro giudici diventare ministro, o presidente) proprio perché ne rispetta la separazione totale. Quasi nessuno ha colto questa capacità di contrastare l’orientamento della Casa Bianca, che non a caso ha usato parole violentissime contro i giudici, sia venerdì sia ieri. In effetti è proprio negli ambiti etici o «biopolitici» che le conseguenze della visione «originalista» diventano dirompenti. Secondo la Corte, il difetto della Roe era di elevare, senza fondamenta, una pratica ritenuta a lungo in passato un atto criminale - l’aborto - a diritto da tutelare costituzionalmente, mandando «in corto circuito il processo democratico, escludendo un gran numero di americani contrari». Una linea simile l’aveva espressa sul Financial Times il grande giurista liberal Akhil Reed Amar, commentando il famigerato leak di maggio. Anche lui, senza entrare nel merito. Antonin Scalia, somma autorità dell’originalismo, si chiedeva: «Perché mai noi giudici dovremmo essere esperti? Cosa, di ciò che ho studiato ad Harvard, dovrebbe darmi più elementi per decidere se debba esistere o meno un diritto al suicidio assistito o all’aborto, rispetto a quelli che ha un idraulico?».La rabbia del progressismo mondiale da Biden a Fratoianni è diretta verso la presunta deriva conservatrice della Corte, ma forse è più inquadrabile nella grande contraddizione liberale. I giudici dicono: l’aborto è un dilemma morale, le Corti non possono «scambiare le proprie convinzioni col giudizio del corpo legislativo». Per quanto suoni paradossale, la Dobbs è una sentenza totalmente immersa nel relativismo liberale, che assegna tutto al gioco democratico della maggioranza perché non si fonda su altro che la sua stessa prassi neutrale. In questo contesto, è più teocratico chi vuole decidere cos’è un diritto o chi lo fa decidere agli elettori?
Emmanuel Macron (Getty Images). Nel riquadro Virginie Joron
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L'evento organizzato dal quotidiano La Verità per fare il punto sulle prospettive della transizione energetica. Sul palco con il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin, il ministro dell'Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, il presidente di Regione Lombardia Attilio Fontana, il presidente di Ascopiave Nicola Cecconato, il direttore Ingegneria e realizzazione di Progetto Terna Maria Rosaria Guarniere, l'Head of Esg Stakeholders & Just Transition Enel Maria Cristina Papetti, il Group Head of Soutainability Business Integration Generali Leonardo Meoli, il Project Engineering Director Barilla Nicola Perizzolo, il Group Quality & Soutainability Director BF Spa Marzia Ravanelli, il direttore generale di Renexia Riccardo Toto e il presidente di Generalfinance, Boconi University Professor of Corporate Finance Maurizio Dallocchio.
Kim Jong-un (Getty Images)