2022-07-08
«Così ho conquistato “Life” con uno scatto»
Carlo Bavagnoli (Mondadori via Getty Images)
Parla Carlo Bavagnoli l’unico italiano assunto stabilmente dal prestigioso settimanale Usa: «Ebbi il posto grazie alla foto di papa Giovanni morto. Per 10 anni girai Europa, America e Africa. Ero amico di Fellini, Bertolucci e Pasolini. In Urss ero spiato, fotografavo di nascosto».Carlo Bavagnoli, fotoreporter di fama mondiale, l’unico italiano entrato a far parte stabilmente dello staff del mitico settimanale Life, più che a rievocare la sua memorabile carriera pensa ai danni e ai pericoli causati dai cinghiali nella sua città d’adozione, Viterbo. A novant’anni, compiuti il 5 maggio, l’occhio è sempre vigile sul presente e sulla realtà che lo circonda, ma basta chiamarlo «Carlone», come lo aveva ribattezzato Luciano Bianciardi in La vita agra, per risvegliare la sua memoria. «Le stanze affittate al numero otto (di via Solferino, a Milano, ndr), terzo piano, erano tre: la nostra - di me e di Carlone - nel mezzo, fra quella di Ugo e Mario, e quella dei pelotari, cioè Aldezabal, Gazaba detto braccio di ferro e Barranocea». Ugo e Mario erano Mulas e Dondero, altri due pezzi da novanta della fotografia, mentre i tre baschi si esibivano in accese partite di pelota nello sferisterio di via Palermo, luogo mitologico fino alla fine degli anni Ottanta.A Life Bavagnoli era entrato soprattutto grazie a una foto ispirata da Santa Veronica, non a caso matrona dei fotografi. Una doppia esposizione che per lui fu come una green card per Stati Uniti. Il suo amico Dondero, scomparso nel 2015, raccontava: «Mi ricordo il Carlone della Vita agra di Luciano Bianciardi, Carlo Bavagnoli, che ci parlava di Life e dell’America e poi a scattare per Life, per quasi dieci anni, finì davvero». Il suo destino era tracciato fin dall’inizio, come aveva capito anche Bianciardi, il quale nel suo romanzo più celebre lo inquadrava così, dopo averlo descritto «massiccio e falsamente alto»: «Adesso lo vedevo, rincasando, steso sul letto, a sfogliare vecchi numeri di Life». Questa è la sua storia, la storia del Carlone.Lei è nato a Piacenza e poi si è trasferito a Milano. Per studiare?«Sono andato a Milano per frequentare la facoltà di giurisprudenza, poi l’ho interrotta e ho cominciato a frequentare il bar Jamaica, nel quartiere di Brera».Dove si riuniva il mondo artistico e letterario dell’epoca...«Lì ho conosciuto Mario Dondero e Ugo Mulas, con i quali sono andato a vivere in un appartamento a via Solferino 8. C’era anche Luciano Bianciardi».Perché eravate andati a vivere insieme?«Non avevamo soldi e abbiamo trovato queste due stanze. Io dividevo la camera con Bianciardi. Era un comunista d’élite e lavorava da Feltrinelli a Milano. Un tipo difficile. Aveva lasciato la moglie, che ogni tanto veniva a trovarlo con il bambino. Una situazione penosa. Ogni weekend veniva da Roma la sua compagna. Stavano a letto assieme nella nostra camera e io dormivo nell’altro letto facendo finta di non vedere!».Vi rendevate conto che era un grande scrittore oppure non dava questa impressione?«No, non dava questa impressione e mi ha stupito il suo grande successo editoriale».Dondero e Mulas erano più tranquilli?«Sì. Lavoravano in coppia».Com’è nata la sua passione per la fotografia?«Dalla voglia di vedere il mondo. In quel periodo, nel 1955, con la scusa di fare fotografie, seguivo le prove alla Scala della Traviata di Luchino Visconti e lì ho conosciuto un fotografo americano molto famoso, David Douglas Duncan, il quale veniva dalla guerra in Corea. Aveva pubblicato uno straordinario libro sulla guerra che si chiamava This is War!, e Life, per dargli un lavoro più tranquillo, lo aveva mandato alla Scala. È stato il mio primo contatto con il settimanale e io e David siamo rimasti amici per molto tempo».In quel periodo era freelance?«Sì. Le foto alla Scala le avevo scattate per Settimo Giorno. Ho collaborato anche con Cinema Nuovo, la rivista di Guido Aristarco, per la quale ho fatto un reportage su una ballerina dell’avanspettacolo, Ambra».Quali erano i suoi soggetti preferiti in quel periodo?«Qualunque cosa».Nel 1955 andò a lavorare a Epoca».«Nella redazione romana. Il direttore era Enzo Biagi. Mi occupavo di tutto. Ho seguito un vertice della pace a Ginevra, poi sono andato in Russia al seguito del presidente della Repubblica Giovanni Gronchi».Poteva scattare foto liberamente o era controllato dal governo?«Avevo una guida, uno studente italiano che studiava a Mosca, chiaramente formato dal partito comunista, che lo manteneva a Mosca a studiare».La controllava o l’aiutava?«Mi proteggeva. Se mi avessero visto fotografare, mi avrebbero fermato».Ha fatto le foto di nascosto!«Sì».Cosa fotografava?«La città. A Leningrado ho fotografato il museo Ermitage, stupendo».Non le fabbriche, i lavoratori?«No, no. Furono pubblicati due inserti a colori, uno su Mosca, uno su Leningrado, che ebbero grande successo perché non si vedevano foto della Russia all’epoca».Fece anche un famoso servizio su Trastevere.«Sembrava un borgo antico, era il cuore di Roma a quei tempi. Andavo a Trastevere il sabato, la domenica, quando potevo. Le prime foto di Trastevere furono pubblicate su Life nel 1958, poi ho pubblicato anche un libro, Gente di Trastevere. Per L’Espresso ho fatto anche un reportage sul paese più povero d’Italia, Loculi, in Sardegna, intitolato “L’Africa in casa”. Una casa editrice di Nuoro ne ha ricavato un libro con lo stesso titolo».A quel punto la chiamarono a lavorare con Life?«Iniziai a collaborare e poi mi chiamarono definitivamente nel ’63. La foto della morte di Giovanni XXIII mi fece guadagnare il posto a Life. Era una specie di doppia esposizione: avvicinai il corpo del pontefice a quello della Veronica, una scultura di Francesco Mochi posta, in una nicchia in alto, all’interno della basilica di San Pietro. Ebbi questa trovata e funzionò molto bene».Quindi nel ’63 si è trasferito in America?«Sì, a New York».Lì cosa ha fatto?«Ho fatto diversi lavori per Life. Il più importante è stato un reportage sulla Route 66, da Chicago a Los Angeles, in macchina con un reporter. Mi sono occupato molto delle elezioni americane del ’64, in cui ho seguito il candidato repubblicano Barry Goldwater (sconfitto da Lyndon B. Johnson, ndr). L’anno prima avevano ammazzato John Kennedy».Poi l’hanno mandata a Parigi...«Non volevo stare in America, allora mi hanno mandato nell’ufficio di Parigi, per l’Europa, ma ci sono stato poco perché in quel periodo, tra il ’66 e il ’68, ho fatto molti reportage in Africa, per il World wildlife fund, sugli animali in via d’estinzione».Quando ha deciso di tornare a vivere in Italia? «Nel 1972, quando Life chiuse come settimanale. Ho cominciato a fare il pendolare, a lavorare in Italia per la televisione e a pubblicare libri. Ne ricordo qualcuno: Immagini anni ’60, Armonie. I segni della musica, L’archivio. Fotografie, libri... Ho donato tutto il mio archivio alla fondazione Cariparma, che lo conserva con molta cura». Cosa faceva in televisione?«Ho lavorato molto con la terza rete di Angelo Guglielmi, ho fatto diversi documentari. Nel programma La fotografia racconta ho filmato foto dell’Ottocento, a cui ho dato un po’ di movimento, e ho raccontato episodi significativi».Era un grande appassionato d’arte e ha fatto magnifici ritratti a pittori e scultori...«Sì. Frequentavo Alberto Burri, Afro, Achille Perilli e molti altri, così com’ero amico di Federico Fellini dai tempi della Dolce vita. Ho conosciuto Pier Paolo Pasolini ed ero molto amico della persona che lo ha lanciato, il poeta Attilio Bertolucci, che ho frequentato sia nella sua città natale, Parma, sia a Roma. Bertolucci fece pubblicare da Garzanti Ragazzi di vita, il primo romanzo di Pasolini, il quale gli era molto grato e per riconoscenza aiutò molto agli inizi il figlio del poeta, Bernardo».Attilio Bertolucci ha scritto la prefazione del suo libro fotografico Cara Parma, edito dall’industriale Pietro Barilla.«Ha scritto il testo per la seconda edizione. È il primo libro fotografico su una città. Andavo spesso a Parma, anche a casa di Attilio. Era una città molto viva culturalmente, diversa dalla mia Piacenza».Oltre a Bertolucci, con quali scrittori ha legato particolarmente? «A Roma andavo sempre a mangiare da Cesaretto, a via della Croce. C’era Mino Maccari, simpatico, molto ironico. Una volta arrivò un’attrice del teatro intelligente e, siccome non c’era posto perché i tavoli erano occupati - si mangiava tutti assieme -, lui le disse: “Mangia di meno e leggi di più!”. Ho continuato a stare a Roma, poi nel 2000, dopo un infarto, per ragioni di salute sono andato a vivere a Viterbo: la piscina termale è stata miracolosa per me». Cosa ha rappresentato per lei la fotografia? «Trovare un lavoro e vedere il mondo».