2023-09-04
Cose dell’altro mondo. Come cambiano gli Usa
Joe Biden e Donald Trump (Ansa)
L’aiuto all’Ucraina drena miliardi e condizionerà il voto del 2024. Ma i fronti aperti sono tanti, dall’Asia all’Africa. E all’interno c’è il fattore Donald.L’esperto Giuseppe Manna: «Gli americani non si ritireranno del tutto. In Iraq c’è un paradossale condominio con l’Iran».Lo speciale contiene due articoli.Le 60esime elezioni presidenziali negli Stati Uniti si terranno martedì 5 novembre 2024. Se non ci saranno novità o scossoni interni sul fronte dei Democratici, il candidato alla presidenza sarà l’attuale inquilino della Casa Bianca Joseph Biden, classe 1942, che l’anno prossimo compirà 81 anni portati non benissimo come mostrano i molti video pubblicati specie nell’ultimo anno, nei quali talvolta pare smarrito e non sempre lucido. Chi sarà il suo vice? La logica direbbe l’attuale vicepresidente Kamala Harris, tuttavia non è scontato visto che con Joe Biden e la sinistra Dem i rapporti si sono fatti sempre più freddi. Sul fronte repubblicano il nome che scalda l’elettorato è sempre lo stesso: Donald Trump.In ciascuna delle quattro incriminazioni dell’ex presidente Trump, gli è stato permesso di rimanere fuori di prigione prima del processo a condizione che si attenga a determinate condizioni comunemente applicate alla maggior parte delle persone accusate di crimini negli Stati Uniti. Nel caso dello stato di New York riguardante la presunta falsificazione di documenti aziendali, a Trump è stato ordinato «di non comunicare i fatti del caso con qualsiasi individuo noto come testimone, tranne che con un avvocato o in presenza di un avvocato», mentre nel caso federale in Florida, riguardo alla gestione di documenti riservati, gli è stato imposto un ordine molto simile. Per quanto riguarda il caso federale di Washington è soggetto a un ordine protettivo con lo stesso tipo di restrizioni, che gli impediscono di parlare con le persone coinvolte nel caso se non attraverso o con i suoi avvocati. Nel caso del presunto tentativo di ribaltare i risultati delle elezioni presidenziali del 2020 in Georgia, l’accordo con pagamento della cauzione impone limiti come quelli imposti dagli altri giudici e afferma inoltre che Trump non può intimidire o minacciare chiunque sia coinvolto nel caso, anche pubblicando post su mezzi di comunicazione sociale.Hunter Biden, secondogenito di Joe Biden e della sua prima moglie Neila Hunter, è una vera spina nel fianco del presidente americano a causa dei moltissimi problemi avuti con le droghe e l’alcool ammessi in un libro del 2021 nel quale si legge: «C’è dipendenza in ogni famiglia. Ero in quell’oscurità. Ero in quel tunnel, è un tunnel senza fine. Non te ne sbarazzi. Capisci come affrontarlo». Oltre a questo genere di problemi Hunter Biden, di professione avvocato e lobbista, ha lavorato per potenze straniere, come in alcune società cinesi e nel gruppo energetico ucraino Burisma (qui era nel cda). Nel giugno scorso, era stato annunciato che Hunter Biden si sarebbe dichiarato colpevole di due violazioni finanziarie per non aver pagato le imposte federali sul reddito nel 2017 e nel 2018. Tasse che poi ha poi regolato pagando anche gli interessi, e da qui l’archiviazione dell’agosto scorso. Lo scorso 30 agosto gli investigatori della Camera hanno reso noto che stanno cercando di capire la relazione del presidente Biden con gli affari esteri di suo figlio, e ora arriva una nuova rivelazione: email da account privati che Joe Biden manteneva mentre era vicepresidente utilizzando uno pseudonimo. Come riferisce il Wall Street Journal i senatori repubblicani Chuck Grassley e Ron Johnson hanno chiesto per la prima volta l’accesso alle email con lo pseudonimo di Joe Biden a metà del 2021. Il sospetto è che le email clandestine corrispondano ad uno schema che gli investigatori del Partito repubblicano stanno mettendo insieme riguardo a un tentativo fatto dietro le quinte da Hunter per «vendere il potere di suo padre», con il quale ha viaggiato in almeno 15 Paesi stranieri durante viaggi ufficiali. Se cosi fosse per Biden la messa in stato d’accusa sarebbe certa.Oltre all’incessante battaglia politica interna con i repubblicani, e qui aleggiano come detto le vicende giudiziarie di Donald Trump, l’attuale presidente si trova a dover gestire una serie infinita di problemi, uno su tutti la guerra in Ucraina che si sta sempre di più avvitando in una guerra infinita. Stando ai dati pubblicati dal Kiel Institute for the World economy-Ifw, finora l’Ucraina ha ricevuto armi per un valore complessivo di 65,34 miliardi di euro e la grandissima parte, 44,34 miliardi, corrispondenti al 67,9% del totale, è stata inviata dagli Stati Uniti. Se in altre tipologie di aiuto, per esempio quello finanziario, prevalgono gli europei, nell’ambito dell’assistenza militare il governo americano è il numero uno. Ma Joe Biden può arrivare (ammesso che sarà davvero lui il candidato) nel 2024 con una guerra infinita che costa miliardi di dollari ai contribuenti americani? La risposta è no, così come sarà semplicissimo per i suoi avversari dire che con loro alla Casa Bianca tutto cambierà, anche se poi le amministrazioni Usa agiscono in continuità su molti temi. Evidente come Joe Biden fino ad oggi non abbia esercitato fino in fondo la sua leadership globale. La realtà è che Vladimir Putin sa benissimo che questa guerra da lui scatenata può finire solo se le due grandi potenze Usa e Russia si mettono al tavolo e trovano la soluzione. Uno come Bill Clinton quasi certamente avrebbe preso l’aereo per Mosca diversi mesi fa e lo stesso avrebbero fatto altri due presidenti del passato come Ronald Reagan e George Bush senior. La mancanza di carisma e di energia di Joe Biden ha creato molti problemi anche nel Medio Oriente dove per un periodo è stata demonizzata l’Arabia Saudita, salvo poi fare retromarcia dopo che Mohammad Bin Salman ha iniziato a flirtare con Russia e Cina: il vero nemico degli Stati Uniti, e non solo. Stesso errore è stato commesso con Israele, che ad un certo punto, grazie alle spinte delle ali estreme dei Dem, sembrava essere diventato un nemico. Allo stesso tempo l’amministrazione Biden ha a lungo inseguito gli ayatollah di Teheran in merito all’accordo sul nucleare senza rendersi conto che gli iraniani non intendono in alcun modo smettere di arricchire il loro uranio a scopi bellici. Molti problemi gli Usa li hanno in Africa, nel Sahel e in Libia, dove si sono fatti quasi invisibili (ma qui anche Donal Trump ci ha messo del suo), una circostanza che agevolato i piani di Mosca. Non va certo meglio in Iraq dove alla chetichella i soldati Usa stanno ritornando, mentre il più grande disastro commesso da Joe Biden in politica estera resta quello del ritiro dall’Afghanistan. A due anni dalla fuga da Kabul il Paese è tornato nelle mani dei Talebani ed è di nuovo un vero Narco-Terror-State. L’elenco degli errori di Joe Biden in politica estera potrebbe continuare all’infinito e l’unica soluzione è che il suo partito trovi una soluzione diversa rispetto ad un uomo che ormai ha fatto il suo tempo.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/cose-altro-mondo-cambiano-usa-2664837906.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="sul-medio-oriente-le-idee-sono-confuse" data-post-id="2664837906" data-published-at="1693757721" data-use-pagination="False"> «Sul Medio Oriente le idee sono confuse» Giuseppe Manna è un analista geopolitico, esperto di Medio Oriente e Nord Africa. Cosa sta accadendo in Africa dove i colpi di Stato si susseguono, ultimo il Gabon? «L’Africa centrale e occidentale è scossa da turbolenze politiche sfociate nel rovesciamento di molti governi, sostituiti da giunte militari che si presentano come alternativa al caos e all’insicurezza. Fatta eccezione per il Sudan, i colpi di Stato degli ultimi anni interessano antiche colonie francesi, dove la longa manus di Parigi non è mai venuta meno. Da più parti sembra prevalere una narrazione romantica, che vede gli africani impegnati in una nuova decolonizzazione. In realtà, l’esplosivo che sta facendo deflagrare il Sahel e il Golfo di Guinea è la povertà estrema di milioni di persone, stanche di regimi corrotti e inefficaci. Non a caso, i militari non sono appoggiati dalla popolazione, ma godono solo di temporanee linee di credito, in attesa di miglioramenti, che i golpisti difficilmente potranno garantire». Da più parti si ritiene che la politica estera americana di questi ultimi anni abbia creato le condizioni affinché la Russia occupasse nuovi spazi. «I militari ribelli in Niger e Gabon stanno presentando le loro azioni come necessarie per stroncare le politiche neocoloniali francesi. È quindi naturale che, sul piano internazionale, ci si rivolga alla potenza attualmente più lontana da Parigi e dall’Occidente. In Africa, il candidato ideale non può che essere la Russia, forte di una presenza risalente al periodo sovietico. Al risentimento nei confronti degli europei, si aggiunge il sostanziale disinteresse degli Stati Uniti per il continente. Al di là del presidio di alcuni punti nevralgici per la tutela della sua primazia sugli oceani, soprattutto nell’area del Mar Rosso, Washington appare disinteressata al continente. Questo crea un vuoto geopolitico, che la Russia ambisce a colmare. Il problema è che Mosca non ha le risorse per farlo con l’intensità desiderata, lasciando campo libero alla Cina». E la Libia? «Nel 2011 la Francia intravide nelle rivolte contro Gheddafi la possibilità di scalzare l’Italia nell’influenza sulla Libia e sulle sue risorse energetiche. Gli americani non si opposero in ragione di vecchi conti in sospeso con il rais, contribuendo a far precipitare il Paese nella guerra civile. Washington ha percepito la portata di quella scelta sbagliata solo quando i russi, con l’appoggio al generale Haftar, sono stati vicini a estendere la loro egemonia sull’intera Libia. Solo l’intervento di Ankara, nella primavera del 2019, ha impedito che il signore della guerra della Cirenaica prendesse Tripoli. Da allora, gli americani, non potendo contare sull’Italia, si accontentano che l’infido alleato turco persegua i suoi obiettivi in Libia, tenendo così a bada i russi». In Iraq piano piano stano ritornando i soldati americani, segno che l’Isis è tutt’altro che sconfitto. Gli Usa che progetto hanno per quell’area? «Gli Stati Uniti hanno idee confuse sul Medio Oriente. Persa in parte la sua rilevanza energetica, l’area resta centrale come cerniera tra Europa, Africa ed Estremo Oriente. Per questo il disimpegno di Washington è parziale e non sarà preludio all’abbandono di tale quadrante. Anche perché il rischio è che sia la Cina a diventarne il nuovo arbitro. In questa confusione, possono determinarsi situazioni paradossali. E l’Iraq ne è un esempio. Nel Paese, si è consolidato un condominio tra americani e iraniani, entrambi interessati a evitare che i tagliagole dell’Isis e altri gruppi jihadisti travolgano le fragili e corrotte istituzioni. Washington e Teheran modulano la loro presenza a seconda delle esigenze del momento. Il ritorno dei soldati americani è indice che la miseria, carburante principale di qualsiasi organizzazione terroristica, ancora morde quelle terre in teoria ricchissime». E in Afghanistan che cosa vogliono fare gli Usa? «Il sospetto è che l’Afghanistan tornato a essere rifugio per narcotrafficanti e jihadisti non sia considerato un male da Washington. Potrebbe infatti prevalere l’inclinazione a fare di Kabul una succulenta polpetta avvelenata per i cinesi. Dopo la partenza degli occidentali, Pechino aveva fornito le più ampie rassicurazioni di non ingerenza nelle scelte del regime talebano, prospettando una solida partnership economica. L’idea era di sfruttare i 76 km di confine condiviso e il corridoio del Wakhan per lo sviluppo di strade e ferrovie dirette verso i porti iraniani e pakistani sull’Oceano Indiano. L’Afghanistan si è rivelato invece una spina costantemente conficcata nel fianco occidentale della Cina, che ora teme l’influenza talebana sulle popolazioni musulmane dello Xinjiang. Mentre Teheran e Islamabad tremano per la stabilità delle loro province a ridosso della frontiera».