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2024-12-09
1, 10, 100 Corvetto. Le altre periferie pronte ad esplodere
Ci sono periferie che sembrano dormienti ma che trattengono una tensione destinata a deflagrare. Polveriere urbane pronte a saltare in aria con un innesco ad alto contenuto di povertà, emarginazione, degrado e mancata integrazione. Ogni grande centro urbano ha i suoi quartieri che vivono una quotidianità sospesa, dove la vita è un susseguirsi di conflitti a tratti soffocati dalla rassegnazione e a tratti pronti a esplodere.
Come a Corvetto. Dove la miccia ha preso fuoco facilmente. A Milano, per esempio, di quartieri polveriera se ne contano almeno tre: San Siro, dove il tempo sembra essersi cristallizzato in un labirinto di case popolari gestite dall’Aler, molte delle quali sono occupate illegalmente o abbandonate. Le strade risuonano di dialetti del Maghreb e del Corno d’Africa. I baby rapinatori, immigrati di seconda generazione che attendono di diventare italiani al diciottesimo anno, terrorizzano soprattutto anziani e coetanei. I pusher presidiano piazze e incroci. Come in via Padova, che ormai è un mosaico multicolore, un microcosmo dove coabitano tradizioni romene, cinesi e maghrebine. La povertà morde senza distinzione di passaporto. Piccole associazioni, spesso con più o meno nascoste velleità politiche, tentano di ricucire un tessuto sociale che si sfalda, ma la tensione rimane palpabile. E poi c’è Quarto Oggiaro con il suo richiamo della strada, soprattutto per i più giovani. È l’ex quartiere ghetto. Un tempo era il supermercato della droga. Ora non è più neppure quello. I milanesi sconsigliano di attraversarlo da soli nelle ore notturne.
A Torino la musica non cambia. A Barriera di Milano il vento porta con sé l’odore ferroso delle fabbriche dismesse. Questo quartiere storico, un tempo cuore pulsante della Torino operaia, è oggi una periferia senza identità. Sulle strade si trovano solo botteghe africane e negozi asiatici. Ma l’altra faccia della medaglia racconta di disoccupazione e di microcriminalità. Le risse tra stranieri sono all’ordine del giorno. E anche le coltellate. E poi c’è quartiere Aurora, che si affaccia sul lungo Dora, un crogiolo di storie migratorie. Tra i palazzi di fine Ottocento e le case popolari il traffico di droga e le difficoltà di integrazione tessono una tela complessa. Qui gli stranieri sono il 36,4 per cento. Le iniziative di riqualificazione urbana, come il progetto Porta Palazzo, cercano di ridare dignità agli spazi, ma i contrasti tra i residenti storici e le nuove comunità restano evidenti. Ma la contraddizione per eccellenza è San Salvario, un quartiere che di giorno celebra la sua anima multiculturale con mercati vivaci e locali etnici, ma di notte si trasforma in un luogo di tensioni. La convivenza tra studenti universitari, famiglie storiche e migranti è molto complicata.
I cambiamenti più evidenti, però, si percepiscono a Brescia. Il quartiere Carmine, per esempio, con le sue antiche vie che un tempo erano dimore di nobili e artigiani ora ospitano comunità multietniche che convivono difficilmente. È in provincia di Bergamo, però, una cittadina che è molto cambiata: Zingonia, nata come modello negli anni Sessanta, è oggi sinonimo di degrado e marginalità. Le torri di cemento, un tempo simbolo di progresso, dominano il paesaggio con il loro silenzio spettrale. La convivenza tra residenti italiani e migranti (il 50,1 per cento della popolazione totale) è molto complicata. La stampa locale ha già lanciato l’allarme: «Basta una scintilla». Anche Bergamo ha il suo ghetto: quartiere Boccaleone, lo chiamano «il buco nero» cittadino. Qui si trovano ancora cumuli di siringhe per strada e la roba viene spacciata perfino nell’edicola dei giornali. Ai controlli delle forze dell’ordine spesso saltano fuori armi e droghe sintetiche. È anche un rifugio che nasconde le auto rubate.
Uno scenario surreale accoglie i visitatori a Sampierdarena di Genova. Il passato operaio è inciso sui muri di abitazioni e baracche abbandonate, ora rifugio per chi è in cerca di un tetto. L’equilibrio tra comunità immigrata, proveniente da Sud America, Africa e Asia, e residenti storici è precario. Ma un universo a sé stante è Arcella di Padova. È qui che la città diventa globale, tra botteghe africane e bazar pakistani. Gli stranieri superano il 32 per cento dei residenti e la statistica esclude gli irregolari. Le risse non si contano e c’è chi se ne va in giro col machete. A Verona, invece, c’è un quartiere di frontiera: Borgo Roma. Né troppo italiano né troppo straniero. Il vialone con pizzerie e macellerie etniche viene attraversato da ragazze in minigonna o col chador. Il quotidiano L’Arena un po’ di tempo fa lo ha descritto così: «È la terra delle baby gang e degli studenti universitari, dei senzatetto che dormono al parco e dei professori che al parco lasciano l’auto per andare a lavorare al Policlinico». E ovviamente non mancano le tensioni sociali. Più a Est le cose non cambiano. Marghera, simbolo di un’Italia industriale in declino, è ricettacolo di occupanti abusivi: senzatetto, immigrati e tossicodipendenti espulsi dall’ex Cral Montedison. Stranieri di varie etnie spesso si contendono le strade a colpi di mazze o bottiglie rotte. Non è tanto diversa la Bolognina a Bologna, ex quartiere operaio oggi mix di africani e stranieri dell’Est Europa, dove la microcriminalità dilaga e gli scontri tra etnie non mancano.
A Firenze le aree periferiche che incarnano tensioni che riflettono le disuguaglianze urbane sono le Piagge e via Pistoiese. La prima è segnata da degrado e criminalità. Gli alloggi a basso costo hanno attirato molti stranieri. La seconda, invece, evidenzia situazioni di disagio estremo: sotto il Ponte all’Indiano, accampamenti di fortuna ospitano persone in condizioni di grave precarietà, aggravate da una risposta istituzionale insufficiente. A Pisa è attorno alla stazione che si percepisce un’aria di sospensione. La zona, cuore pulsante di arrivi e partenze, è intrappolata in un limbo di degrado urbano. Parchi trasformati in dormitori improvvisati, angoli delle strade che raccontano storie di marginalità e sopravvivenza, tra microcriminalità e spaccio. E anche Prato, un tempo simbolo del tessile italiano, oggi racconta una storia diversa. Le strade del centro storico e le periferie industriali parlano cinese. Dietro le saracinesche delle fabbriche si nascondono spesso orari di lavoro disumani, sfruttamento e clandestinità. Il disagio non si ferma al lavoro: le tensioni trovano sfogo nei mercati, nelle scuole e negli spazi pubblici, segnando una convivenza particolarmente difficile.
Il Centro Italia non è immune. Le Corvetto della Capitale sono almeno tre. A San Lorenzo, ex quartiere operaio che oggi è il centro nevralgico della vita universitaria romana, ha un lato oscuro. Di notte le piazze diventano luoghi di spaccio e risse tra immigrati. Mentre la stazione Termini è un microcosmo caotico e conflittuale. È qui che il disagio sociale incontra il turismo di massa. I migranti, spesso senza un luogo dove andare, condividono gli spazi con i viaggiatori. La criminalità è una realtà tangibile, ma i tentativi di riqualificazione, seppur visibili, sembrano sempre un passo indietro rispetto alle necessità. Al Pigneto, tra murales e locali alla moda, basta allontanarsi dai percorsi più battuti per incontrare povertà, spaccio e tensioni sociali. La vita notturna nasconde un cuore ferito, dove i residenti storici lottano per preservare l’identità del quartiere in un contesto di trasformazione urbana tumultuosa.
A Napoli il simbolo di una battaglia che non si è mai conclusa è Scampia. I giganteschi palazzi che svettano contro il cielo sembrano prigioni di cemento. Qui la criminalità organizzata ha dettato legge per anni, ma la vera guerra è quella della sopravvivenza quotidiana. Molti migranti si ritrovano catapultati in questo contesto senza alcuna rete di supporto. Lo Zen (Zona espansione nord) è il simbolo del sogno urbanistico infranto di Palermo. Progettato per essere una città nella città, si è trasformato in un labirinto di cemento segnato da degrado e disoccupazione. Qui, la convivenza tra italiani e migranti è fragile, appesantita dalla povertà e dalla criminalità diffusa. Strade polverose, edifici sventrati e piazze abbandonate raccontano una storia di abbandono istituzionale. E a Catania è il San Berillo il quartiere intriso di contraddizioni. Ex polo commerciale della città, negli anni ha subito un lento declino, diventando un rifugio per emarginati e migranti. I vicoli stretti e i palazzi fatiscenti nascondono un’umanità variegata: sex worker, artisti, e comunità di stranieri si intrecciano in un tessuto sociale complesso. Segno che ogni grande città ha la sua Corvetto. O più di una.
«Nei contesti sociali con più disagio le baby gang sono in netto aumento»

Sergio Caruso
«In contesti urbani segnati da difficoltà socioeconomiche negli ultimi decenni si è registrato un aumento significativo del fenomeno delle baby gang, espressione più preoccupante della criminalità giovanile», afferma Sergio Caruso, formatore delle forze di polizia, docente di master universitari e criminologo, confermando alla Verità che proprio nei contesti urbani più degradati, come le periferie delle grandi città, il rischio Corvetto è dietro l’angolo. Con una rete di giovani, soprattutto immigrati di seconda generazione, pronti a creare il caos confluendo anche da altri quartieri.
Come si presentano queste bande giovanili?
«Sono gruppi composti principalmente da adolescenti e giovani adulti che si rendono responsabili di atti di violenza, furti e intimidazioni, mirando principalmente ai loro coetanei, ma anche a figure adulte o alle stesse istituzioni. Si tratta di un processo di radicalizzazione sociale, dove l’appartenenza al gruppo diventa una via di affermazione personale, una risposta alla solitudine e una forma di riscatto sociale».
E perché si concentrano in alcuni agglomerati urbani?
«Nelle periferie delle grandi città la disoccupazione giovanile, il degrado urbano e la mancanza di opportunità educative e lavorative creano un terreno fertile per la loro proliferazione. In queste aree, spesso abbandonate dalle politiche sociali e carenti di risorse, le gang trovano rifugio in spazi pubblici inaccessibili o degradati, che diventano teatri di aggregazione e di attività illecite».
Ma cosa spinge questi ragazzi ad aggregarsi con la finalità di controllare un territorio o di commettere dei reati?
«L’appartenenza a un gruppo è un modo per guadagnare visibilità e rispetto, soprattutto in contesti scolastici o sociali informali, dove il riconoscimento da parte dei pari è fondamentale. E di solito si stringono attorno a un leader, che è il membro centrale, spesso il più carismatico e temuto, che prende le decisioni cruciali e guida le azioni del gruppo. È un’organizzazione gerarchica, con vice capi, soldati e aspiranti. E a proposito della “rete” alla quale si faceva riferimento prima, in alcune gang è presente anche la figura del traghettatore, che mantiene i legami con altre bande o addirittura con la criminalità organizzata».
Di che numeri si parla?
«In particolare, le gang giovanili tendono a essere composte da meno di dieci membri, con una predominanza di giovani maschi tra i 15 e i 24 anni. Gli atti di violenza, come le rapine, sono aumentati del 7,69 per cento nell’ultimo anno. C’è da dire, però, che secondo i dati più recenti, nel 2023 si è registrata una diminuzione delle segnalazioni di minori denunciati per atti di criminalità comune, con un calo del 4,15 per cento rispetto all’anno precedente. Tuttavia, nel panorama della criminalità giovanile, oltre agli atti di bullismo, la fanno da padrone le estorsioni e soprattutto le risse».
Risse che spesso, come ci restituisce la cronaca, avvengono tra etnie diverse oppure solo per dimostrare la forza di un gruppo. E ad alimentare questo fenomeno c’è la musica.
«Un aspetto interessante è proprio la stretta connessione con la musica trap, un genere che ha acquisito un’enorme popolarità tra i giovani e in particolare proprio in quelli che vivono nelle periferie urbane. La trap, con i suoi testi che celebrano la violenza, la ribellione e uno stile di vita consumato da illegalità, è spesso vista come una sorta di “colonna sonora” delle baby gang. Molti membri di questi gruppi si identificano con le storie raccontate nei brani trap, dove la vita di strada, i conflitti e il superamento delle difficoltà tramite il crimine vengono glorificati. Uno studio condotto nel 2020 ha evidenziato come la musica trap possa agire come un fattore di normalizzazione di comportamenti violenti tra i giovani. La ricerca ha mostrato che il 40 per cento dei ragazzi intervistati riteneva che le tematiche trattate nei testi trap fossero una riflessione autentica della realtà di strada, mentre il 30 per cento di essi si sentiva ispirato dalla figura del “gangster” celebrata nelle canzoni. La musica, quindi, può alimentare la percezione che il crimine e la violenza siano inevitabili o persino necessari per guadagnarsi rispetto e riconoscimento, un concetto che si riflette nelle dinamiche delle baby gang».
Il tutto poi viene riversato nella vita di tutti i giorni e in strada.
«Il linguaggio esplicito e l’uso frequente di simboli legati alla criminalità nei video musicali contribuiscono a rafforzare proprio l’immagine di una vita di strada come alternativa desiderabile alla vita ordinaria. La continua esposizione a questo tipo di contenuti può accrescere la probabilità che alcuni giovani vedano nelle baby gang un’opportunità per realizzare un’idea di “successo” che si allinea con quella rappresentata nei brani trap. È importante notare che, pur non essendo la musica trap la causa diretta delle gang, essa funge da catalizzatore, amplificando modelli comportamentali già presenti nei contesti di marginalità e povertà».
Dove basta una scintilla a produrre le scene da guerriglia che abbiamo visto a Milano. Ma è possibile prevenire?
«La prevenzione di questo fenomeno è estremamente complessa per vari motivi. In primo luogo la frattura sociale tra le aree periferiche e il resto della città crea una sorta di disconnessione tra le istituzioni e i giovani a rischio. Le politiche di intervento non affrontano le cause profonde della disaffezione sociale, come la mancanza di opportunità educative, di spazi di aggregazione e di sostegno psicologico. In molte aree, l’assenza di strutture come centri sportivi, attività culturali o luoghi di socializzazione sicuri contribuisce ad alimentare la frustrazione e la ricerca di risposte alternative nel crimine. Inoltre, la scarsa attenzione ai bisogni emotivi e psicologici dei giovani, che vivono situazioni di povertà o disagi familiari, rende difficile interrompere i percorsi di radicalizzazione e prevenire l’ingresso dei giovani nelle baby gang».
Siamo spacciati, insomma?
«Per contrastare efficacemente il fenomeno è necessario un approccio integrato che vada oltre le politiche punitive, investendo in programmi di inclusione sociale, di educazione, di sostegno psicologico e di creazione di opportunità per i giovani nelle aree più vulnerabili. Solo attraverso un intervento strutturato e preventivo sarà possibile ridurre la diffusione di questi gruppi e restituire ai giovani un’alternativa valida al crimine e alla violenza».
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Non solo Milano: in ogni grande città ci sono sacche urbane fatte di degrado e criminalità. Dove a comandare sono gli immigrati di seconda generazione.Il formatore delle forze di polizia, Sergio Caruso: «Le bande giovanili hanno un’organizzazione gerarchica, con capi e soldati. La disoccupazione crea terreno fertile per la loro proliferazione. E la musica trap ha un ruolo di primo piano».Lo speciale contiene due articoli.Ci sono periferie che sembrano dormienti ma che trattengono una tensione destinata a deflagrare. Polveriere urbane pronte a saltare in aria con un innesco ad alto contenuto di povertà, emarginazione, degrado e mancata integrazione. Ogni grande centro urbano ha i suoi quartieri che vivono una quotidianità sospesa, dove la vita è un susseguirsi di conflitti a tratti soffocati dalla rassegnazione e a tratti pronti a esplodere. Come a Corvetto. Dove la miccia ha preso fuoco facilmente. A Milano, per esempio, di quartieri polveriera se ne contano almeno tre: San Siro, dove il tempo sembra essersi cristallizzato in un labirinto di case popolari gestite dall’Aler, molte delle quali sono occupate illegalmente o abbandonate. Le strade risuonano di dialetti del Maghreb e del Corno d’Africa. I baby rapinatori, immigrati di seconda generazione che attendono di diventare italiani al diciottesimo anno, terrorizzano soprattutto anziani e coetanei. I pusher presidiano piazze e incroci. Come in via Padova, che ormai è un mosaico multicolore, un microcosmo dove coabitano tradizioni romene, cinesi e maghrebine. La povertà morde senza distinzione di passaporto. Piccole associazioni, spesso con più o meno nascoste velleità politiche, tentano di ricucire un tessuto sociale che si sfalda, ma la tensione rimane palpabile. E poi c’è Quarto Oggiaro con il suo richiamo della strada, soprattutto per i più giovani. È l’ex quartiere ghetto. Un tempo era il supermercato della droga. Ora non è più neppure quello. I milanesi sconsigliano di attraversarlo da soli nelle ore notturne. A Torino la musica non cambia. A Barriera di Milano il vento porta con sé l’odore ferroso delle fabbriche dismesse. Questo quartiere storico, un tempo cuore pulsante della Torino operaia, è oggi una periferia senza identità. Sulle strade si trovano solo botteghe africane e negozi asiatici. Ma l’altra faccia della medaglia racconta di disoccupazione e di microcriminalità. Le risse tra stranieri sono all’ordine del giorno. E anche le coltellate. E poi c’è quartiere Aurora, che si affaccia sul lungo Dora, un crogiolo di storie migratorie. Tra i palazzi di fine Ottocento e le case popolari il traffico di droga e le difficoltà di integrazione tessono una tela complessa. Qui gli stranieri sono il 36,4 per cento. Le iniziative di riqualificazione urbana, come il progetto Porta Palazzo, cercano di ridare dignità agli spazi, ma i contrasti tra i residenti storici e le nuove comunità restano evidenti. Ma la contraddizione per eccellenza è San Salvario, un quartiere che di giorno celebra la sua anima multiculturale con mercati vivaci e locali etnici, ma di notte si trasforma in un luogo di tensioni. La convivenza tra studenti universitari, famiglie storiche e migranti è molto complicata. I cambiamenti più evidenti, però, si percepiscono a Brescia. Il quartiere Carmine, per esempio, con le sue antiche vie che un tempo erano dimore di nobili e artigiani ora ospitano comunità multietniche che convivono difficilmente. È in provincia di Bergamo, però, una cittadina che è molto cambiata: Zingonia, nata come modello negli anni Sessanta, è oggi sinonimo di degrado e marginalità. Le torri di cemento, un tempo simbolo di progresso, dominano il paesaggio con il loro silenzio spettrale. La convivenza tra residenti italiani e migranti (il 50,1 per cento della popolazione totale) è molto complicata. La stampa locale ha già lanciato l’allarme: «Basta una scintilla». Anche Bergamo ha il suo ghetto: quartiere Boccaleone, lo chiamano «il buco nero» cittadino. Qui si trovano ancora cumuli di siringhe per strada e la roba viene spacciata perfino nell’edicola dei giornali. Ai controlli delle forze dell’ordine spesso saltano fuori armi e droghe sintetiche. È anche un rifugio che nasconde le auto rubate. Uno scenario surreale accoglie i visitatori a Sampierdarena di Genova. Il passato operaio è inciso sui muri di abitazioni e baracche abbandonate, ora rifugio per chi è in cerca di un tetto. L’equilibrio tra comunità immigrata, proveniente da Sud America, Africa e Asia, e residenti storici è precario. Ma un universo a sé stante è Arcella di Padova. È qui che la città diventa globale, tra botteghe africane e bazar pakistani. Gli stranieri superano il 32 per cento dei residenti e la statistica esclude gli irregolari. Le risse non si contano e c’è chi se ne va in giro col machete. A Verona, invece, c’è un quartiere di frontiera: Borgo Roma. Né troppo italiano né troppo straniero. Il vialone con pizzerie e macellerie etniche viene attraversato da ragazze in minigonna o col chador. Il quotidiano L’Arena un po’ di tempo fa lo ha descritto così: «È la terra delle baby gang e degli studenti universitari, dei senzatetto che dormono al parco e dei professori che al parco lasciano l’auto per andare a lavorare al Policlinico». E ovviamente non mancano le tensioni sociali. Più a Est le cose non cambiano. Marghera, simbolo di un’Italia industriale in declino, è ricettacolo di occupanti abusivi: senzatetto, immigrati e tossicodipendenti espulsi dall’ex Cral Montedison. Stranieri di varie etnie spesso si contendono le strade a colpi di mazze o bottiglie rotte. Non è tanto diversa la Bolognina a Bologna, ex quartiere operaio oggi mix di africani e stranieri dell’Est Europa, dove la microcriminalità dilaga e gli scontri tra etnie non mancano. A Firenze le aree periferiche che incarnano tensioni che riflettono le disuguaglianze urbane sono le Piagge e via Pistoiese. La prima è segnata da degrado e criminalità. Gli alloggi a basso costo hanno attirato molti stranieri. La seconda, invece, evidenzia situazioni di disagio estremo: sotto il Ponte all’Indiano, accampamenti di fortuna ospitano persone in condizioni di grave precarietà, aggravate da una risposta istituzionale insufficiente. A Pisa è attorno alla stazione che si percepisce un’aria di sospensione. La zona, cuore pulsante di arrivi e partenze, è intrappolata in un limbo di degrado urbano. Parchi trasformati in dormitori improvvisati, angoli delle strade che raccontano storie di marginalità e sopravvivenza, tra microcriminalità e spaccio. E anche Prato, un tempo simbolo del tessile italiano, oggi racconta una storia diversa. Le strade del centro storico e le periferie industriali parlano cinese. Dietro le saracinesche delle fabbriche si nascondono spesso orari di lavoro disumani, sfruttamento e clandestinità. Il disagio non si ferma al lavoro: le tensioni trovano sfogo nei mercati, nelle scuole e negli spazi pubblici, segnando una convivenza particolarmente difficile. Il Centro Italia non è immune. Le Corvetto della Capitale sono almeno tre. A San Lorenzo, ex quartiere operaio che oggi è il centro nevralgico della vita universitaria romana, ha un lato oscuro. Di notte le piazze diventano luoghi di spaccio e risse tra immigrati. Mentre la stazione Termini è un microcosmo caotico e conflittuale. È qui che il disagio sociale incontra il turismo di massa. I migranti, spesso senza un luogo dove andare, condividono gli spazi con i viaggiatori. La criminalità è una realtà tangibile, ma i tentativi di riqualificazione, seppur visibili, sembrano sempre un passo indietro rispetto alle necessità. Al Pigneto, tra murales e locali alla moda, basta allontanarsi dai percorsi più battuti per incontrare povertà, spaccio e tensioni sociali. La vita notturna nasconde un cuore ferito, dove i residenti storici lottano per preservare l’identità del quartiere in un contesto di trasformazione urbana tumultuosa. A Napoli il simbolo di una battaglia che non si è mai conclusa è Scampia. I giganteschi palazzi che svettano contro il cielo sembrano prigioni di cemento. Qui la criminalità organizzata ha dettato legge per anni, ma la vera guerra è quella della sopravvivenza quotidiana. Molti migranti si ritrovano catapultati in questo contesto senza alcuna rete di supporto. Lo Zen (Zona espansione nord) è il simbolo del sogno urbanistico infranto di Palermo. Progettato per essere una città nella città, si è trasformato in un labirinto di cemento segnato da degrado e disoccupazione. Qui, la convivenza tra italiani e migranti è fragile, appesantita dalla povertà e dalla criminalità diffusa. Strade polverose, edifici sventrati e piazze abbandonate raccontano una storia di abbandono istituzionale. E a Catania è il San Berillo il quartiere intriso di contraddizioni. Ex polo commerciale della città, negli anni ha subito un lento declino, diventando un rifugio per emarginati e migranti. I vicoli stretti e i palazzi fatiscenti nascondono un’umanità variegata: sex worker, artisti, e comunità di stranieri si intrecciano in un tessuto sociale complesso. Segno che ogni grande città ha la sua Corvetto. 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Con una rete di giovani, soprattutto immigrati di seconda generazione, pronti a creare il caos confluendo anche da altri quartieri. Come si presentano queste bande giovanili? «Sono gruppi composti principalmente da adolescenti e giovani adulti che si rendono responsabili di atti di violenza, furti e intimidazioni, mirando principalmente ai loro coetanei, ma anche a figure adulte o alle stesse istituzioni. Si tratta di un processo di radicalizzazione sociale, dove l’appartenenza al gruppo diventa una via di affermazione personale, una risposta alla solitudine e una forma di riscatto sociale». E perché si concentrano in alcuni agglomerati urbani? «Nelle periferie delle grandi città la disoccupazione giovanile, il degrado urbano e la mancanza di opportunità educative e lavorative creano un terreno fertile per la loro proliferazione. In queste aree, spesso abbandonate dalle politiche sociali e carenti di risorse, le gang trovano rifugio in spazi pubblici inaccessibili o degradati, che diventano teatri di aggregazione e di attività illecite». Ma cosa spinge questi ragazzi ad aggregarsi con la finalità di controllare un territorio o di commettere dei reati? «L’appartenenza a un gruppo è un modo per guadagnare visibilità e rispetto, soprattutto in contesti scolastici o sociali informali, dove il riconoscimento da parte dei pari è fondamentale. E di solito si stringono attorno a un leader, che è il membro centrale, spesso il più carismatico e temuto, che prende le decisioni cruciali e guida le azioni del gruppo. È un’organizzazione gerarchica, con vice capi, soldati e aspiranti. E a proposito della “rete” alla quale si faceva riferimento prima, in alcune gang è presente anche la figura del traghettatore, che mantiene i legami con altre bande o addirittura con la criminalità organizzata». Di che numeri si parla? «In particolare, le gang giovanili tendono a essere composte da meno di dieci membri, con una predominanza di giovani maschi tra i 15 e i 24 anni. Gli atti di violenza, come le rapine, sono aumentati del 7,69 per cento nell’ultimo anno. C’è da dire, però, che secondo i dati più recenti, nel 2023 si è registrata una diminuzione delle segnalazioni di minori denunciati per atti di criminalità comune, con un calo del 4,15 per cento rispetto all’anno precedente. Tuttavia, nel panorama della criminalità giovanile, oltre agli atti di bullismo, la fanno da padrone le estorsioni e soprattutto le risse». Risse che spesso, come ci restituisce la cronaca, avvengono tra etnie diverse oppure solo per dimostrare la forza di un gruppo. E ad alimentare questo fenomeno c’è la musica. «Un aspetto interessante è proprio la stretta connessione con la musica trap, un genere che ha acquisito un’enorme popolarità tra i giovani e in particolare proprio in quelli che vivono nelle periferie urbane. La trap, con i suoi testi che celebrano la violenza, la ribellione e uno stile di vita consumato da illegalità, è spesso vista come una sorta di “colonna sonora” delle baby gang. Molti membri di questi gruppi si identificano con le storie raccontate nei brani trap, dove la vita di strada, i conflitti e il superamento delle difficoltà tramite il crimine vengono glorificati. Uno studio condotto nel 2020 ha evidenziato come la musica trap possa agire come un fattore di normalizzazione di comportamenti violenti tra i giovani. La ricerca ha mostrato che il 40 per cento dei ragazzi intervistati riteneva che le tematiche trattate nei testi trap fossero una riflessione autentica della realtà di strada, mentre il 30 per cento di essi si sentiva ispirato dalla figura del “gangster” celebrata nelle canzoni. La musica, quindi, può alimentare la percezione che il crimine e la violenza siano inevitabili o persino necessari per guadagnarsi rispetto e riconoscimento, un concetto che si riflette nelle dinamiche delle baby gang». Il tutto poi viene riversato nella vita di tutti i giorni e in strada. «Il linguaggio esplicito e l’uso frequente di simboli legati alla criminalità nei video musicali contribuiscono a rafforzare proprio l’immagine di una vita di strada come alternativa desiderabile alla vita ordinaria. La continua esposizione a questo tipo di contenuti può accrescere la probabilità che alcuni giovani vedano nelle baby gang un’opportunità per realizzare un’idea di “successo” che si allinea con quella rappresentata nei brani trap. È importante notare che, pur non essendo la musica trap la causa diretta delle gang, essa funge da catalizzatore, amplificando modelli comportamentali già presenti nei contesti di marginalità e povertà». Dove basta una scintilla a produrre le scene da guerriglia che abbiamo visto a Milano. Ma è possibile prevenire? «La prevenzione di questo fenomeno è estremamente complessa per vari motivi. In primo luogo la frattura sociale tra le aree periferiche e il resto della città crea una sorta di disconnessione tra le istituzioni e i giovani a rischio. Le politiche di intervento non affrontano le cause profonde della disaffezione sociale, come la mancanza di opportunità educative, di spazi di aggregazione e di sostegno psicologico. In molte aree, l’assenza di strutture come centri sportivi, attività culturali o luoghi di socializzazione sicuri contribuisce ad alimentare la frustrazione e la ricerca di risposte alternative nel crimine. Inoltre, la scarsa attenzione ai bisogni emotivi e psicologici dei giovani, che vivono situazioni di povertà o disagi familiari, rende difficile interrompere i percorsi di radicalizzazione e prevenire l’ingresso dei giovani nelle baby gang». Siamo spacciati, insomma? «Per contrastare efficacemente il fenomeno è necessario un approccio integrato che vada oltre le politiche punitive, investendo in programmi di inclusione sociale, di educazione, di sostegno psicologico e di creazione di opportunità per i giovani nelle aree più vulnerabili. Solo attraverso un intervento strutturato e preventivo sarà possibile ridurre la diffusione di questi gruppi e restituire ai giovani un’alternativa valida al crimine e alla violenza».
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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Nel riquadro, l'attivista Blm Tashella Sheri Amore Dickerson (Ansa)
Tashella Sheri Amore Dickerson, 52 anni, storica leader di Black lives matter a Oklaoma City è stata accusata da un Gran giurì federale di frode telematica e riciclaggio di denaro. Secondo i risultati di un’indagine condotta dall’Fbi di Oklahoma City e dall’Irs-Criminal Investigation e affidata procuratori aggiunti degli Stati Uniti Matt Dillon e Jessica L. Perry, Dickerson si sarebbe appropriata di oltre 3 milioni di dollari di fondi raccolti e destinati al pagamento delle cauzioni degli attivisti arrestati e li avrebbe investiti in immobili e spesi per vacanze e spese personali. Il 3 dicembre 2025, un Gran giurì federale ha emesso nei confronti dell’attivista un atto d’accusa di 25 capi, di cui 20 di frode telematica e cinque di riciclaggio di denaro. Per ogni accusa di frode telematica, Dickerson rischia fino a 20 anni di carcere federale e una multa fino a 250.000 dollari. Per ogni accusa di riciclaggio di denaro, l’attivista rischia fino a dieci anni di carcere e una multa fino a 250.000 dollari o il doppio dell’importo della proprietà di derivazione penale coinvolta nella transazione. Secondo gli inquirenti, a partire almeno dal 2016, Dickerson è stata direttore esecutivo di Black lives matter Okc (Blmokc). Grazie a quel ruolo Dickerson aveva accesso ai conti bancari, PayPal e Cash App di Blmokc.
L’atto d’accusa, la cui sintesi è stata resa nota dalle autorità federali, sostiene che, sebbene Blmokc non fosse un’organizzazione esente da imposte registrata ai sensi della sezione 501(c)(3) dell’Internal revenue code (la legge tributaria federale americana), accettava donazioni di beneficenza attraverso la sua affiliazione con l’Alliance for global justice (Afgj), con sede in Arizona. L’Afgj fungeva da sponsor fiscale per Blmokc, alla quale imponeva di utilizzare i suoi fondi solo nei limiti consentiti dalla sezione 501(c)(3). L’Afgj richiedeva inoltre a Blmokc di rendere conto, su richiesta, dell’erogazione di tutti i fondi ricevuti e vietava a Blmokc di utilizzare i suoi fondi per acquistare immobili senza il consenso dell’Afgj.
A partire dalla tarda primavera del 2020, Blmokc ha raccolto fondi per sostenere la sua presunta missione di giustizia sociale da donatori online e da fondi nazionali per le cauzioni. In totale, Blmokc ha raccolto oltre 5,6 milioni di dollari, inclusi finanziamenti da fondi nazionali per le cauzioni, tra cui il Community Justice Exchange, il Massachusetts Bail Fund e il Minnesota Freedom Fund. La maggior parte di questi fondi è stata indirizzata a Blmokc tramite Afgj, in qualità di sponsor fiscale.
Secondo l’atto d’accusa, il Blmokc avrebbe dovuto utilizzare queste sovvenzioni del fondo nazionale per le cauzioni per pagare la cauzione preventiva per le persone arrestate in relazione alle proteste per la giustizia razziale dopo la morte di George Floyd. Quando i fondi per le cauzioni venivano restituiti al Blmokc, i fondi nazionali per le cauzioni talvolta consentivano al Blmokc di trattenere tutto o parte del finanziamento della sovvenzione per istituire un fondo rotativo per le cauzioni, o per la missione di giustizia sociale del Blmokc, come consentito dalla Sezione 501(c)(3).
Nonostante lo scopo dichiarato del denaro raccolto e i termini e le condizioni delle sovvenzioni, l’atto d’accusa sostiene che a partire da giugno 2020 e almeno fino a ottobre 2025, Dickerson si è appropriata di fondi dai conti di Blmokc a proprio vantaggio personale. L’atto d’accusa sostiene che Dickerson abbia depositato almeno 3,15 milioni di dollari in assegni di cauzione restituiti sui suoi conti personali, anziché sui conti di Blmokc. Tra le altre cose, Dickerson avrebbe poi utilizzato questi fondi per pagare: viaggi ricreativi in Giamaica e nella Repubblica Dominicana per sé e i suoi soci; decine di migliaia di dollari in acquisti al dettaglio; almeno 50.000 dollari in consegne di cibo e generi alimentari per sé e i suoi figli; un veicolo personale registrato a suo nome; sei proprietà immobiliari a Oklahoma City intestate a suo nome o a nome di Equity International, Llc, un’entità da lei controllata in esclusiva. L’atto d’accusa sostiene inoltre che Dickerson abbia utilizzato comunicazioni interstatali via cavo per presentare due false relazioni annuali all’Afgj per conto del Blmokc. Dickerson ha dichiarato di aver utilizzato i fondi del Blmokc solo per scopi esenti da imposte. Non ha rivelato di aver utilizzato i fondi per il proprio tornaconto personale.
Tre anni fa una vicenda simile aveva travolto la cofondatrice di Black lives matter Patrisse Cullors, anche lei accusata di aver utilizzato i fondi donati per beneficenza al movimento per pagare incredibili somme di denaro a suo fratello e al padre di suo figlio per vari «servizi». Secondo le ricostruzioni del 2022, Paul Cullors, fratello di Patrisse, ha ricevuto 840.000 dollari sul suo conto corrente per aver presumibilmente fornito servizi di sicurezza al movimento, secondo i documenti fiscali visionati dal New York Post. Nel frattempo, l’organizzazione ha pagato una società di proprietà di Damon Turner, padre del figlio di Patrisse Cullors, quasi 970.000 dollari per aiutare a «produrre eventi dal vivo» e altri «servizi creativi». Notizie che, all’epoca, avevano provocato non pochi malumori, alimentate anche dal fatto che la Cullors si professava marxista e sosteneva di combattere per gli oppressi e le ingiustizie sociali.
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